minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: due, il treno magico del tempo

Un missile lanciato nelle piane carpatiche, un’idea socialista scagliata nel futuro, una capsula proiettata nello spazio e nel tempo, cioè nel tempo eccome, nello spazio non tanto, con i suoi trentacinque chilometri all’ora di media: è il Prietenia, il treno che stiamo per prendere e che costella i miei migliori sogni di pianura ex-sovietica da molte notti.
Ogni sera, alle 19:10 dalla Gara de Nord di Bucarest parte il treno notturno per Kyiv via Chişinău e così al contrario il giorno dopo e via così da decenni e, spero, per altri decenni. Il tempo è stato clemente con questo treno nel senso che è sì trascorso, e si vede, ma non è passato, nel senso che non è svanito: è lì, tutto da vedere. La politica con i propri simboli è ancora lì; l’attitudine al lavoro anche, quel modo tutto socialista non solo di non svicolare la fatica ma renderla anzi un momento nobile della vita e della giornata, sulla quale costruire un sistema; la tecnologia pure, perché è quella in ghisa che prima di deformarsi devono passare le ere. Eccoci qua.

All’annuncio del binario, il cinque, una folla ammandriata con valigie ponderose, trolley importabili, sacchetti di plastica intrecciata, borsine e ceste si lancia ai vagoni, probabilmente non avendo affrontato la spesa della prenotazione. Noi esitiamo, anche perché i vagoni non sono numerati e il nostro, l’uno, non è né all’inizio né alla fine, ma più o meno in mezzo. Non sarà l’ultimo dei misteri, ci sono cose che sa solo il capotreno e noi non siamo nessuno per obiettare. Non è un treno per deboli o malfermi o, men che meno, disabili, il primo gradino è sopra il ginocchio stando sulla banchina, allego foto all’arrivo a Chişinău con luce a dimostrazione.

Ma se la meccanica non aiuta, il socialismo non lascia indietro nessuno, e chi ha la gamba molla o corta viene aiutato con dignità e rispetto, perché alcuno rimanga indietro. Già capire quali siano le nostre cuccette non è banale, sia perché le targhette sono in mezzo a due scompartimenti, potrebbe essere di qua come di là, sia perché una delle nostre cuccette è già occupata da una ragazza, perplessa quanto noi dalla commistione di genere. Ma benedetta, visto che parli la lingua approfondisci dunque e scopri l’arcano. Lo fa solo dopo molti pensamenti e se ne va due scompartimenti più in là, vitdevuimen, dice. Giusto. Tempo cinque minuti e arriva uno dei nostri compagni di stanza ed è un giovanile lavoratore di frontiera moldavo che torna da una settimana in Romania a paga maggiore verso casa ed è, urrà, appestato come non mai, naso gola bronchi peste bubboni vari. Parla qualcosa di italiano, dobbiamo essere cauti nei commenti e discorsi e respirare il meno possibile di ciò che lui emette. Il capovagone ci consegna una bustina ciascuno che contiene una federa, un lenzuolo sotto e uno sopra, un asciugamanino, su ogni cuccetta c’è un cuscino e un materasso arrotolato che, come minimo, è servito alle truppe in difesa di Stalingrado. Siamo in estasi.
Il treno parte, sobbalzando come se i freni staccassero di botto, e prosegue con un curioso andamento, muovendosi in avanti e indietro nella direzione del moto, non tra destra e sinistra come ci si aspetterebbe. Il capovagone ci fa capire che dovremmo stare quieti nello scompartimento mentre noi percorriamo ogni spazio in lungo e in largo preda di entusiasmo beota per la novità e creiamo scompiglio nell’ordine delle cose con cui il socialismo procede per viaggi quinquennali. Fuori è completamente buio ma c’è sempre qualche luce artificiale che annuncia impianti di qualche tipo sparsi nella pianura carpatica rumena. Il corridoio di ogni vagone è coperto da un lungo tappeto tessuto appositamente, così come ogni scompartimento, ogni finestrino è contornato da tende beige molto spesse con il marchio delle ferrovie moldave, ogni vetro ha due bandierine colorate con i simboli moldavi, le cuccette sono in pelle bordeaux, c’è persino una manopola con su scritto радио, ‘radio’ in russo, c’erano anche sui nostri treni, e delle prese elettriche, chissà se abbiano mai funzionato. Il tavolino nel mezzo ha una tovaglia uguale alle tende. Tutto quanto descritto ha almeno vent’anni più di me, come minimo. Il nostro compagno di scompartimento si mette a dormire, sono le otto, e noi continuiamo a scoprire meraviglie che ci comunichiamo tutti eccitati.

Solitamente affido alle parole la descrizione di ciò che vedo, senza inserire fotografie che diano la percezione esatta, volendo bastanti le parole appunto, però stavolta farò un’eccezione per questo treno perché mi rendo conto che l’immaginazione spesso non possa raggiungere certe vette della realtà. Ecco dunque il corridoio del vagone, agghindato come detto:

Il tappeto del pavimento è ricoperto perché non venga sporcato, a mattina il capovagone lo rimuoverà quando raccoglierà le lenzuola, contandole tutte. E lo scompartimento, a quattro cuccette, il massimo ottenibile per mescolarsi il più possibile.

Mancano ancora molti gradini per il raggiungimento della meraviglia complessiva, vorrei dunque documentare il bagno, non troppo dissimile dai nostri, se non fosse per le indicazioni di water e lavandino.

Lo scarico è il pedale a fianco della tazza e per compiere l’operazione complessa dello scarico, in cui di fatto si ribalta il coperchio al fondo del water scaricando tutto sui binari, queste sono le istruzioni:

Chissà il manuale di procedure di sicurezza di Chernobyl. Ma la seconda cosa che ci manda più in estasi è il riscaldamento del vagone, un vano a fianco dell’entrata che contiene una vera, unica, intoccata e socialista caldaia a legna o carbone, a seconda della disponibilità.

Ovvero esattamente come funziona la MIR. Avarija, avarija. Sistemati i letti, messo a nanna il nostro compagno habitué che ha ormai perso il senso della meraviglia – sai com’è, trivigante, lui lavora -, resta una sola cosa da fare: andare al vagone ristorante. La vera perla di tutto il treno e di tutto il viaggio.
Formica, legno, bottiglie di alcoolici dalla vodka alla birra in ogni formato possibile, bicchieri di vetro spaiati, tavolini senza sedie, snacks dal biscotto al cioccolato alle patatine alla paprika, luci al neon, tutto è perfetto e non potrebbe essere meglio.

Anzi sì, lo può. Quando appare il barista, ristoratore dalla notte dell’Unione sovietica tutto assume un’altra aria: solido e bonario, vestito di una meravigliosa maglietta con scritto ‘fearless‘ in ogni colore e chiaramente strizzatoci dentro, e di un grembiule fatto della stessa stoffa delle tende che lo rende una specie di massaia siberiana accondiscendente e spietata allo stesso momento, ci serve le quattro birre con cui inauguriamo il viaggio, due Chişinău e due Timisoreana per il nostro litro cadauno.

Una ragazza olandese, una famiglia rumena con due bambini e una coppia di inglesi sono i nostri compagni di carrozza ristorante. Oddio, bar, diremmo finora. Finché non succede l’inaspettato: la famiglia rumena, che capisce quel che si dice, ordina da mangiare e l’uomo dietro il banco, la colonna angolare sulla quale questo treno si regge in piedi, l’uomo per cui l’Unione sovietica sarebbe ancora in piedi se fosse per lui, colui che avrebbe potuto salvare il socialismo e portare uguaglianza nel mondo, si reca nel retro del suo bugigattolo e con congruo tempo e modestia di mezzi prepara il piatto unico del treno magico:

È l’accadimento più bello ci potesse capitare, facciamo immediatamente gesto di altridue per noi e ci predisponiamo al momento sublime, ordinando nell’attesa un altro paio di Timisoreana. Mentre il padre della famiglia rumena consuma solitario gli otto chili di verza avanzata dai suoi familiari noi consumiamo la cena più buona e soddisfacente di sempre. Evviva il comunismo e la libertà, perdio. Lanciati per la pianura verso il confine, immaginiamo quante migliaia, centinaia di migliaia di persone avranno dormito ai nostri posti e mangiato il nostro piatto, sperato in un futuro migliore, sognato pace e serenità a bordo di questo treno. La proporzione dà alla testa, anche il treno procede a balzi nella sua media turbinosa e talvolta si ferma in un nulla misterioso che davvero è difficile interpretare. Non potrebbe essere meglio di così.

Non vorremmo andare a dormire, non vorremmo dormire mai più, tutto dovrebbe restare acceso per sempre. Ma la levataccia del mattino, la giornata in giro per Bucarest, l’economia del domani ci suggeriscono che sia meglio andarci, a dormire, e così è. Passata una mezz’oretta nel sonno dei giusti un po’ ubriachini il nostro compagno appestato comincia a russare come una locomotiva guidata a tutto vapore dal compagno Stachanov verso il sol dell’avvenire e fischi, versi e porconi non servono a nulla. Ed è qui che R. compie il gesto più generoso a premuroso che la storia umana ricordi: con sforzo titanico solleva la cuccetta con base-ghisa, con la mano restante fruga nella borsa e mi porge un paio di tappi per le orecchie, atto del quale non riuscirò mai a esprimergli compiutamente la riconoscenza che provo.
I tappi funzionano talmente bene che non mi sveglio nemmeno quando il capovagone passa di scompartimento in scompartimento ad accendere tutte le luci e a svegliarci, avvisandoci del border control: comincia così un processo di durata variabilissima per cui tra l’annuncio e la comparizione dei militari di frontiera passa un’ora, poi un appuntato raccoglie una pila così di documenti dei viaggiatori e si dilegua nel buio per un tempo indistinto ma non inferiore all’ora e mezza, io avrei bisogno di andare in bagno ma vengo rudemente dissuaso con il gesto della ‘x’ con gli avambracci avanti dal capovagone, la tengo coraggiosamente. Molto tempo dopo i documenti ci vengono restituiti, e la sensazione non è mai bella, essere senza documenti nel nulla senza il possesso della lingua, e noi dormiremmo anche, se non che ci viene preannunciato l’altro controllo, quello della frontiera moldava. Ah, che bravi, io nel frattempo valuto l’opportunità di farmela addosso, il che non mi pare nemmeno male come prospettiva, al momento. Il border control moldavo non è da meno e il tempo non è inferiore, la scomparsa identica, con la differenza di una poliziotta tozza che dice qualcosa in ogni scompartimento. Sembra passino giorni, le luci accese, ogni tanto un vociare e qualcuno che cammina nel corridoio, qualche cane abbaia, un tonfo ogni tanto, il treno irrimediabilmente fermo. So dove siamo, in prossimità di Albița, sul fiume Prut che fa da confine ma queste sono informazioni da carta, davvero chissà dove siamo, chissà che c’è là fuori. Chissà dove sono i nostri documenti. E mistero al mistero, il nostro coinquilino impacchetta la sua borsa e scompare. Non lo vedremo più.

Poi il treno si muove – ripeto: i documenti, madonna – e succede l’ultima cosa strepitosa del viaggio, l’attendevamo. Uomini all’ascolto, attenzione: questa sono più di mille cantieri messi insieme, più di cento ruspe enormi che lavorano all’unisono, è forse comparabile al solo Bagger 288 al lavoro, il valico insuperabile delle meccaniche in funzione. Il treno viene sollevato, vagone per vagone, di almeno un metro e mezzo, noi tutti dentro, e i carrelli europei sotto sfilati e sostituiti con quelli sovietici più larghi di dieci centimetri. Noi basiti facciamo foto e video e commentiamo a monosillabi estatici, vediamo un altro treno a fianco sollevato allo stesso modo. Ecco qua, la differenza: il molle mondo capitalista, avvezzo a schivare il lavoro più che si può, mondo ormai molle e putrescente, avrebbe messo due treni, uno di qua e uno di là e ci avrebbe fatto cambiare; il mondo socialista no, due volte al giorno solleva un treno intero e sostituisce tutte le ruote con la calma e la forza che il solo popolo unito può dare in nome del comune lavoro per uno scopo, facendo della fatica stessa una nobile motivazione. Che mondo, che politica, che persone, che unità. R. lancia un auspicio nel vuoto che i carrelli siano sistemati bene, ecco, che sarebbe importante, che non credo venga raccolto da alcuno. Ma meglio dirlo, comunque.

Tornano i documenti, le ruote sono quelle giuste, possiamo ripartire verso la meta, Chişinău e la Moldavia, ancora nel buio della profonda notte. Crolliamo, le emozioni sono state tante e incomparabili, rivolgiamo un pensiero interrogativo al nostro amico di scompartimento scomparso nella notte alla frontiera e ci chiediamo quale sia stata la sua fine, poi i binari proseguono e ciao, andiamo avanti. Ognuno badi alla propria pelle e alla propria valigia.
Sorge il sole e rivela una bella pianura tutta fatta di variazioni di marroni e arancioni autunnali, noi facciamo colazione con quel che avevamo comprato in stazione fidandoci di chi diceva che sul treno non ci fosse cibo – non fidatevi di quel che leggete in rete, tranne me in questo momento – e attendiamo l’arrivo alla stazione di Chişinău, dopo solo quindici ore e mezzo di viaggio per quattrocento chilometri, tra utopie, sogni ugualitari, amicizie tra popoli e persone, idee perenni e il tempo e lo spazio che ci circondano e che ci portano, come questo treno meraviglioso, dove vogliono e come vogliono.

In aggiunta e infine a quanto raccontato, il video di Zdob și Zdub e i fratelli Advahov, girato e scritto in parte sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico dei sogni e in parte sul diurno in senso opposto. È subito Kusturica.

Ricorderò tutto ciò con gioia, che tutti voi sopra e attorno il magico treno abbiate vita lunga e felice e sempre un piatto così da mangiare e una Timisoreana fresca.


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minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: uno, Bucuresti

Atterriamo all’aeroporto di Bucarest Băneasa Aurel Vlaicu, scelto apposta rispetto a quello grande perché sovietico nelle forme, coerente con il viaggio e vetusto nel tempo, secondo o terzo aeroporto ancora in uso più vecchio del mondo. Magnifico. Magnifico e piccolo, perfetto.

La Bucarest di oggi, rispetto a quella che ricordo nel 2003, è una città simile, schiacciata da cinquant’anni di dittatura insensata, il cui centro fu raso al suolo per farne un immenso viale trionfale che portasse al palazzo del parlamento, delirio finale di un regime ormai tumescente. A differenza di allora, la città è però piena di merci, di negozi che vendono merci, di ristoranti e bar che propongono merci, di grandi magazzini. Allora, e già era meglio di quindici anni prima, c’era poco e niente, molto grigio e palazzoni scoordinati. La devastazione ceauseschiana ebbe il suo fulcro negli anni Ottanta, con la costruzione del mastodonte palazzo, secondo o primo al mondo per volume, primo sicuro per pesantezza, e delle quinte scenografiche del vialone che a esso porta, tutti palazzi bianchi a sei o sette piani che fanno da cornice per alcuni chilometri. Scenografie perché il retro è piatto, non decorato. Le facciate, invece, essendo della fase tarda del regime e l’architettura locale contaminata da quegli anni, sono un misto tra un’esposizione di mobili a Dalmine, elementi neobabilonesi un po’ a casaccio, certe radio tonde e colorate della Philips di quegli anni, decorazioni da architetto lissonese che non ce l’ha fatta.

Un po’ Teheran, un po’ Dušanbe, un po’ Corviale. Si dice siano state abbattute trentottomila abitazioni per realizzare questa esuberanza di potere statale, peraltro decadente perché alla fine, Ceausescu e moglie sarebbero stati fucilati pochi anni dopo. La moglie Elena a proposito: la vera iena della coppia, ed è tutto dire, quarta elementare debolmente portata a casa, si fregiava di essere una testa fina appassionata di scienza al punto da costringere, dalla sua posizione, scienziati e ricercatori a pubblicare i propri studi a nome di lei che, così, incassava deferenti lauree ad honorem e titoli accademici, tutti prontamente ritirati cinque minuti dopo la fucilazione.

Alcuni cortili di palazzi enormi hanno ancora i segni degli spari all’interno. Sempre meno, perché il furore cementizio è ovunque e anche qui hanno ben compreso che per avere il turismo qualificato serve una città romantica che ha salvato il passato e insieme moderna contemporanea che trasudi aziende dinamiche. Al momento, il grosso del turismo sono ragazzotti europei che hanno già visto Amsterdam e che qui sognano grandi bevute e grandi conquiste. Avranno grandi conti da pagare.

Nella sala da concerti più bella della città, sovietica e attraente, sono esposti i manifesti degli spettacoli da qui a natale. Il nostro occhio locale ne coglie al volo due: dopodomani Al Bano e il 17 novembre i Ricchi e poveri. Ci sarebbe da fermarsi. Il bacino cantautorale è enorme, dal Kazakistan a Mosca a qui, avevo visto loro foto nell’albergo di Tashkent e manifesti ovunque, a Riga c’è un ristorante di Al Bano o che, comunque, ne propone i vini. Mancherebbe Pupo, mi chiedo che faccia, a questo punto.

Dopo tre magnifiche polpette di prugne ricoperte di crumble e cannella, scaldate e lasciate nella panna acida – R. mi spiega che esistono identiche a Trieste, gnocchi di prugne -, ottima merenda, ci avviciniamo allo scopo della nostra presenza qui, la Gara de Nord, la stazione da cui alle sette e dieci partirà il lanciatissimo per Kyiv, Kiev come abbiamo detto finora alla russa e come dovremmo smettere di dire. Via Chişinău, che è dove ci fermeremo.

Questo è il fulcro del viaggio, il senso, sono e siamo abbastanza emozionati, c’è un treno da prendere, la freccia dei Carpazi che parte da qualche binario qui davanti. È ora.


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minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: zero, trenulețul

Tornato dal Caucaso col fervore delle repubbliche ex-sovietiche, mi imbatto qualche mese fa in un breve post di un viaggiatore rumeno che racconta di aver preso l’ultimo treno sovietico d’Europa. Drizzo le antenne, annuso la preda. Ne fa un accenno ma quanto dice mi basta per trovare ciò che mi serve e per mettere in moto un nuovo piccolo progetto di viaggio, ci vuol poco. Ma in che senso sovietico? Nel senso dell’intoccato, del treno rimasto come era, cristallizzato nella formica degli anni Cinquanta, l’equivalente dell’esperienza autentica di viaggio per chi va a incontrare la tribù di Ubangi in Banzania. Ah, che sapore. Guardo qualche foto e non posso resistere, devo prenderlo, devo andare.
Ne parlo con R., ci siamo conosciuti in Azerbaijan e per quanto mi riguarda è stata comunanza immediata, confermata poi dai fatti. Non ci pensa su più di otto secondi, è a bordo del progettino, con entusiasmo. Lui come me scrive, fotografa, viaggia, si chiede e tutto questo lo fa con moderato garbo e con rispetto, per cui è un piacere confrontarsi anche su questo, non bastasse compone anche musica, c’è un pezzo ancor più profondo. Una novità, da un po’ tempo non faccio viaggi di esplorazione con qualcuno.

Il Prietenia è letteralmente ‘il treno dell’amicizia’ – la versione socialista del ‘Peace train’ stevensiano o del ‘Magic bus’ degli Who, ma c’era anche la ‘nave dell’amicizia’ che portava derrate americane a Napoli finita la guerra – e l’amicizia era tra la Repubblica Socialista di Romania e la Repubblica Socialista Sovietica Moldava, RSS Moldava, peraltro già unite a forza dopo la prima guerra mondiale. Ogni collegamento, ponte o treno o strada, tra paesi o repubbliche sovietiche problematiche di solito veniva battezzato in nome dell’amicizia, ancora oggi certi passaggi davvero complicati, per esempio il ponte a Termez tra Uzbekistan e Afghanistan – lo raccontavo qui – o quello sulla Narva tra Estonia e Russia, qui, mantengono la denominazione: più i rapporti erano rognosi e più era amicizia. Non si fraintenda, non era solo ipocrisia statale, parole vuote, l’aspirazione sottostante all’unione politica era davvero di relazioni pacifiche e di sviluppo comune, almeno nelle versioni più ideali del socialismo di quel tempo, chiaro che poi nella pratica le derive staliniane mostravano il contrario nonostante Chruščëv abbia provato a invertire un poco la rotta.

Farò una guida al ritorno, così che chi lo voglia possa ripetere agevolmente l’esperienza dell’ultimo treno sovietico d’Europa. Perché un progetto di viaggio è un progetto e vale la pena farlo al meglio, cioè così che ogni tassello sia al posto giusto; nel mio caso, in questo caso, per dirne tre: arrivare all’aeroporto giusto a Bucarest, il più bello e in tema tra i due; prenotare il posto migliore sul treno, così che il viaggio sia il più foriero di esperienze possibile, vale a dire lo scompartimento più numeroso disponibile; prenotare l’albergo a Chişinău più sovietico che ci sia, districandosi tra i relitti dismessi, maledizione, il Cosmos non c’è più. Io domani vado e vedo com’è, quando posso racconto che al di là le connessioni saranno più ballerine e saremo comunque in due, più scambio e confronto, meno tempo per scrivere e rimuginare del solito. Sono già proiettato nel mondo di Kusturica, il supermissile spaziale dei Carpazi mi porterà nel magico mondo della vodka, degli spari, dei bagni nel ghiaccio, dell’amicizia a pugni, nell’estetica dello sfascio che tanto apprezzo. Oltre a tutto, scelta non casuale se per me avesse un qualche tipo di senso, passare la notte degli spiriti e dei morti e dei vampiri su un treno notturno nelle pianure carpatiche spalando carbone sarebbe una cosa memorabile. Mi manca il costume, ora che ci penso. Cosa, dunque e in complesso, potrei chiedere di meglio?


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rappresentare sé stessi: Van Gogh e il costume favoloso

Qualche giorno fa al museo di Amsterdam ho fotografato uno degli autoritratti di Van Gogh, quello noto come ‘Autoritratto con cappello di feltro grigio’, dipinto a Parigi tra la fine del 1887 e l’inizio del 1888. Eccolo:

Straordinaria la resa con le pennellate circolari sullo sfondo e concentriche sul viso e giacca. Bellissimo davvero, oltre al mio apprezzamento generico per il genere autoritratto – per esempio -, questo in particolare è davvero notevole.

Non posso dunque non decretare ‘costume vincente di halloween 2025’ questo di questo signore che si è vestito da ‘Autoritratto con cappello giallo’, sempre VG:

Prestare attenzione, niente AI: il signore si è proprio dipinto e truccato alla maniera, collo, camicia, barba faccia cappello sopracciglia, senza risparmiarsi. Fantastico.

Ancora più in dettaglio:

Eccezionale. Per coprire le braccia ha dipinto dei guanti e idem le scarpe e la pipa.

Beh, non si può battere. Più che un costume, direi che sia diventato proprio un progetto artistico, ben riuscito.

«quando devi fare in fretta»

«L’Agilo di Böcker trasporta i tuoi tesori fino a un carico di 400 chilogrammi a una velocità di 42 metri al minuto, e lo fa in silenzio, grazie al motore elettrico da 230 volt», così dice l’azienda tedesca Böcker che produce il montacarichi qui sotto, utilizzato nel furto dei gioielli imperiali al Louvre di domenica scorsa.

In effetti, è una buona occasione per farsi pubblicità: in sette minuti i ladri hanno compiuto il furto e nel video disponibile si vedono scendere con calma proprio con il montacarichi dalle finestre del primo piano del museo. Visto che nessuno si è fatto male, il mezzo mostra la sua efficacia: «Quando devi fare in fretta», azzeccato.

le storie di come alcuni popoli ebbero le proprie terre: georgiani e colombiani

Infinite le storie sulle fondazioni delle città, sulle costruzioni di ponti ed edifici, meravigliose, e anche le storie che raccontano come i popoli ebbero le loro terre. Più rare queste ultime, al momento ne conosco due e riguardano georgiani e colombiani e, ovviamente, spiegano come essi abbiano ottenuto terre così belle e migliori di tutte le altre. Hanno però entrambe un accento ironico sulla qualità – diciamo discutibili in alcuni ambiti – dei propri abitanti, racconti splendidi. Eccole.

La prima, su come i georgiani ebbero la Georgia, l’ho letta nel resoconto di viaggio da Lisbona a Pechino su un Ape Piaggio di Paolo Brovelli, la riporto:

Narra la leggenda che, mentre il Signore assegnava un pezzo di terra a tutti i popoli del mondo, i georgiani fossero impegnati in una delle loro solite mangiate, innaffiate da abbondante buon vino. Quando venne il loro turno, stavano brindando e non potevano interrompere un momento tanto importante. Fu così che rimasero senza terra. Quando se ne accorsero, si precipitarono subito da Dio chiedendo perdono, dicendo che era proprio alla sua salute che stavano brindando. Il Signore allora, mosso a compassione, assegnò loro il pezzo di terra che aveva conservato per sé.

Per sé, addirittura. La seconda la ricordo e la scrivo a memoria, la sentii anni fa in ‘Narcos’, la serie:

Quando il Signore creò le terre del mondo, si accorse che la Colombia gli era venuta particolarmente bene, fiumi, montagne, clima. Allora realizzò che gli altri popoli del mondo ci sarebbero rimasti male, al confronto. E così, per pareggiare le cose, la riempì di figli di puttana.

Questa seconda potrebbe essere adattata a molti altri posti, la Sicilia su tutti. Di solito è raccontata con un certo compiacimento, come del resto la prima.

speriamo non cominci l’invasione stasera, che abbiamo una cena

Così a un certo punto scrive Andrei Kurkov nel suo notevole Diario di un’invasione (2022), per dare sostanza al sentimento prevalente dopo mesi e mesi di attesa per un’invasione annunciata, leggasi Ucraina, mentre i russi ammassano truppe al confine, le diplomazie la prevedono come inevitabile, il governo si attrezza, la tensione dell’attesa è continua. Quasi, a un certo punto, uno desidera che accada.

Un diario chiaro e diretto, interessantissimo, letto con il magone di sapere che non è finita. Infatti, c’è un seguito, ormai diventato La nostra guerra quotidiana (2024), in realtà probabilmente una risistemazione e ripensamento di quanto già scritto in questo giorno per giorno, intuisco, lo saprò presto.
Chiunque abbia provato a scrivere un diario in tempi d’emergenza ha incontrato alcune delle difficoltà di Kurkov, ben sapendo però che un diario è essenziale, perché alla fine la memoria non saprà ricostruire come si sia arrivati a certi punti. Per esempio, come e quando le persone abbiano smesso di rifugiarsi al suono delle sirene, preferendo piuttosto una vita rischiosa alla continua paura, in che punto l’abitudine abbia il sopravvento su cariche emotive altrimenti insopportabili.
Ancor più interessante, visto che Kurkov è russo sovietico di nascita e formazione, scrive in russo, in trasparenza dell’asciuttezza del diario si percepisce il grande scrittore e la persona di sostanza e valore, una delle migliori letture da tempo.
Sperando che questa guerra finisca.

chi ne sa più di chi? O dello sviluppo etico, spirituale e intellettuale

È appena finita l’edizione 2025 del festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, dedicata stavolta alla ‘Paideia’ ed è stata, come le altre, direi ricca e interessante di spunti. Almeno finora, visto che sto ascoltando le conferenze partendo dalle migliori, Pievani e Aime, ed evitandone altre, per esempio Veneziani. Così, sì, vittima del pregiudizio ideologico.

Pievani, sempre piacevole e interessante, conclude la sua conferenza citando a memoria un dialogo tra padre e figlio, presumibilmente tratto da Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson, per spiegare il concetto di ‘Paideia’:

Una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: «I padri sanno sempre più cose dei figli?».
E il padre rispose: «Sì, hanno studiato di più, hanno più esperienza…».
Poi il ragazzino chiese: «Papà chi ha inventato la macchina a vapore?».
E il padre: «James Watt».
E allora il figlio ribattè: «Ma perchè non l’ha inventata il padre di James Watt?».

Qui il feed, per quelli golosi

la chiesina a Largo dei Librari

Sempre commovente la chiesina romana di Santa Barbara dei Librai.

Così detta perché in carico alla confraternita dei Librai, la piazzetta irregolare davanti le dà rilevanza e collocazione in vista. All’interno della chiesa, la botola di sepoltura dei confratelli, con un’iscrizione che recita: “SODALIBUS BIBLIOPOLIS DONEC APERIATUR LIBER ÆTERNITATIS” (“[luogo destinato] Ai confratelli di Bibliopoli fino a quando si aprirà il libro dell’eternità”). Niente male anche questa, mia foto di tre giorni fa.

’sti francesi, però, niente male

“Umiliata la Francia” dice a vanvera quello, perché semmai è proprio lui ad averlo fatto.

E Sarkozy, ricorsi permettendo, andrà in carcere. No domiciliari, almeno non solo, carcere carcere. E non hanno un carcere per gli ex-presidenti o una clinica di lusso nei dintorni di Roma in cui fargli trascorrere il tempo a flebo di aragosta. No, certo non sarà l’isola del diavolo ma vivaddio, dentro. Lei gnaola come tutte le volte, come faceva anche col covid, la vigliacchetta. Che invidia.

Aggiornamento: con la tigna che la contraddistingue, Carla Bruni alla fine di una dichiarazione pubblica del marito pregiudicato ha strappato la spugna da un microfono di un giornalista e l’ha gettata a terra. Ma non una a caso, la spugna del microfono di Mediapart, organo di informazione che con la sua inchiesta aprì il caso che si è appena concluso con la condanna ai lavori forzati dell’ex-presidente. Da Mediapart, molto divertiti dalla cosa, fanno sapere che per fortuna le condizioni della spugna non sono gravi e che tornerà al lavoro quanto prima. Un sospiro di sollievo da parte di tutte le brave persone. Bruni, invece, ha postato un’immagine con un titolo del tipo: “l’amore è la risposta”, proprio ipocrita come sempre.