le allegre nonché inutili guide turistiche di trivigante: tre tentativi di indipendenza tra Solferino e san Martino

Oggi è il 24 giugno e quale giorno migliore per tornare sempre al 24 giugno ma del 1859? Nessuno, ovvio. Il momento in realtà sono tre, 1848, 1859 e 1866, ma i luoghi sono sempre quelli: i luoghi delle tre guerre di indipendenza. Il nemico? Sempre loro, l’impero austroungarico. Noi, prima con la casacca piemontese nelle prime due e, poi, con quella italiana nell’ultima. Ma il problema era sempre quello: spingere verso oriente il confine, sia che fosse al Ticino, prima, o al Mincio, poi. E ora attenzione, rivelo il finale: una vinta e due perse. Quella vinta un po’ è perché con noi c’erano i francesi, tocca ammetterlo anche se poi a Roma ci crearono un sacco di problemi, una di quelle perse è andata comunque bene perché la Prussia vinse per noi, permettendoci di guadagnare terreno. Il resto è indecisione, ripensamenti, inazione, intempestività, timore, banderuolismo, tutta roba nostra. Ma ne parliamo dopo.

La zona è il basso Garda o l’alto mantovano, a seconda del punto di vista, ovvero le colline moreniche del Garda, la parte a colori nella mappa qui sotto. Tra Castiglione delle Stiviere e Valeggio sul Mincio, Peschiera e Volta mantovana, si alternano pianura pianurosa come un tavolo da biliardo e rilievi dolcissimi e vari, verdi, alberati e coltivati. Vale la pena di dirlo: una fascia di territorio di grande bellezza, che varrebbe la pena girare a prescindere da quanto dirò tra poco. Piena zeppo di castelletti scaligeri, borghi e borghetti di buon fascino, cascine e agriturismi, cantine e ristoranti, buoni e pacchiani, e un bellissimo fiume, il Mincio.

Il filo conduttore per un giro in zona, se ne servisse uno, potrebbe ovviamente essere il Risorgimento, anzi più circoscritto: le tre guerre di indipendenza. Lungi da me farne qui una storia, di tutto il Risorgimento a me piacciono i Garibaldi e i Pisacane, i mille e la guerriglia contro i barbogi viennesi, mica i Carlo Alberto che tentennavano, per cui rimando alla guida perfetta per questo: le tre guerre raccontate da Alessandro Barbero. Ho già parlato delle lezioni di storia del professore e dell’ascoltarsele in versione audio, quindi rimando di là, per questa gita il bello è che vi mettete su il podcast, auto o cuffie o telefono, e se siete bravi sarete nei posti precisi quando lui ne parla. O quasi, perché a Custoza toccherebbe tornare due volte ma, insomma, si fa del proprio meglio. Se poi riusciste a farlo non dico il 24 giugno come ho fatto io ma almeno in stagione cogliereste alcuni aspetti importanti. Il caldo, per esempio, notevole per me in camicia, in un giugno bellissimo e con del turismo da fare, figuriamoci per dei soldati vestiti di panno pesante, senza alcuna nozione di igiene personale, in giro per settimane a far la guerra. Morivano di sincope, ben prima di arrivare al campo di battaglia. Eccolo il campo, ho fatto una comoda mappetta con qualche posto che suggerisco. Non stupiscano le dimensioni, si trattava di eserciti ottocenteschi, centinaia di migliaia di persone spesso disorganizzate su fronti lunghi anche settanta chilometri, che ci mettevano giorni e giorni per passare un fiume. L’abilità dei generali era raggruppare l’esercito in tempi brevi dove serviva e noi i generali bravi non li avevamo. Oddio, uno c’era, ma nel ’48 lo lasciarono a casa perché troppo di sinistra, e nelle altre due, pentiti ma fino a un certo punto, lo spedirono verso Trento perché bravo sì ma non tra i piedi.

Solferino, citato fino a non poco tempo fa sempre nella locuzione «San Martino e Solferino», proprio per via della battaglia, è un bel paesello su un colle, con un castello gonzaghesco che oggi è la piazza principale, e la famosa rocca, la «Spia d’Italia» per la retorica risorgimentale, perché stava sul confine fino al 1866. Come molti paesi coinvolti nelle guerre di indipendenza, come San Martino, Custoza e così via, ha un sontuoso ossario, nel quale, con gusto barocco e cappuccino, i resti sono disposti per tipologia, crani con crani, tibie con tibie. Considerando che la battaglia di «San Martino e Solferino», appunto, durò un solo giorno, da mattina a sera, e contò circa quarantamila morti, più i cavalli, i muli e tutto il resto, è facile immaginare la portata di tutta la faccenda.

C’è anche scritto «non toccare», evidentemente era un problema. A Solferino consiglio di arrivarci da Castiglione delle Stiviere per poi proseguire fino a Valeggio sul Mincio. Belle colline, meno abitate del resto della zona, scorci notevoli. A Valeggio uno dei passaggi obbligati del fiume, il ponte visconteo fortificato trecentesco, enorme, impressionante, basti dire i seicentocinquanta metri di lunghezza e i ventuno di altezza. A Valeggio, poi ci sono i tortellini ed è un ottimo punto per fermarsi a mangiare, ogni posto è buono a patto dei tortellini. Di carne quelli tipici, piccoletti buoni per l’umido e il secco. Il fiume è molto bello e vale la pena, avendo tempo e occasione, costeggiarlo a piedi o in bici verso nord.

Passato il colle di Valeggio, avanti verso il colle di Custoza. Ha proprio ragione Barbero, le guerre fino al nostro secolo erano condizionate dalla geografia, perché fiumi e montagne costituivano degli ostacoli considerevoli. Era, quindi, naturale che una volta passato il Mincio da ovest verso est le battaglie sarebbero avvenute a Custoza. Oddio, Custoza, il riferimento è generico, si intende la piana intorno a Custoza; ed è proprio lì che perdemmo non una ma due volte contro gli austriaci: una prima volta il 25 luglio 1848 contro le truppe del maledetto generale Radetzky e il 24 giugno (ancora!) 1866 contro l’esercito guidato dall’Arciduca Alberto d’Asburgo-Teschen. Per gli amanti delle frittole di De Amicis, è a Custoza che il tamburino sardo corse giù dalle colline per chiamare i rinforzi.

Su una collina morenica isolata, Custoza offre gran vista, un ossario non inferiore a Solferino, una grande villa veneta con viale alberato prospettico, il memorabile bianco di Custoza, bello freddo d’estate, e un broccoletto tipico di qui, mai sentito ma che pare sia gran specialità. Scendere verso Monzambano, altro passaggio del fiume, è un attimo, ed è bello, grandicello e placido. Il ponte storico fu fatto saltare dagli austriaci in retrocessione il 9 aprile 1848, inseguiti dalle truppe del generale Breglia i cui genieri riuscirono a ristabilire il passaggio in breve tempo. Durante la terza guerra, invece, furono gli italiani del generale Pianell a difendere il ponte vittoriosamente lo stesso giorno della sconfitta di Custoza, andava così, un po’ vinte e un po’ perse. Ci sarà stato pure qualche ragazzo del novantanove di allora che nel ’48 aveva diciotto anni e che se le è fatte tutte e tre, le guerre? Fortunato perché vivo e sfortunato perché giovane?

Da Monzambano a Peschiera del Garda sono meno di sei chilometri e la visita alla cittadina fortificata del quadrilatero austriaco (le altre erano Verona, Mantova e Legnago) è abbastanza d’obbligo. Per chi lo ricorda, se noi facevamo i renitenti alla leva venivamo mandati al carcere militare di Peschiera, non credo sia più così, o all’ospedale militare, sempre lì, per degenze prolungate. Ed è ovvio, è pieno di caserme, istituite prima per le guarnigioni della Repubblica di Venezia e per gli austriaci poi e, infine, per gli italiani. Belle le mura a spiovere nell’acqua e le due isole che costituiscono il centro abitato, oltre alla vista ampia sul Garda e il monte Baldo sullo sfondo.

Altri sei chilometri per la tappa finale di questo piccolo giro, San Martino della battaglia, appunto. Altra collina da cui guidare gli eserciti, una torre costruita dopo per celebrare la vittoria contro gli austriaci del 1859, una manciata di cascine storiche sparse attorno, luoghi anch’esse dello scontro con tanto di cronologia ora per ora della giornata, un ossario sempre nello stesso stile, accatastamento di ossa per tipo.

Alla fine, le tracce del Risorgimento, della Storia e della storia si trovano un po’ dappertutto, ogni paesello ha un cippetto, numerose lapidi, statue memorande, e anche dove meno uno se l’aspetta (o si sarebbe aspettato lui, quando pensava a un «nome onorato dalla Patria e dagli Italiani»). Bìra e bagno?

Ah sì, in zona c’è un certo delirio per parchi acquatici e di divertimento ma quelli, a me, interessano nulla. A meno che, appunto, non abbiano dei bei nomi.
Buon giro, dunque, a chi seguirà. E mi raccomando i racconti di Barbero.

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la leggenda degli uomini ordinari

«Le cliniche private vanno ringraziate per aver aperto le loro stanze lussuose ai pazienti ordinari», ha detto oggi l’assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.
Negli aggettivi «lussuoso» e «ordinario», giustapposti volutamente, sta tutto il disprezzo, la pochezza e l’insipienza della persona, della coalizione che rappresenta, del governo della Lombardia, per i cittadini lombardi, quelli appunto ordinari. Pensateci, vivaddio, pensateci quando da cittadini ordinari vi toccherà andare in una stanza d’ospedale ordinaria, pagando pure, come è giusto che sia per chi vale poco.

l’estate è la mamma dei poveri

Questo giro l’estate comincia di notte, ovvero: ora! Alle 23:43 per tutta una serie di meccanismi che adesso non ho voglia di spiegare – motti apparenti, encicliche, declinazioni latine, cose così – comincia l’estate 2020.

Rispetto al solfrizzio, o all’equiborzio, le stagioni in realtà iniziano prima, per cui dal punto di vista meteorologico l’estate è già iniziata da qualche settimana. Vale la pena notare come tante cose si possano dire di questo 2020 ma nulla sul tempo, perché a una primavera strepitosa è seguito un giugno clamoroso, con caldo, sole, pioggia, vento, acquazzoni, fresco, un’alternanza meravigliosa, con le nuvole che corrono nel cielo come raramente qui da noi. Ora aspettiamoci le nenie estive da quanto fa caldo, oh quanto fa caldo. Detto da gente, ovvio, che d’inverno dice di amare il caldo e si lamenta per il freddo. Buona estate, dunque, a tutti, tranne a chi si lamenta, a Fontana e a Gallera e a chi li rivoterà.

unduettrè

Una sacrosanta manifestazione a Milano, oggi, per protestare contro la gestione della pandemia da parte della Regione, contro la sanità privata, contro le scelte che sono andate a discapito dei cittadini lombardi, alla richiesta di commissariamento della regione. Migliaia di persone, per la verità meno di quante attese, in piazza Duomo.

Distanziati fa pure più effetto (cogli le tremilaottocentodue differenze con le manifestazioni della destra o i selfie di Salvini). Ma se i motivi sono sacrosanti, e ce ne sono ben donde, e sono peraltro gli stessi per tutti, non è detto che si vada in piazza insieme: una seconda manifestazione, diciamo genericamente del mondo antagonista e Cobas, si è tenuta sotto la sede della Regione Lombardia. Quindi, un po’ di qua e un po’ di là, mi par giusto.

Anzi no, per essere sicuri di avere ancora meno risonanza, le manifestazioni sono state tre. Una molto più piccola, circa quattrocento persone, di ispirazione anarchica, si è svolta a piazzale Loreto. Ottimo, sempre secondo il principio che uniti si vince.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 103, la conclusione

A conclusione del minidiario, non perché la pandemia sia finita, tutt’altro, anzi oggi si segna pure un rialzo del numero dei contagiati in Lombardia, oltre che in Cina, senza accennare al disastro-Brasile, bensì perché come già detto è finita la reclusione, o quasi, a conclusione dicevo un piccolo riassunto di alcuni passaggi che hanno caratterizzato questi mesi. Un riassunto, dopo tante parole, per immagini.

1. l’ospedale

Il 24 gennaio le autorità cinesi decisero di costruire un ospedale a Wuhan, dedicato ai malati di covid-19. La cosa che suscitò scalpore da noi fu l’annuncio che l’ospedale sarebbe stato costruito in soli dieci giorni e così fu, consegnato il 2 febbraio. Come avremmo capito dopo, il tempo era fondamentale per contrastare l’avanzare del contagio ma noi, ancora, non lo sapevamo. Perché ai primi di febbraio noi facevamo come molte volte abbiamo fatto in questi anni, tra SARS, aviaria, suina e ogni altra epidemia, abbiamo fatto spallucce e ci siamo detti che tanto da noi non sarebbe potuto accadere. Con gli impliciti del discorso, schifosetto. E invece poi l’ospedale l’abbiamo costruito anche noi, anzi loro, e non uno solo ma ben due, a Milano in Fiera e a Civitanova Marche, con esiti inesistenti.

2. l’infermiera

Poi il coronavirus, come lo chiamavamo allora, arrivò anche da noi. Pensammo fosse una sciocchezza e ci dilettavamo ancora a far battute su Codogno e in un men che non si dica gli ospedali, quelli lombardi e quelli veneti in una prima fase, scoppiarono. Terapie intensive stracolme, pronto soccorso assediati e cintati dall’esercito a respingere le persone spaventate, strutture che dovettero stravolgere i reparti, occupando anche sgabuzzini, cucine e ogni altro locale disponibile per cercare di ricoverare il maggior numero di persone possibile. Poi cominciammo a mandare gente in Germania e nelle altre regioni, almeno i più gravi, per poi arrivare a lasciare le persone a casa e accogliere solo i casi più gravi. Il passo successivo fu, purtroppo, gestire i respiratori secondo criteri di probabilità di sopravvivenza, ovvero favorire i pazienti con maggior possibilità di scamparla. Il personale sanitario, medici, infermieri, operatori, amministrativi, dirigenti, volontari sulle ambulanze, chiunque fosse coinvolto, fu investito da un’ondata senza precedenti, e tutti quanti furono costretti a turni massacranti, scelte tremende e difficilissime, al lavoro senza adeguate protezioni, a curare un’infezione senza averne esperienza. Furono chiamati «eroi», «angeli» e poi, mesi dopo, quando fu il tempo di dare loro contratti dignitosi era troppo tardi, il sostegno era svanito. Puf. L’8 marzo, giornata della donna, fu scattata una fotografia a un’infermiera del Pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, crollata per la stanchezza nel corso di un turno massacrante. La foto fece il giro della rete, lei si scusò pure perché mancava un’ora alla fine del turno, spiegò che aveva pianto, diventò il simbolo della situazione drammatica negli ospedali. Due giorni dopo, scoprì pure di essere positiva al contagio, come del resto quasi tutti i lavoratori degli ospedali, cui non facevano i tamponi per non doverli mandare tutti in malattia. Elena Pagliarini, questo il suo nome, poi fu giustamente nominata Cavaliere della Repubblica da Mattarella, per il servizio reso alla comunità.

3. i camion

Il 19 marzo per le vie di Bergamo passò un triste corteo di trenta camion dell’esercito carichi di bare. Nelle settimane in cui nella provincia di Bergamo morivano più di novanta persone al giorno, i cimiteri e le sale crematorie non avevano più spazio. Furono vietate le camere ardenti, i funerali, assistere alle cremazioni, molti se ne andarono da casa in ambulanza e tornarono dentro un’urna e i familiari non seppero nemmeno dove erano stati portati. Lo sapranno in futuro, forse. Le bare, accatastate nelle sale dei cimiteri, furono portate con i camion in Emilia, dove esistevano ancora strutture in grado di accoglierle. Fino a quel momento le persone chiuse in casa cantavano sui balconi, suonavano strumenti, si ripetevano che tutto sarebbe andato bene e no, da quella sera fu chiaro a molti che non sarebbe affatto andata bene. Andava già molto molto male.

4. la fila

La spesa la può fare una persona sola per nucleo familiare, all’entrata verrà provata la temperatura, si dovranno indossare mascherina e guanti, dentro il supermercato potranno stare solo una persona ogni quattro metri quadri, dovrete recarvi nel supermercato più vicino e, comunque, non fuori dal comune di residenza, ma non abbiate paura: il cibo non mancherà. Mancarono fin da subito, invece, i disinfettanti, l’alcool, i guanti monouso, le mascherine, l’acqua in una prima fase, la pasta, in un delirio di accaparramento per fortuna sgonfiatosi in poco. E fu così che noi italiani imparammo a fare la coda. Non durerà ma in quei giorni lo imparammo. La foto di un supermercato di Prato diventò emblematica di una situazione diffusa, le lunghe code per fare la spesa. Cambiarono gli orari, i dipendenti ai banchi, nelle corsie e alle casse si sentivano giustamente esposti, tornarono l’acqua e la pasta e sparirono lievito e farine, anche se non sempre per questioni di accumulo. Tutto sommato, la cosa fu disciplinata, al di là di eventi singoli più che altro nella fase iniziale. Il timore, giustificato, di vedere l’esercito per strada che consegna le razioni non ebbe, fortunatamente, esito.

5. le oche

A Marina di Pietrasanta le oche attraversarono la strada in gruppo, a Venezia apparvero i pesci nei canali e, si dice, un polipo, ovunque volpi, conigli, qualche camoscio, io stesso ho visto una cornacchia e una biscia lottare in mezzo alla strada deserta, e poi i cinghiali a ravanare nella spazzatura, i delfini a Cagliari, i tassi in centro a Firenze, le anatre in piazza di Spagna a Roma, nelle città ricomparvero gli animali. O c’erano sempre stati ma erano sempre stati guardinghi, per non finire stirati sotto le auto. Ora meno, diminuito il caos, il rumore, con l’assenza di persone per strada, si ritrovarono in un habitat meno aggressivo e meno mortale. Con meno inquinamento, pure, nonostante qualcuno si divertisse a sostenere il contrario.

6. la piazza

Il 27 marzo il papa rivolse una preghiera sul sagrato della Basilica di San Pietro con la piazza completamente vuota. La pioggia, i colori della sera di fine marzo, il blu del cielo e il giallo delle luci, il beige del travertino, i riflessi, soprattutto il bianco, unico, della tunica papale, il deserto di una piazza solitamente mai vuota, nemmeno a notte fonda, composero un’immagine perfetta, ben più in là di ogni fervida immaginazione fino a quel punto. Un uomo solo in preghiera per l’umanità preda della pandemia, si può anche non essere sensibili alla cosa ma non si può negare la grandiosa potenza simbolica della situazione. Non un’immagine bella né rassicurante, anzi inquietante per molte ragioni, triste, solitaria, composta però di elementi perfetti che il caso e la regia hanno reso eccezionalmente forte.

7. la fossa

A inizio aprile arrivò il contagio anche negli Stati Uniti. Già si era allargato all’Europa nei giorni precedenti, seppur in ritardo rispetto all’Italia, e si diffuse con velocità a partire da New York, nonostante le improvvide e incaute affermazioni del loro presidente. Nello Stato atlantico i contagi raggiunsero i centosettantamila in pochi giorni e, di conseguenza, i decessi aumentarono rapidamente, fino a raggiungere gli ottomila il dieci di aprile con un ritmo di oltre settecento al giorno, un numero abnorme. Anche lì gli obitori, le camere ardenti, i camion refrigerati non bastarono più, il periodo per reclamare una salma passò da sessanta a quattordici giorni per timore di infezione, per cui il sindaco decise di seppellire i morti a Hart island, l’isola di New York dove da un secolo vengono inumati i corpi non reclamati da nessuno. Le immagini dell’enorme fossa comune suscitarono sensazione in tutto il mondo, in particolare quello cattolico romano, poco abituato al pragmatismo razionale del mondo anglosassone anche in tema di sepolture. Di certo, l’immagine trasmetteva con chiarezza la portata del disastro anche oltre oceano. Poi, da est il contagio si spostò negli stati centrali e a ovest.

8. i generi primari

Negli Stati Uniti, il sopraggiungere del contagio verso gli stati centrali significò immediatamente per centinaia di migliaia di persone la perdita del lavoro e di qualsiasi mezzo di sussistenza, come capita sempre nelle economie iperliberiste in caso di crisi. Lavoratori e lavoratrici che nell’arco di pochi giorni si ritrovarono senza un lavoro e senza alcuna tutela si rivolsero alle cosiddette Food bank, istituzioni filantropiche che distribuiscono da sempre derrate alimentari agli indigenti attraverso le food pantries, una sorta di mense dei poveri. Poiché, però, il timore del contagio e soprattutto l’aumento vertiginoso della richiesta causarono un sovraffollamento pericoloso, fu deciso di distribuire il cibo lasciando le persone in auto, in coda. Significativa fu la fotografia scattata a San Antonio, in Texas, con un enorme parcheggio pieno di auto in attesa, il cibo e i generi primari di sopravvivenza vennero distribuiti da addetti che li posavano direttamente nel baule, seimila auto per ricevere circa cinquecento tonnellate di cibo, due pacchi a testa per circa un mese. Vorrei mettere l’accento sul fatto che non si trattava di poveri, i poveri venivano indirizzati alle mense e di certo non avevano l’auto, bensì di lavoratori messi in crisi dalla pandemia, privati di un lavoro perché le aziende erano in lockdown e privi di risparmi propri, come tipicamente accade negli Stati Uniti, oppure in attesa di assegni di assistenza federale che ci avrebbero messo settimane ad arrivare.

9. i controlli

Pattuglie, droni, moto, quad, cellulari, elicotteri, polizia, guardia di finanza, vigili locali, carabinieri, le forze messe in campo per garantire il rispetto del lockdown sono state ingenti. Per liberare altre risorse, in alcuni comuni lombardi, tra cui Milano, Bergamo e Brescia, fu inviato l’esercito, per svolgere mansioni di controllo quotidiano. Controlli ripetuti, moduli su moduli di autocertificazioni, multe deliberate e ingiustificate, ammende e ramanzine sommimistrate a piacimento, nella prima metà di aprile la pressione sui cittadini fu davvero intensa. Una certa impressione fecero i droni dotati di sirena e faro, incaricati di sorprendere gli atleti in giro a correre, segnalandoli in maniera decisamente spinta. Nei centri abitati il rispetto delle norme fu sicuramente maggiore che in provincia, più abituati a una certa distanza e a consuetudini dure a morire, non c’era giorno in cui non fossero diffuse notizie di multe pittoresche ed evasioni creative, quasi tutte inventate come sempre. Serviva anche quello a ricreare le ore di reclusione. L’immagine dell’uomo che prendeva la tintarella a Rimini, incastrato dal drone e dalla pattuglia di poliziotti in quad, fece anch’essa il giro della rete, sia per la composizione della foto, indubitabilmente bella, sia per lo sforzo profuso, decisamente eccessivo. Sia, va detto, per una certa somiglianza con una scena di Star Wars.

Ne parleremo ancora, magari con frequenza settimanale o giù di lì, perché la situazione è tutt’altro che risolta, ma il minidiario, cominciato più di cento giorni fa, finisce qui. Grazie in particolare al signor F., che mi ha accompagnato con il suo personale e puntuale minidiario ogni giorno (per chi non se ne fosse accorto è il primo commento a ogni post del mio minidiario), con il quale mi sono confrontato e grazie al quale ho avuto una visione simile e diversa di giorno in giorno; grazie poi alla signora T., che ha condiviso qua e là il suo minidiario occasionale, e a tutti quelli che hanno voluto condividere un pensiero in questi mesi di pandemia. Infine, grazie a tutti coloro che hanno letto, non hanno lasciato segno scritto ma mi hanno riferito a voce di avere apprezzato (e, talvolta, riso). Grazie, non è stato sempre facile ma sapere che c’era qualcuno là fuori come me è sempre stato il pensiero più importante.

I giorni precedenti:
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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 101

Speciale Venezia. Dopo cento giorni di proibizione e di pensamento, vado in gita e dove se non nella città che più di tutte, o quasi, ha a che vedere con le pestilenze e i contagi? Venezia, sicuro, la città che inventò i lazzaretti. La città in cui i mercanteggi erano tanti e tali che ogni giorno arrivava un tanghero da Bisanzio o dalle Cicladi o dall’Egitto con una tosse strana e un bubbone di là da venire nell’arco di un paio di giorni. Oltretutto, mi hanno detto, è un bel posto. E allora, treno. E naturalmente il mio amico C., gran conoscitore di Venezia e di cose in generale, che è pure bravissimo a dare una struttura e un perimetro ai miei pensieri occasionali. Gita in compagnia, avanti. Sono persino emozionato all’idea di prendere il treno, lo dico pure la sera prima agli amici, e racconto il viaggio verso Venezia come avrei descritto, più di tre mesi fa, un viaggio intercontinentale. «E il treno? Ci racconterai com’è il treno?» mi chiedono in anticipo gli amici, ma certo, l’esperienza dopo tre mesi di lockdown è talmente lontana e dimenticata che la curiosità è contagiosa. Il viaggio è pazzesco, fa caldo e i corpi sono accatastati nei vagoni con un puzzo orrendo fatto di morte e disinfettante, i controllori hanno i campanelli dei monatti al collo e le maschere a becco dei medici della peste, a ogni stazione ci vengono gettate addosso palate di calce… Ahah, occhei: il treno è occupato per metà, i posti disponibili sono in diagonale, uno sì uno no, con degli adesivoni rossi per avvertire, e Trenitalia con intento di rassicurazione consegna una borsina alla partenza con una lattina (lattina?) di acqua, una bustina con dentro mascherina, guanti (ah, troppo tardi, maledetto OMS che adesso li sconsiglia), gel per le mani e, infine, un poggiatesta monouso. Che non voglio mica prendere il covid-19 dai capelli di qualcun altro. E poi tanto non lo mette nessuno. La mascherina è un assioma per tutto il viaggio, il controllore lo ricorda, ma anche qui c’è chi la tiene e chi un po’ no. Le sbandierate misure di controllo dei biglietti contactless sono effettivamente messe in campo, cioè il biglietto cartaceo o il telefono con biglietto elettronico li tieni in mano tu e il controllore guarda, senza toccare. Ah, la tecnologia. Il vagone bar è chiuso, passa un signore con un carrettino e non grida «Gelati». Là dove non arriva la pestilenza ci arriva Trenitalia: ogni vagone ha una porta per la salita e una per la discesa, per non creare assembramento. Ma la porta da cui dobbiamo salire noi non va e indovina? Saliamo da quella della discesa del vagone a fianco, assembrandoci, scambiandoci fluidi corporei al punto che sembriamo una manifestazione della destra il due giugno. Ogni volta che un treno ferma in stazione muore un epidemiologo. Finalmente, Venezia. Ed è una vera favola.

Normalmente, a Venezia bastava girare l’angolo rispetto alla fiumana di turisti, compatta e sagomata per la larghezza della via, e ci si ritrovava in calli semideserte, tranquille e silenziose. Certo, poi bisognava stare attenti ogni volta che toccava intersecare di nuovo le vie più trafficate. E San Marco si saltava per troppa e sicura ressa. Oggi non è così: oggi sembra una città normale. Sembra, anzi, Venezia quei rari giorni di agosto, verso le due del pomeriggio, quando il sole a picco e il caldo hanno rispedito a casa o in albergo la maggior parte delle persone e in giro ci sono solo qualche coppia di giapponesi e qualche matto sparso. Si cammina tranquillamente, non c’è coda da nessuna parte, si può prendere il traghetto-gondola per il mercato del pesce avendo davanti tre persone, ci si può fermare senza essere trascinati dalla corrente. Si può andare dappertutto, con calma, ci si può sedere ovunque e contemplare. Non sono rare, anzi, le calli completamente deserte e i canali in cui non passa nessuno. Quelli che passano sono abitanti, muratori con sacchi di calce, postini, qualche fornitore vario, pare proprio una città come le altre. C’è il sole, fa caldo, l’aria ha l’odore robusto della laguna, quel misto di fango e acqua, ci sono pochi rumori. In Veneto, la mascherina non è obbligatoria all’aperto, a meno che non vi sia assembramento, però ce l’hanno quasi tutti. Non è male, però, poterla togliere per qualche minuto ogni tanto, per dare di naso e di bocca appieno. Quando incontriamo un posto che ci piace, ci fermiamo e prendiamo le ombre e i cichéti, con quei meravigliosi bicchierini di vetro che una volta avevano tutti, e che se cadevano non si rompevano. Mi tocca ripetermi ma è una dimensione veneziana nuova: niente coda. Si entra e ci si siede. O si sta sulla panca fuori, consuetudine pre-covid-19. Beh, bello.

Vagoliamo, tutto è più calmo. Per me è bellissimo, ovviamente, immagino che per un commerciante di gondole da mettere sul tvcolor l’idea sia un’altra, capisco, ma io mi godo il momento e la situazione. Il ghetto (ah, anche quello hanno inventato qui, oltre ai lazzaretti), Cannaregio, la tomba di Tintoretto alla Madonna degli Orti e il suo colossale Giudizio Universale, il mercato del pesce, la Quirini Stampalia, San Francesco della Vigna, Castello, l’Arsenale e le case popolari subito dietro, le Case Nuove, e poi tutto il resto. Mi duole dirlo, non ci sono più i delfini e i polpi nelle acque dei canali di Venezia. È tutto passato. Durante i mesi del lockdown non passava giorno in cui sui giornali non arrivasse una foto o un video delle cristalline acque di Venezia, nelle quali, in un crescendo parossistico, venivano via via avvistati polpi, delfini, cavallucci marini, sirene, unicorni, arcobaleni, poseidoni e avanti tutta. Ovviamente, buona parte dell’effetto era dovuta al fatto che mancavano le barche e, di conseguenza, il fondo limaccioso aveva avuto il tempo di depositarsi, rendendo trasparenti le acque. Non meno inquinate, anche se ovviamente settimane di nafta e scarichi in meno avranno fatto la loro parte, ma insomma mi sarei comunque guardato dal berla. Oggi no, i canali sono abbastanza normali per colore e odore ma non per frequentazione, davvero ridotta. A Campo San Giacomo dell’Orio, un bello spazio con addirittura delle piante che abbiamo scoperto oggi, fa addirittura caldo, sembra di essere davvero in vacanza. Beviamo qualcosa per celebrare la giornata, ci gustiamo il primo assaggio di estate come la conoscevamo e andiamo al treno.

Ci sono stati momenti, molti, durante la reclusione nei quali ci dicevamo che sarebbe stata lunga e nessuno di noi, dicendolo, sapeva quanto lo sarebbe stata. Dicevamo lunga ma speravamo corta. Ma cosa vuol dire lunga o corta? Settimane? Mesi? Oddio, anni? Se, come ho già detto, a fine marzo mi avessero detto che a giugno sarei stato in un campo a Venezia a guardarmi attorno beato, beh, mi sarei tranquillizzato parecchio. Sta andando bene, per fortuna, e di conseguenza bisogna approfittarne. Sia perché abbiamo passato dei periodi brutti, chi più chi meno ma complessivamente tutti i lombardi, piemontesi, veneti e liguri, almeno. Sia perché non sappiamo come andrà e, nel dubbio, meglio la gallina di oggi. Sia perché, e qui tertium datur, fa bene: fa bene al morale, fa bene alle gambe, fa bene alla testa e agli occhi. Per cui il mio consiglio è: andate a farvi un giro. Anche breve, come il mio, poche ore, in un posto al di là della regione o della provincia, che però sia gita. Una gita con aria di vacanza. Fatelo, non riprendete a lavorare, ostiare per un parcheggio e a pagare le spese condominiali e basta, fatevi un girello, andate a camminare lungo l’Adda o sul lago, uno qualunque, o a Venezia, appunto. Magari, come è capitato a me, in un posto che vale la pena vedere ora, che le condizioni sono ancora anomale, così da vederlo come, speriamo, non capiterà più. Durante le notti di quarantena, quando mi chiedevo quando sarebbe stato possibile di nuovo muoversi e vedersi, chissà perché ho pensato spesso a Venezia, alle calli, ai canali, e mi veniva da camminarci con l’immaginazione. Non so perché, non sono nemmeno un appassionato profondo o un conoscitore attento. Però capitava e, quindi, mi sono detto che ci sarei andato appena possibile, e così è stato. Oggi sono contento di averlo fatto, mi ha fatto bene e mi ha dato tranquillità e serenità, mi ha ubriacato di bellezza, come al solito, e mi ha mostrato un aspetto che non avevo mai visto in quella città, la normalità. Quella normalità di cui, tutti, abbiamo ora così bisogno. Fatevi un regalo, fate una gita.

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