‘Dede’, dedè, è il titolo di un film georgiano del 2017 ambientato nel Grande Caucaso e, più precisamente, l’unico girato in lingua svaneti. La regista, Mariam Khatchvani, è nata proprio nel villaggio di Ushguli, di cui raccontavo ieri, e con il suo film ha vinto molti premi in giro per il mondo, tra cui se non ricordo male una menzione a Cannes. Un critico, con un’espressione che è poi stata ripresa anche per la promozione del film, l’ha definito “un melodramma georgiano in cui il femminismo incontra il fatalismo”, anvedi. Nel centro di Mestia, mentre me ne vado a zonzo, finisco al cinema Dede che proietta cinque volte al giorno sempre e solo il film da cui trae la propria ragion d’essere, accompagnandolo con qualcosa da bere, eventualmente.

È il Sacher del villaggio e immagino che l’idea e i mezzi siano della regista Mariam Khatchvani. Me la immagino nel suo villaggio di venti case torri e inaccessibile per sei mesi all’anno per neve, alle pendici del Grande Caucaso, scoprire alla fine degli anni Ottanta innanzitutto l’esistenza del cinema, come arte e attività, poi non so come vedere qualche film e, infine, comunicare ai genitori di voler diventare una regista e di voler scendere dalla valle. La cosa, tutta insieme, ha a dir poco dell’eroico, vista da qui.

Scendo costeggiando il fiume Enguri, passando sotto le due cime a picco dell’Ushba, il Cervino del Caucaso, oltre quattromilaesette, e vado verso la Mingrelia, la regione storica della Georgia sul mar Nero, sotto l’Abkhazia, ovvero per gran parte la storica Colchide, quella di Medea. Poco dopo Poti, guado il fiume Rioni e sono un poco emozionato: era noto come fiume Fasis, Phasis, nell’antica Grecia, quando veniva considerato come il confine geografico tra Europa e Asia e uno dei limiti del mondo abitato insieme alle colonne d’Ercole. Ovvio, per loro la parte commerciabile finiva lì. Il fiume è quello degli argonauti, lo seguirono fino all’estuario, alla colonia greca omonima, dove presero il vello.
Il mar Nero che ricordo è quello rumeno, grigione e indistinto, bordato dalla Rimini costruita dagli italiani a Costanza, povero Ovidio. Qui non è molto differente, leggermente più blu, le petroliere uguali e il termine della ferrovia da Baku che porta il petrolio a Batumi, la Dubai georgiana per le gioie del mare, del gioco d’azzardo e dei massaggi thailandesi.

Perché sono qui? Per nessuno dei tre motivi qui sopra, evidentemente. Se proseguissi lungo la costa per alcuni chilometri, pochi, sarei in Turchia e proseguendo ancora arriverei a Trebisonda dove, ovviamente, la dovrei perdere. Sono ingolosito, l’idea mi piacerebbe ma romperebbe il senso della mia transcaucasica, pur avendo senso da molti punti di vista, storico per primo. Alla fine, Batumi non è nemmeno così male, la città vecchia ancora esiste e i boschi attorno fanno bella cornice. Nonostante sia agosto sembra Rimini a novembre, incontro un francese alsaziano in trekking in Georgia, ci offriamo qualche birra vicendevole e mi mostra come il suo ministero degli esteri gli sconsigli con rosso acceso l’Azerbaijan, pericolo di rapine e sequestri. Addirittura. Gli dico che io pericoli non ne ho visti e a me Tajani non ha detto nulla, poi mi sento mentre parlo e mi viene da ridere. Tajani, che strano suono così lontano…

Adesso mi muovo verso est, verso Akhaltsikhe, per poi scendere a sud, verso la terza tappa del mio viaggio. Ma ci sono ancora posti da vedere in mezzo.
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