Questa foto è terribile.

Proprio in quel momento, la torre è quella sud. La foto è emersa da poco o, almeno, io l’ho vista per la prima volta pochi giorni fa. Mi ricorda certe immagini dell’Hindenburg.
Questa foto è terribile.

Proprio in quel momento, la torre è quella sud. La foto è emersa da poco o, almeno, io l’ho vista per la prima volta pochi giorni fa. Mi ricorda certe immagini dell’Hindenburg.
Quando furono riportate alla luce le fondamenta del Globe Theatre di Shakespeare a Londra, gli archeologi scoprirono anche grandi quantità di resti di gusci di nocciole tra le murature e le pavimentazioni. Che ghiottoni di nocciole questi spettatori, si dissero gli archeologi in prima battuta, questi appassionati di teatro elisabettiano che con il loro sacchettino di granaglie seguivano attentamente le messe in scena dei The Lord Chamberlain’s Men.

Distrutto da un incendio il 29 giugno 1613, il Globe Theatre fu ricostruito entro il mese di giugno 1614, chiuso con un’ordinanza nel 1642 e definitivamente demolito nel 1644. L’attuale Shakespeare’s Globe, ricostruzione del 1997, discutibile perché non abbiamo immagini fedeli dell’originale, si trova un po’ spostato rispetto all’originale, che è ora sotto un condominio.
Comunque, da quel sotto-condominio emersero un sacco di gusci di nocciole. Qualche archeologo più dubbioso non si fece bastare la tesi degli spettatori ghiottoni e andò oltre, scoprendo che in realtà i gusci di nocciola facevano parte dei materiali da costruzione: venivano infatti miscelati con polvere e sabbia per creare una malta compatta che costituiva il pavimento dei teatri di età elisabettiana. Era tanto compatta che fu difficile da rompere anche quando venne ritrovata quattrocento anni dopo e, non meno, lasciava passare l’acqua senza che il pavimento diventasse scivoloso. Niente male. Immagino l’impresa edile mangiare un sacco di nocciole, prima dei lavori. Un pavimento del genere fu poi ricreato nel nuovo teatro.
Il fatto rilevante, secondo me, è il processo di comprensione, ovvero inseguire fino in fondo la spiegazione davvero soddisfacente e non accontentarsi della prima ipotesi: significa non solo scrupolo ma farsi carico delle cose e delle domande. E ciò vale per tutto, anche su ciò che riguarda sé stessi, non solo le questioni archeologiche.
Si era ripromesso di farlo e l’ha fatto: sei mesi da eremita in una capanna siberiana, sulla sponda del lago Bajkal. Mi piacerebbe.

È ‘Nelle foreste siberiane’ di Sylvain Tesson, nonostante sia più o meno stanziale è un libro di viaggio ed è anche appassionante: le sue visite ai ‘vicini’ sono ilari, i luoghi magnifici e paurosi, curiosi gli elenchi dei libri che si è portato con sé, la condivisione è assoluta, riporta anche tutta l’attrezzatura che ha scelto, ammette di aver conosciuto gioia e disperazione. «Ogni giorno ho annotato i miei pensieri su un quaderno. Adesso quel diario e nelle vostre mani».
Il punto è però un altro, la gestione del tempo: «Nella taiga ho subito una metamorfosi. Nell’immobilità ho ritrovato qualcosa che il viaggiare non mi dava più. Il genio del luogo mi ha aiutato a addomesticare il tempo. Il mio eremitaggio è diventato il laboratorio di queste trasformazioni». Tesson è forse il più interessante tra i viaggiatori degli ultimi anni.
Per curiosità, il primo libro che Tesson ha portato è Quai des enfers di Ingrid Astier e l’ultimo I tre avventurieri di José Giovanni.

Il professor Lucertola, Lupetta e il tigrotto, il vagabondare nel mondo alla rovescia, quello degli acquari delle banche, degli ospedali senza umanità, un mondo fatto per i miei sedici anni desiderosi di libertà e avventure e di sovversione del potere. Sì, anche con uno sberleffo. Al bar Sport sotto il mare era tutto più sofisticato, a cominciare dalla Luisona, noi al bar allora non ci eravamo mai stati, noi stavamo per strada e lì sì che bisognava essere guerrieri, se possibile comici e non troppo spaventati. Bravo Benni, delicato, gentile, spiritoso, sempre con un tocco affettuoso. Musica per vecchi animali fu definito così, “Inconsistente, grossolano” dalla commissione film della CEI nella valutazione pastorale, ahah, e non poteva esserci vittoria migliore su quei minchioni. Dissero anche: “Tentare di trovare un senso al ‘non senso’ del film è impresa disperata”, non ci arrivavano proprio, questi poveri di spirito. Quale migliore conferma? E noi giù per strada a ridere di tutto ciò che voleva l’ordine, l’esercito, le famiglie, la scuola, le banche, i sindaci, gli ospedali, abbattendo tutto con il kung fu. Ciao, Benni, e oh: grazie!
A Londra, sul muro della Corte di giustizia.

Formidabile la foto col parruccone vero che passa nel momento davanti al parruccone bidimensionale.
Vista così parrebbe un’indicazione generica, la magistratura che se la prende con chi manifesta dissenso, in realtà lo stencil arriva due giorno dopo il fermo di 890, ottocentonovanta!, persone in corteo che protestavano contro il provvedimento contro il gruppo Palestine Action. La solerzia delle forze dell’ordine quando si parla di Palestina è sempre sorprendente.
[Aggiornamento] Ovviamente il mural è già stato cancellato ma mica perché lo Stato inglese è repressivo, cioè lo è ma non per questo, bensì perché è una Corte di giustizia, “listed grade 1”, quindi nessuna scritta o manifesto è tollerato. Il che fa ovviamente parte dell’idea stessa di street art. Nemmeno a dirlo. Anche questa, nella foto, è una parte parecchio divertente del processo.

Ero scettico, lo ammetto. Pensavo fosse l’ennesimo libro di un viaggio anche interessante ma raccontato da dilettante, cosa che accade di frequente. Non scritto male, intendo viaggiato male, cioè da coloro che non sono in grado di trarre le giuste conclusioni dai viaggi interessanti che fanno. Per esempio, e sì che ha fatto una cosa notevole, il giovane uomo italiano che ha appena compiuto un giro del mondo a piedi, che ha messo avanti l’esperienza da mettere in carnet rispetto all’approfodimento e al confronto e dalle interviste non emerge, mi pare, molto di rilevante.
E invece no, ‘Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale’ di Tino Mantarro è notevole, bel viaggio e bel libro, raccoglie e racconta bene e con il giusto modo. Senza romanzare e senza trovare il bello per farsi bello. Certo, è un libro per appassionati di terre ex sovietiche, come dice lui: «Sono sensibile all’estetica dello sfascio» e io mi allineo. Grazie a R. che me l’ha consigliato sulle strade azerbaigiane, i libri di viaggio sono come i viaggi, si suggeriscono e condividono, difficile si trovino.

E se poi si è stati a Baku, a Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, Dušanbe, Khujand, Bişkek e così via è meglio, che si visualizza. Ripeto, per appassionati del genere-viaggio nelle repubbliche ex sovietiche. O come dice Tesson – prossimo post sui libri di questo genere – che nulla gli piace di più di «una cittadina che si chiama Komsomol o Partisan, semideserta, che sgocciola fanghi di perforazione sotto un cielo d’acciaio, appoggiata alle stampelle di piloni storti e tralicci, abitata da ubriaconi, da hooligan, da ragazze imbronciate e anziani che rimpiangono sempre i tempi dell’Unione sovietica». Anche qui, concordo e già mi viene lo spasmo di preparare lo zaino. Adesso punto Pamir e Karakorum Highways.
Anche Mondrian dipinse mucche.




Scivolando, pian piano e giustamente, verso l’astratto.
Il Mondrian successivo, poi, quello che conosciamo tutti, ha trovato uno strano connubio, incolpevole perché postumo, tra i riquadri colorati e le vacche, va’ a sapere perché. Per esempio, la “Moondrian Cow” – ahah, ottimo nome – di Jon Eastman:

Replicata poi variamente anche a grandezza naturale, da pascolo:

Se è vero che all’interno del movimento De Stijl qualcun altro si occupò di vacche, come per esempio Theo van Doesburg in Study for Composition (The Cow) del 1917, il mistero resta tale.

Infatti, il connubio tra i rettangoli colorati di Mondrian e le mucche resta forte ed esplorato. Per esempio, ad Amsterdam un paio d’anni fa sono incappato in un artista che ai Mondrian sovrapponeva mucche, rimandando ad altro, Vermeer nel terzo da sinistra, per dire.

È vero, c’è anche un cavallo. Il mistero resta insoluto, le mucche di Mondrian hanno più di un secolo e l’arte del Novecento andrebbe riscritta alla luce di questo fatto che ho qui evidenziato. Attendo inviti a conferenze.
Ah, a margine: il palazzo di Booking dietro, in fondo alla piazza, l’hanno acquistato con i miei soldi che spendo per risolvere misteri dell’arte.
Uno studio non so quanto affidabile sostiene che il leone alato su una delle due colonne di piazza San Marco possa essere della dinastia Tang e, quindi, provenire dalla Cina.

La vicenda delle due colonne, che dovevano essere tre ma una naufragò, è nota: l’erezione delle due colonne risalirebbe alla seconda metà del XIII secolo, perché considerando i marmi di cui sono composte (marmo rosso egiziano per la colonna di San Todaro e marmo troadense per la colonna di San Marco), ampiamente utilizzati nella tarda antichità, è quasi certa la loro provenienza da Costantinopoli, visto che dopo l’impero romano nessuno ebbe la capacità tecnica ed economica per reperire colonne di quella mole e qualità. Se è quindi abbastanza certo fare risalire lo spostamento e l’erezione a Venezia al periodo dell’Impero latino di Costantinopoli, tra il 1204 e il 1261, la vicenda delle statue è meno nota.
Il leone alato è una scultura bronzea molto antica, si ritiene greca o siriaca, probabilmente in origine una chimera, cui vennero successivamente aggiunte le ali per chissà quali vie traverse. In effetti è ricciolone mica poco, ricorda il medio oriente. Almeno fino allo studio di oggi, che ne afferma l’origine cinese, sia per morfologia stilistica che per presunti studi sugli isotopi del piombo contenuto nel bronzo. Niente di più probabile, comunque, visti i traffici veneziani con l’oriente, magari è venuta a cavallo con Marco Polo. O volando, viste le ali. Ancor più probabile oggi che il leone di Venezia sia ‘made in China’, non fa una piega.
Oh, “la realtà ha un limite”.

Aspetto i marziani (di fatto) con ansia.

Ma magari, che nostalgia: ogni viaggio in auto cominciava con ‘Cronaca vera’ in edicola.
Vabbè, senza malvolenza ma mi è capitato lui, oltre all’appunto di ieri su la Breve storia dell’arte di Claudio Strinati, un paio di scivoloni dovuti veramente all’assenza di una qualche revisione pre-pubblicazione, quanto mancano gli editor nelle case editrici. Sono entrambi veniali ma, insomma, l’editore è Salani, non proprio uno da sottoscala:
“l’imperatore del Sacro Romano Impero, re dei Romani e di Gerusalemme e re di Sicilia, Federico II di Svevia Hohenstaufen, nipote di Federico Barbarossa e figlio di Costanza d’Altavilla.
Nato nel 1194 e morto nel 1251 in Italia, Federico è stato il più cosmopolita, laico, progressista, illuminato sovrano dell’Europa del tempo”.
D’accordo su tutto, per carità, ogni parola buona su Federico II è ben spesa, ma era il 1250.
“Le figure di San Clemente o dell’Arazzo di Bayeux sono concettualmente molto più vicine ai Peanuts (opere del X secolo) che al Caravaggio (autore del XVII secolo)!”.
Questa è dura, se fosse solo un refuso, mancando una X, l’ordine dell’elenco dovrebbe essere invertito: invece i Peanuts nel decimo secolo è proprio un errore, marcato ancor di più dall’essere in una frase dal tono scherzoso.
Ho l’impressione ce ne fossero di più ma già tre refusoni come questi per un testo solo sono parecchio. Peccato, perché il racconto è gradevole e istruito, ovviamente, e questo tipo di errori sono in grado di rovinare il piacere. Editor, editor, editor. E correttori di bozze, non è vero risparmio, matti.