minidiario scritto un po’ così di un breve giro nederlandico: uno, ogni cosa è dove è sempre stata

Dovevamo essere cinque, sull’aereo salgo uno. La destinazione scelta doveva far piacere in particolare a due compagne di viaggio, alla scoperta di una capitale ancora ignota, ci vado io che ignota proprio non è: facendo mente locale, a occhio posso dire 2004, 2015, 2020 (due volte, una a ridosso del covid, l’altra a risarcimento), 2023, 2024, che mi par fin giusto metterci il 2025, quasi ormai un appuntamento annuale. È dunque un minidiario a bassa intensità, nessuna grande scoperta presumo, avventure ridotte ma mai dire mai, come diceva quello, che non si sa mai quello che al mondo ci può capitar, dicevano quegli altri. Organizzata come una visita classica da prima volta, ci sono alcuni appuntamenti inderogabili: due grandi musei prenotati, albergo preso. Quindi pochi giri fuori, va bene così, avevo già fatto una allegra ma inutile guida sul concatenamento Haarlem, Leida, Delft, ed ecco svelata la destinazione: Amsterdam. Ho sentito che possa andare peggio. Vediamo che riesco a organizzare nell’unico giorno libero da cose in città. Perché, dunque, farne un minidiario? Ma che ne so, devo sempre rispondere a tutto io? Vado, è bello, sto a zonzo, i giorni erano tenuti liberi apposta, qualcosa succederà. E se non, racconterò il non. Mica è sempre Caucaso, per fortuna. E poi poche sbruffonate, la città è talmente enorme che ne resta molta e inaspettata, basterebbe il Zuid. Comunque, l’avventura vera sarebbe stata la compagnia e il diletto dei miei compagni di viaggio, a loro dedico questo breve giro in attesa di recuperare quanto prima l’occasione ora sfuggita.

Sebbene spietatamente piatti e per buona parte appoggiati su fondamenta di sabbia, il paesaggio naturale è predominante nei Paesi bassi. Certo, educato e organizzato, il canale qui e il confine lì, il ponticello e la strada senza dimenticare una qualche grossa azienda sullo sfondo, ma ciò che si coglie di più è il verde di campi, prati e boschi, il marrone di piante, canali e mattoni, il riflesso del cielo nell’acqua, un certo silenzio generale che da noi esiste solo la mattina del primo dell’anno. Ora che cadono le foglie, gialle e di mille aranci, è una successione di cartoline di quiete e ordine aggraziato. Considerato che in un’ora al massimo di treno da Amsterdam si arriva ovunque nei Paesi, tutto viene facile. Per la gita fuori porta di oggi sono venuto ad Amersfoort, graziosa cittadina a est di Utrecht, che ebbe un certo ruolo durante la guerra, testimoniato dai resti di un campo di prigionia tedesco e da un esteso cimitero di guerra con una vasta parte sovietica. E città natale di Mondrian, en passant, per fare della cultura.

Tutto è confortevole, facile, sorrido con un cenno del capo all’uomo con il barattolo di pittura, faccio due chiacchiere con l’aviere in divisa che scatta la mia stessa foto del campanile sul canale, saluto la donna con la bambina piccola quando mi sorridono, osservo curioso l’enorme negozio di attrezzi per il giardinaggio, ho accettato di buon grado di pagare un euro in più per il doppio espresso da portar via in un contenitore riutilizzabile, così tornerò, cedo il passo alla coppia paonazza in volto che attraversa il ponte sul canale in bici. Le biciclette scorrono via silenziose, difficile venga in mente a qualcuno di mettere una carta tra i raggi per fare casino, qui. Tutto molto riposante, le tinte scelte per questo paesaggio nederlandico autunnale inducono a calma e serenità.

È tuttavia una facilità che costa, serve che il sistema non abbia troppe interferenze esterne perché regga, le risorse devono entrare e devono uscire prodotti se si vuole mantenere l’equilibrio. Vado a memoria, tre delle prime dieci aziende del mondo per fatturato sono olandesi, questa pace fatta di vacche, acqua, formaggio e casette stupende da qualche parte si deve alimentare.

Sarà che sto leggendo Our daily war di Andrei Kurkov, diario scritto dall’Ucraina assediata, sarà che ripenso ai miei viaggi recenti, alle pianure del centro Asia, al nordafrica, alle ex repubbliche sovietiche, non posso non notare quanto carburante, metaforico e non, serva per tenere in equilibrio un sistema come questo. Io sono uno di loro, europeo, vivo più o meno allo stesso modo, anche fisicamente gli assomiglio, per quello mi salutano. Sono cortesi e amichevoli, rispettosi e quieti come già più a sud non siamo ma, l’ho già detto in tutte le salse, tendiamo a scambiare indifferenza per tolleranza. Le relazioni tra estranei si fermano a un punto ben preciso. E non c’è niente di male, sia chiaro. Basta essere coscienti di vivere in un sistema abbastanza chiuso, permeabile alle merci ma meno alle persone. Facendo della facile retorica, il baretto fatto di quattro sedie, una bombolona di gas e l’ombra di un fico nel niente azerbaigiano, che appena ci si avvicina si anima, si alzano tutti, ti cedono una sedia e poi si brinda fino allo sfinimento con interminabili sorrisi e pacche sulle spalle senza che nessuno capisca un’acca di quel che si dice, beh, qui non c’è.

Niente di male, ripeto, è anzi pure più faticoso il baretto sociale, è solo che siamo un po’ tutti uguali e tutti un po’ spompati, qui. Con la nostra copertina sulle gambe, è iniziato il freschino, fuori dal caffè sul canale, chiacchieriamo piacevolmente scegliendo tra dolce e salato, ci godiamo il sole, il vento e il glicine rigoglioso sopra la testa, con una vaga e poco confortevole sensazione di fondo che le cose, nel frattempo, sotto sotto e piano piano, stiano un po’ sfuggendo al nostro controllo.


L’indice di stavolta:

uno | due | tre

compagno cittadino, fratello partigiano

A metà settembre è mancato Fausto Amodei, cantautore e politico di sinistra italiano, autore della canzone di protesta “Per i morti di Reggio Emilia”. La canzone, scritta per ricordare le vittime della strage in cui morirono cinque operai del PCI colpiti dalla polizia durante una protesta sindacale contro il governo Tambroni appoggiato dall’MSI, è secondo me la canzone politica più bella del dopoguerra. Nel senso politico della cosa ma anche in quello musicale, a me piace proprio anche per quello.
Interessante quanto disse lo stesso Amodei a tal proposito: «Per ribadire anche musicalmente il carattere resistenziale e neo-partigiano della canzone e dei fatti narrati, partii dalla constatazione che la più celebre canzone partigiana, Fischia il vento, si serviva di una melodia russa, Katiuscia, imparata presumibilmente da alpini dell’ARMIR […] e volli dare un carattere decisamente di inno sovietico alla melodia, prendendo a prestito un breve risvolto melodico tratto da I quadri di un’esposizione di Modesto Musorgskij».

che ne pensi? Cortesi recensioni pt. 6.332

Già è difficile normalmente, se poi recensore e recensito sono due picchiatori verbali le cose non possono che migliorare. Nel 1971 Norman Mailer pubblicò Il prigioniero del sesso, pamphlet polemico nei confronti della letteratura femminista del tempo. La «New York Review of Books» chiamò per la recensione Gore Vidal, allora i rapporti tra i due dovevano ancora iniziare e lo fecero nel migliore dei modi: Vidal definì la lettura del saggio come un’esperienza simile a «tre giorni di flusso mestruale».
Nel 1977 a una festa, Mailer stese con un diretto Vidal ma nel mezzo ce ne furono di ogni colore e gusto. Le racconta Giulio Passerini in ‘Inimicizie letterarie’.

ohi ohi, e l’amicizia a cena?

Andata?

Dice Le Pen: «La cosa che forse le invidio – dice Le Pen – è l’enormità del piano di rilancio che ha riguardato l’Italia e che noi, la Francia, andremo a pagare. Con 240 miliardi di Pnrr ricevuti dall’Unione europea è più semplice». Come nel 2024, il sospetto è quello dell’asse Le Pen-Salvini, il presidente lui italiano si irrita, Conte titolare della pratica al tempo si sente di dover intervenire e bon, quelle piccolezze lì.

59 seconds of: that flashing Barrowland Ballroom, Glasgow

Sala da ballo prima, poi da concerti, la Barrowland Ballroom o Barrowlands di Glasgow è un magnifico posto in cui andare a sentire concerti ballando – e io lo feci, per fortuna, con Alison Goldfrapp -, si guardi Waterfront dei Simple minds, il video, per conferma. Famosa l’insegna che, narra la leggenda, fu spenta durante la guerra perché usata come riferimento dai bombardieri tedeschi. Con quella ‘r’ lampeggiante così appropriata.

Fifty-nine seconds of anything, whether or not it has any intrinsic meaning and something to immortalize. Preferably with the smallest means possible.

Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più compassionevole dello scendiletto, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.

Tutti gli altri 59 secondi | pleilista

quando si uniscono le due cose che amo di più al mondo

Ovvero la magia e il mental coaching. Come resistere?

Mi scrive questo Rolfo la cui qualifica professionale non può lasciarmi indifferente:

Sì, ingegnere della felicità con le solite maiuscole a caso. Perché “la felicità è una scelta”, come dice l’ingegnere, scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo. Vado. Ma se poi sto bene sul posto di lavoro non è che poi sto lì di più?

le storie di come alcuni popoli ebbero le proprie terre: georgiani e colombiani

Infinite le storie sulle fondazioni delle città, sulle costruzioni di ponti ed edifici, meravigliose, e anche le storie che raccontano come i popoli ebbero le loro terre. Più rare queste ultime, al momento ne conosco due e riguardano georgiani e colombiani e, ovviamente, spiegano come essi abbiano ottenuto terre così belle e migliori di tutte le altre. Hanno però entrambe un accento ironico sulla qualità – diciamo discutibili in alcuni ambiti – dei propri abitanti, racconti splendidi. Eccole.

La prima, su come i georgiani ebbero la Georgia, l’ho letta nel resoconto di viaggio da Lisbona a Pechino su un Ape Piaggio di Paolo Brovelli, la riporto:

Narra la leggenda che, mentre il Signore assegnava un pezzo di terra a tutti i popoli del mondo, i georgiani fossero impegnati in una delle loro solite mangiate, innaffiate da abbondante buon vino. Quando venne il loro turno, stavano brindando e non potevano interrompere un momento tanto importante. Fu così che rimasero senza terra. Quando se ne accorsero, si precipitarono subito da Dio chiedendo perdono, dicendo che era proprio alla sua salute che stavano brindando. Il Signore allora, mosso a compassione, assegnò loro il pezzo di terra che aveva conservato per sé.

Per sé, addirittura. La seconda la ricordo e la scrivo a memoria, la sentii anni fa in ‘Narcos’, la serie:

Quando il Signore creò le terre del mondo, si accorse che la Colombia gli era venuta particolarmente bene, fiumi, montagne, clima. Allora realizzò che gli altri popoli del mondo ci sarebbero rimasti male, al confronto. E così, per pareggiare le cose, la riempì di figli di puttana.

Questa seconda potrebbe essere adattata a molti altri posti, la Sicilia su tutti. Di solito è raccontata con un certo compiacimento, come del resto la prima.

speriamo non cominci l’invasione stasera, che abbiamo una cena

Così a un certo punto scrive Andrei Kurkov nel suo notevole Diario di un’invasione (2022), per dare sostanza al sentimento prevalente dopo mesi e mesi di attesa per un’invasione annunciata, leggasi Ucraina, mentre i russi ammassano truppe al confine, le diplomazie la prevedono come inevitabile, il governo si attrezza, la tensione dell’attesa è continua. Quasi, a un certo punto, uno desidera che accada.

Un diario chiaro e diretto, interessantissimo, letto con il magone di sapere che non è finita. Infatti, c’è un seguito, ormai diventato La nostra guerra quotidiana (2024), in realtà probabilmente una risistemazione e ripensamento di quanto già scritto in questo giorno per giorno, intuisco, lo saprò presto.
Chiunque abbia provato a scrivere un diario in tempi d’emergenza ha incontrato alcune delle difficoltà di Kurkov, ben sapendo però che un diario è essenziale, perché alla fine la memoria non saprà ricostruire come si sia arrivati a certi punti. Per esempio, come e quando le persone abbiano smesso di rifugiarsi al suono delle sirene, preferendo piuttosto una vita rischiosa alla continua paura, in che punto l’abitudine abbia il sopravvento su cariche emotive altrimenti insopportabili.
Ancor più interessante, visto che Kurkov è russo sovietico di nascita e formazione, scrive in russo, in trasparenza dell’asciuttezza del diario si percepisce il grande scrittore e la persona di sostanza e valore, una delle migliori letture da tempo.
Sperando che questa guerra finisca.