la musica delle stagioni, autunno 2024

Con il solfrizzio invernale termina l’autunno e con esso casca la mia compila autunnale, ventottesima stagione musicale. Cinque ore e briciole che si aprono con Paul Heaton, concerto fissato e mancato a dicembre per impegni, aveva senso oltre tutto anche per I smell winter, e si conclude con quel matto di Jack Bruce, da solo.

Cinque ore è il tempo minimo che avrebbero i miei discorsi se fossi il presidente rivoluzionario di uno Stato dell’America latina ma visto che così non è, potrebbe essere il tempo necessario per ascoltare musica durante una qualsiasi breve tratta locale in treno di questi tempi salviniani nei trasporti.

Più classiconi del solito, almeno per i nomi degli autori, c’è scappata anche una canzone semiseria prenatalizia, complessivamente si fa ascoltare. Da me, almeno, con le compile è un po’ così: piacciono a chi le fa. Il segreto del successo è farle brevi, quindici pezzi, e di gran classici intramontabili, facendo quindi leva sulla pigrizia di chi non se la fa da solo o stenta a cercare e aggiungere alla coda. Tutto il contrario, dunque, di quel che faccio io. Orgogliosamente, aggiungerei, non cercando mai alcun riscontro. Quindi, chi gli va se la piglia, chi no no.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) | primavera 2024 (59 brani, 3,4 ore) | estate 2024 (56 brani, 3,1 ore) | autunno 2024 (78 brani, 5 ore) |

Compila dell’inverno in rampa di lancio, anche se in ritardo, recupererà lei e io con essa.

fasci ad Acca Larentia e la domanda per l’assunzione al governo italiano

Milletrecento fasci ad Acca Larentia a Roma, braccia tese, bandiere, commemorazioni e inni schifosi, un passante si avvicina e grida: «Viva la Costituzione italiana, viva la Resistenza. Merde!» e ora la domanda per il concorso: sapendo che la Digos su milletrecentoeuno persone si è presa la briga di identificarne soltanto una, chi tra esse potrà mai essere? Esatto, bravo, il posto è suo.

minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: dieci, tutto ultimo

3.738 chilometri, più o meno tutti su gomma, 51°43’39” di latitudine sud, arrivo a Puerto Natales, l’ultima tappa del mio viaggio patagonico. La provincia è Última Esperanza, il che la dice molto lunga. D’ora in poi saranno altri chilometri ma sostanzialmente ritorno. Prima di tutto una bella immagine del Cerro Torre, mancato qualche giorno fa e ripreso alla lontana. È estate, il cappellone di ghiaccio è minore e comunque vale anch’esso come montagna, checché ne dicesse Maestri. Una volta, credo fosse Salvaterra, una cordata restò in parete ventinove giorni di fila.

Ma adesso è Paine, quello conta. Il gruppone risplende al sole, con le incredibili inserzioni di granito sotto la roccia magmatica nera, poi il tutto lavorato dal ghiaccio. Magnifico. Scoccia un po’ che il ghiacciaio più in alto sia intitolato ai franzosi, questo sì un po’ dà fastidio. Sotto di esso, laghi clamorosi dello stesso colore del cielo che viene proprio voglia di andar dentro, non fossero di ghiacciaio.

Cartoline irreali. Resto tutto il giorno a girarci attorno, per vedere i colori delle torri al tramonto, al tramonto più cinque minuti, al tramonto più dieci. C’è luce anche di notte, sarà che dura poco. Cammino anche di notte in giro poi mi viene un pensiero e torno abbastanza rapidamente in camera. Il pensiero, giustificato o meno che sia, è: puma. Mmm, ho visto le mie gambe stenche sparire dentro la grotta, il suono degli ossicini. Che non è che lo senti arrivare, lui è già lì che ti guarda. E tu, io, gnente. Poi è un pensiero che resta, anche se non mi pare esistano statistiche di morti per puma e nemmeno notizie recenti, solo un caso, forse, nemmeno certo. Secondo i locali, basta fare un po’ casino, mah, va’ a sapere. Ricordo il buffo incipit di Bill Bryson in A Walk in the Woods: Rediscovering America on the Appalachian Trail (Una passeggiata nei boschi) in cui diceva di aver letto tutto sulle aggressioni degli orsi e i relativi consigli – scappare, stare fermi, fare casino, agitarsi, stare immobili eccetera – e dava il seguente consiglio: sentitevi liberi di fare quel che volete. Sensato, tanto decide lui, lo faccio mio in caso di puma, armadillo, guanaco, vipera del Paine, gaucho emigrato da Varese.
Dal Paine piglio la Ruta del fin del mundo e giù a Puerto Natales, una cittadella su un enorme fiordo con montagne a far da corona e ghiacciai che piombano nell’acqua del Pacifico, assurdo geografico per un europeo come me, montagna freddo mare caldo. Poco fuori dal paesello c’è la grotta del milodonte, la conclusione del libro di Chatwin, la descrive esattamente come l’ho vista io: «L’interno era asciutto come il deserto, irto, in alto, di bianche stalattiti e con le pareti luccicanti per le incrostazioni saline. Lingue di animali avevano levigato, a furia di leccarla, la parete di fondo. Il muro diritto di sassi che divideva in due la caverna era crollato a causa di una fenditura nella volta», preciso. Dal molo in paese vedo una foca che nuota sotto di me, prendo un caffè in un posto che potrei essere nel bar di Holling in Un medico tra gli orsi, (Northern Exposure, NX), mi torna in mente di continuo da queste parti, così somiglianti all’Alaska.

Mi viene un po’ d’ansia all’idea del rientro. Ho alcune scadenze familiari che mi inquietano, preferirei saltare al dopo, persino il dentista mi pare prospettiva più desiderabile da questa spiaggia sul mare gelato. Baudelaire parlava de: «la grande malattia: l’orrore della propria casa» e non è che io sia malato di questo ma lo capisco bene, se con «casa» intendo la vita quotidiana fatta di ripetizioni, incombenze e stupidaggini allora sì, sono decisamente malato. Anche l’aria pulita mi piace, dormo e respiro bene come da molto non accadeva, non è solo la vacanza, è proprio un fatto di mucose irritate, roba da essere deficienti a tagliare il ramo su cui si vive, facendo finta di nulla. Vedo un nandù con i piccoli, ne ho visti parecchi, mi viene in mente una notizia buffa, qualche tempo fa ne fuggirono tre coppie da un allevamento vicino a Lubecca e poi proliferarono nelle piane sabbiose del Mecleburgo, distruggendo i raccolti degli spazientiti tedeschi, li vedo scuotere i capoccioni. Ma che vuoi che si fermi, un nandù patagonico, di fronte al lattughino, al cavolo verza?

«Nel British Club di Río Gallegos le pareti erano tinteggiate in bianco-crema e non si parlava una parola d’inglese», sempre Chatwin, e scopro di esserci stato la sera di capodanno, alla ricerca di un riparo dopo la catastrofe temporalesca che mi ha fatto deviare da El Chaltein. Ho festeggiato con una cinquantina di argentini vestiti bene e per nulla bene tra i documenti originali appesi ai muri, persino una lettera di Butch Cassidy che continua a seguirmi precedendomi. A Río Gallegos non c’era un fico secco da fare o vedere, «Attraversai tre città senza interesse, San Julián, Santa Cruz e Río Gallegos», sempre Chatwin, non io. Era la città di Kirchner, lui, non lei, e interpretando l’Argentina come un potentato di mille famiglie che dominano tutto, dalla terra all’energia elettrica ai ponti ai trasporti, qualcosa in più si capisce. La stessa ereditarietà della carica presidenziale di marito in moglie, da Perón in giù, è un indizio non da poco, il progetto dell’enorme diga di acqua dolce al lago Argentino assume tutt’altra luce se si è a conoscenza della proprietà delle sommergende terre, Cristina Kirchner appunto. E dei colleghi che gestiscono l’energia elettrica, produzione e diffusione. Ecco perché, banalmente, a fronte di così tante risorse il paese non decolla e la maggior parte della popolazione stenta, i novecentomila ettari di terra in possesso dei Benetton spiegano qualcosa, ma a pensare alla sola lana si sbaglierebbe: lo sfruttamento delle terre della Compagnia delle Terre del Sud Argentino si è unita allo sfruttamento minerario di giacimenti situati nella provincia di San Juan, attraverso Min Sud (Minera Sud Argentina S.A.) che ha sede centrale in Canada. Dal 2011 gli stranieri possono possedere solo fino a mille ettari ma la cosa non è retroattiva ed è, inoltre, derogabile per specifici interessi del governo, appunto amici di famiglia.

Mi godo la vista dall’ultima finestra dell’ultima camera dell’ultima cittadina patagonica, provincia ancora di Última Esperanza, tutto è ultimo. Potenza dell’immigrazione italiana, e non l’ho detto finora, si trova quasi sempre il bidet. Oh, calma, nelle stanze d’albergo, nelle stazioni di servizio e nei bar è già molto trovare un bagno ma, quando si trova, è un accessorio che fa sentire a casa. I bidet argentini hanno una cosa in più, un buffo spruzzino a metà che, se non si è pronti, spara un getto verticale notevole. Certamente utile, certamente fonte di divertimento per molti.
Concludo su un bidet? Eh, più o meno. Dai, una nota più gradevole, risalgo a Buenos Aires per tornare, una bella serata a Puerto Madero, zona chic del porto recuperato per l’ultima ultima ultrabistecca, una corsa mattutina al pelo per vedere la Grand Splendid, una meravigliosa libreria aperta in un teatro, il palco è il bar. Dove savasansdir si può stare al tavolo ore prendendo un solo caffè o pure niente, sfogliando un libro. L’avevo segnata sulla mia mappetta delle cose da vedere nel mondo.

Ma il tempo è proprio quello che io non ho più, cinque minuti e una gran corsa in aeroporto. Che assurdità, percorrere quattromila chilometri di rute patagoniche e australi, viaggiare per ore nel nulla, contemplare cime granitiche inviolate e adesso devo andare di corsa perché non ho più tempo. Non i soldi, non l’amore, non il cielo, il fulcro è il tempo. Che poi, come diceva mio padre, nemmeno esiste il tempo, le equazioni della fisica fondamentale ne fanno sempre più a meno, appena lo si nomina è andato, diciamo che sia una nostra fantasia, ‘sto tempo. Ecco, questa fantasia a me adesso svanisce, ho un orario, un posto dove essere, un biglietto per il controllo, che fantasie vuoi avere? Quelle che mi costruirò, a partire da domani, mi sa che qui ci tornerò.


L’indice di stavolta

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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: nove, altri ghiacciai, per strada di nuovo, frontiere, valigie, panorami

Torna il sole a El Calafate e, quindi, anche su di me. Giornata buona, dunque, per andare a navigare sul lago Argentino, a pigliare l’aria buona. El Calafate è un luogo molto turistico, vista la vicinanza del Perito Moreno, trovare qualcuno per organizzare il giretto è molto facile, basta camminare per Avenida del Libertador e scegliere l’offerta più conveniente, tra pullmino e traghetto. Io scelgo quella completa perché son goloso. Solita levataccia e via, giornata gloriosa per sole e luce.

Se il ghiacciaio Upsala è enorme, una lunghissima lingua di ghiaccio che si immerge nel lago dolcemente, lo Spegazzini è invece prorompente, con un fronte molto largo e alto quaranta piani entra nel lago di prepotenza.

A differenza del Perito Moreno, però, si muove come i ghiacciai che conosco, lento e silenzioso. Ogni tanto ne crolla un pezzo, perché l’acqua è più calda del ghiaccio, ma non tuona e non avanza incessante come il Perito. Con la barca andiamo sotto sotto e la barca per sua natura costringe al contatto stretto con le altre persone. Che, se sono turisti, diventa per me più difficoltoso. E ora, per la serie-verità Instagram vs. Reality, un momento di racconto veritiero, a differenza di tutto quanto scritto finora:

Non sono riuscito a essere in barca da solo, il ritorno alla folla è stato d’un certo impatto, se di folla si può parlare. Nulla a confronto dello svincolo di Cormano in direzione Rho-Pero, ne ho ricordo, sarò là mercoledì. Non ora, però. Ora fuggo via dalla folla e ripiego verso sud da El Calafate verso Esperanza, per poi riprendere la ruta 40 e scavallare al passo Paso Río Don Guillermo di nuovo in Cile.

Questa frontiera è più tosta, a parte il vento costante: i frontalieri argentini, nonostante si esca, segnano ogni mancanza del pullmino; i frontalieri cileni impongono una lunga coda per i documenti e poi ispezionano i bagagli prima con un cane che non ha voglia e poi a occhio. Sono riuscito a fare una foto:

Frutta, verdura, prosciutti, come l’altra volta sono alla ricerca di alimenti. Va’ a sapere. Ci vuole un po’. Il paesaggio è incantevole, sembra la val Badia senza case e presenza umana, cadauno testimonianza:

Il piano a questo punto è andare verso ovest a vedere il Paine, con le sue torri, il Cerro Paine Grande, il ghiacciaio Gray, quello dei francesi e tutto il parco appunto del Paine. Ovvero, un massiccione di pietra vulcanica e granito con tre torri di granito paragonabili ai campanili delle Dolomiti o al Torre. Nero, grigio, ovviamente bianco e chiaro di granito, si erge imponente dall’orizzonte ed è circondato da decine di laghi comunicanti.

Per quel che resta di oggi e domani voglio camminarci un po’ attorno, tutto il parco è incantevole, persino troppo: ghiacciai, cime di granito, prati, fiumi, fiori, boschi, lagune, laghi, ruscelli, cascate, non è un po’ troppo?


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: otto, visto!

Gira e rigira, circumnaviga e rompi i maroni, riesco ad arrivare alla piana dei laghi Argentino e Viedma, alla base della cordigliera, e seppur da lontano riesco a vedere Fitz Roy e Cerro Torre, rispettivamente a destra e a sinistra qui sotto:

Sebbene sembrino vicine, sono a trenta chilometri l’una dall’altra. Il Cerro Torre fu teatro tra l’altro di una delle più grosse stronzate dell’alpinismo, la via del compressore nel 1970. Storia lunga. Fitz Roy, invece, era il comandante del Beagle durante il primo viaggio di Darwin, passarono molto tempo in Patagonia prima di passare lo stretto di Magellano e andare nel Pacifico. La direzione è El Calafate, perché anche lì ci sono molte cose da vedere, ci si può arrivare. La piana che sottende la cordigliera e i laghi è clamorosa, enorme, primordiale.

I massi erratici raccontano i ghiacciai di una volta, che arrivavano fino all’oceano. Un progetto di una diga vorrebbe raccogliere le acque dolci provenienti dal Campo de Hielo Patagónico, non si sa quanto consapevolmente rispetto agli effetti sull’ecosistema. Di consapevole c’è certamente che le terre che verrebbero occupate appartengono a Cristina Kirchner. Nella cui fattoria un giorno i magistrati scavarono molte buche cercando soldi ma senza trovarli. Farà attenzione prima di inondarli. Verso ovest, sulla cordigliera, si apre il parco de Los Glaciares, circa ventimila chilometri quadri di ghiaccio che scendono più o meno variamente a valle. Il più famoso di essi è senz’altro il Perito Moreno.

Posto una fotografia anche se è contrario alle mie linee di condotta del minidiario, prima di tutto perché non rende giustizia allo spettacolo. È certamente il più noto perché termina nel lago e ha uno straordinario ritmo di avanzata di circa un metro al giorno, il che implica che continuamente ceda di schianto e con rombi mai sentiti crolli a pezzi alti venti piani nell’acqua. Intendiamoci: è uno spettacolo straordinario che, da solo, vale il viaggio. Però, però, io ho alcuni però. Ne dirò tre: la sottile malinconia che mi prende a vedere un colosso del genere recedere per volume, conoscendone il destino; la presenza sostanziosa di turisti; il fatto che è il luogo che conoscevo di più della Patagonia, minore sorpresa. Mi rendo conto che, così, però, io non stia rendendo giustizia a una delle più sensazionali manifestazioni della natura sulla terra. Che, peraltro, il me di dieci anni sognava ardentemente di vedere, che tradimento. Ritiro, me le tengo per me.

Francisco Moreno, il Perito, fu il tecnico di parte argentina incaricato di definire i confini con il Cile lungo la cordigliera. Siccome i fiumi di quest’area orografica nascono a est della cordigliera e sfociano a ovest nel Pacifico, i cileni sostennero il principio dei confini lungo i fiumi. Il saggio Moreno, invece, sostenne la linea del confine lungo i profili dei Cerri, delle montagne, e per farlo deviò un fiume verso l’Atlantico, per mostrare quanto labile sia il principio. E la vinse, sebbene molte zone, intendo davvero molte, siano ancora disputate tra i due paesi. E Moreno, divenuto il Perito di nome proprio per valenza, divenne eroe argentino, cui furono dedicati parchi nazionali, vie, piazze e, appunto, il ghiacciaio più famoso di tutti.


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