Radio Popolare sta trasmettendo una serie di documentari estivi, alcuni buoni altri meno. Tra quelli buoni, molto, una serie di cinque puntate sui produttori musicali che hanno cambiato il suono del loro tempo, Spector, Rubini, Eno, Albini, Dr. Dre. È ‘Maestri del Suono’ di Dario Grande, notevole, complimenti.
Ne servirebbero, oggi, di produttori. Come di editor nelle case editrici, eccome.
Bon, qui ho finito. Cioè, ne avrei ancora molto ma è ora di tornare, ho già sfidato la sorte troppo a lungo, alla fine sono in giro dal due, non posso lamentarmi. Né lo vorrei fare. E, in realtà, avrei anche potuto concludere il minidiario alla sesta pagina, visto che Potsdam (pronuncia: pòt-sdam, enfasi sulla ‘t’, altrimenti mia madre viene lì e vi corregge) è l’ultima tappa della mia coda di viaggio e un po’ l’ho raccontata. Ci sono però alcune cose che ho dimenticato di menzionare o che non entravano nel senso dei racconti, cose serie e meno, molto meno, per cui colgo lo spunto e raccolgo qui, a conclusione. In ordine con il viaggio.
A Francoforte un sacco di gente per strada, le due mummie sulle panchine nella foto. La cosa stride ancor di più visti i palazzoni della finanza europea e mondiale, la BCE più di tutti.
A Fulda, come in Baviera gli orsetti, sul cuscino ho trovato le pecorelle gommose, per poterle contare e addormentarmi. Bel pensiero, ovviamente mangiate tutte ancor prima di mettere giù lo zaino.
A Fulda, in prossimità dell’abbazia, l’attraversamento pedonale è in tema:
A Erfurt il ring ha ancora l’odonomastica della DDR, felice me, ed è intitolato all’immortale Gagarin.
La casa di Cranach Vecchio a Gotha – si stava dove il principe committente stava – è un chiaro esempio di pareidolia: tra il pagliaccio triste e sorpreso.
Gotha, odio i musei che invece di attaccare i cartellini con le informazioni sui dipinti fanno il pannello centrale riassuntivo, che poi non si guarda nulla. Almeno il foglio che si tiene in mano, almeno.
Alcuni dei poster per la festa della Bauhaus del 1923 a Weimar. Festa che comprendeva, oltre a mille manifestazioni varie tra cui spiccava il teatro, anche una gara di aquiloni. Aquiloni, capito? Disegnati e inventati in mille modi, che bello spirito c’era.
Libertà e giustizia per chi, a Jena? Chissà perché qualcuno l’ha cancellato, spero siano sopraggiunte giustizia e, quindi, libertà.
Sempre a Jena, ho visto la Love Machine, stupenda. Chissà la storia, non c’era nessuno.
La stazione di Dessau ha un mosaico murale Bauhaus che dice subito tutto, notevole. Sotto, due donne che spiegano la bibbia, scappato.
Ho raccontato delle case dei professori della Bauhaus nella parte cinque, meravigliose, Klee abitava davanti a Kandinsky. Le case erano però in queste condizioni sotto la DDR, fino al 1992, momento in cui qualcuno sveglio le avrà comprate per un tozzo di pane e ora ci abita.
Basti questa bacinella disegnata dalla Bauhaus di Dessau per dire quanto moderni fossero. Non sfigurerebbe tra le novità di questo momento.
Una buffa foto di Gorbaciov nella piazza centrale di Dessau, sia perché molto magro – e così lo shaming l’ho fatto – sia perché immortalato con un improbabile piumino peraltro di quelli ora in vendita da decathlon, sottili come si fanno solo ora, stivaletto e un pantalone attillato che mette in evidenza il pacco, bel pleiboi, lui.
L’Hundertwasser di Magdeburgo. Mah, io non lo capisco, forse non c’è nulla da capire, mi pare sia solo confusione e voglia di aggiungere, mi sfugge il messaggio se non quello generale, che non c’è messaggio, solo emozione. Ecco, quello non mi soddisfa.
«Scusi dove posso trovare Mocca-Fix?», «Fuori commercio». Proprio di Magdeburgo, marchio della Röstfein, a fine Ottocento diede inizio alla torrefazione del caffè in Germania. Poi ci fu la famosa crisi del caffè della Repubblica Democratica Tedesca, per cui con l’inflazione galoppante il governo decise di iniziare scambi commerciali con i Paesi del terzo mondo barattando armi e mezzi pesanti in cambio di caffè ed energia e poi, degenerando comunque la situazione, a trovare soluzioni più economiche, come miscele di metà caffè e metà farina di piselli o ceci o soluzioni strane, il popolo rifiutò, spesso si intasavano pure le macchinette. Ora è nel museo di Magdeburgo.
Sempre nello stesso museo, che poi è quello dell’Unicorno e quindi mostrano non poco spirito, nella parte didattica dedicata agli anfibi hanno messo, per rendere chiaro il concetto, il manichino di un pescatore tipico tedesco, sigaro e Adidas, non manca nulla:
A Potsdam si fa campagna elettorale per le elezioni del sindaco e da destra, come sempre, premono sull’aumento dei costi e la diminuzione del potere di acquisto:
Un menu in un ristorante di Potsdam con le prescrizioni mediche, attenersi:
Un raro resto della DDR a Potsdam, una serie di mosaici in pieno stile con frase di Karl Marx, ormai pare non ci sia più alcun modello alternativo e anche queste cose spariranno tutte a breve:
Sempre Potsdam, se non hai l’obelisco egizio originale, fattelo su tu, inventando, che problema c’è?
Nel Neue Palais di Potsdam, dopo le vicende della guerra, hanno per fortuna conservato una scritta originale dei soldati russi, durante la battaglia di liberazione di Berlino, che dice: “Morte agli occupanti tedeschi”, ancora si bombardava e il palazzo era ricovero delle truppe sovietiche e dei civili tedeschi.
Nel parco dei palazzi, ho visto l’edera più grande io abbia mai visto. Almeno trenta centimetri di dimensione artistica per diametro, l’albero è un bel colosso.
Con tutte queste cose ci avrei campato settimane di post qui, vabbè, all’anima della generosità. Chiudo con una cosa bellissima, la torre Einstein nel centro geofisico di Potsdam, una collina con osservatori astronomici, acceleratori, centri per lo studio del cambiamento climatico. Essa non ha alcun rapporto diretto con Einstein ma il costruttore ne fece un piccolo osservatorio per verificare le teorie sulla relatività del fisico. È un pezzo modernista notevolissimo, mi son salito la collina dopocena apposta.
Bene, anche qui abbiamo finito. Non c’è morale né insegnamento, era un giro di recupero e piacevolezza e così è stato. Tra qualche giorno rimpiangerò, anzi lo sto facendo proprio ora che scrivo a cose concluse e che sono ricominciate le più noiose. Alla prossima, grazie a chi ha seguito.
C’è un motivo preciso, uno solo, per cui salgo ancora un po’ e vado a Magdeburgo: l’Unicorno. È una delle mie storie preferite, l’avevo già raccontata per esteso qui. Nel 1663, epoca totalmente a digiuno non dico di paleontologia ma addirittura di qualsiasi cosa antecedente alla bibbia, figuriamoci, a Magdeburgo scoprirono una caverna piena di ossa di animali antichi. Chiamarono quello che ne sapeva di più sull’argomento, il naturalista Otto von Guericke, che fece una ricostruzione di un ipotetico animale, eccolo:
Ecco, me la faccio addosso solo a guardarlo. Corri, bello, corri libero. Naturalmente nessuno aveva supposto che in quella caverna ci fossero ossa di animali diversi, tantomeno il von Guericke, un po’ perché era difficile farlo – nel 1663 nemmeno il rinoceronte era ancora stato descritto nella letteratura scientifica – e perché era una situazione davvero improbabile – in quella caverna si trovavano animali diversissimi, acquatici e terrestri, e di epoche molto distanti, va’ a sapere per quale combinazione di fattori. Fu così che von Guericke assemblò l’animale più armonioso e bello e funzionale della storia, unendo un cranio di rinoceronte, le gambe di un mammut primigenio e il corno di un narvalo.
Al Museum für Naturkunde di Magdeburgo, che sono persone di mondo ricche di spirito, l’hanno ricostruito e lo tengono in esposizione vicino ai fossili veri, li ammiro. Ed è corretto, perché alla fine il museo è museo anche dell’evoluzione della scienza, degli svarioni presi nel tempo, delle intuizione corrette e meno. Me lo chiedevo allora e ancor di più oggi: quanti Unicorni sono esposti nei nostri musei e si riveleranno solo in futuro? Sono deluso solo del fatto che al negozio del museo non ci sia un modellino della star del museo da comprare e tenere sulla scrivania a perenne monito di ciò che oggi ancora non so. Museo? Che resto del museo? Magdeburgo fu senz’altro una città formidabile e ricca nel medioevo, nel rinascimento e nei secoli successivi, una delle roccaforti della riforma protestante, la sua posizione sull’Elba e i resti delle mura lo dicono chiaramente, fu grande e prosperosa. L’infilata, poi, come tante città, di nazionalsocialismo, bombardamenti, dopoguerra, DDR, dissoluzione dell’URSS, non ha portato bene: città disconnessa, con ampi spazi vuoti poi riempiti da qualche condominione di ispirazione vagamente socialista e, peggio ancora, da centri commerciali negli anni Novanta, a far da scenografia alle vie principali o alla piazza del municipio e il famoso palazzo imperiale di Ottone perso chissà dove. La cosa più memorabile, a parte l’Unicorno vero fulcro di tutto, è la posizione della città, un enorme duomo testimone di altre epoche, l’ultimo progetto di Hundertwasser, di fatto la città ha perso sessantamila abitanti negli ultimi vent’anni e si vede. Lo vedo anch’io e ripiglio il treno, l’Unicorno l’ho visto e per questo sono già felice.
Un’ora di treno e sono a Potsdam. Degnissima conclusione del viaggio e comoda, strategicamente per loro e anche per me ora, per la vicinanza a Berlino. Potsdam, infatti, come tanti paeselli sui laghi in prossimità della capitale, fu luogo di vacanza e ricreazione della nobiltà prussiana e più di tutti di Federico il Grande, der Große. Boschi, laghi, cieli ormai più simili al Baltico che al Mediterraneo, aria fresca, cervi immagino allora, lepri, volpi e cose da cacciare, cose da mangiare, che poi viene natale. Ovvio, abbastanza, fare casa qui. Federico II, che non era detto il Grande per caso, volle una residenza di piacere e non di lavoro, di sollievo e non un fardello: un piano solo, piccola il giusto, armonica, in mezzo al verde e alla bellezza: Sans souci, senza preoccupazioni. Pensava a sé come a un filosofo e se anche non lo fu o non fu dei più brillanti, lo fu certamente in reazione all’odiato padre soldato e a ciò che i tempi volevano. C’è un libro molto bello di Alessandro Barbero, Federico il Grande, perché sintetico e ben scritto, anche un bel podcast per Alle otto della sera, su Rai play sound, vale la pena per farsi un’idea del Grande di Prussia.
Dentro, la solita rottura di balle di salottini vellutati polverosi, di quanti divanetti avranno mai avuto necessità? Ma fuori molto bello, le piante ornamentali anche, con delle apposite serre a finestra, belle. Un enorme palazzo in lontananza – è mezz’ora che cammino nel bosco e non sono ancora arrivato, lo vedo là come fosse il Kilimangiaro che non si capisce se ci vogliano tre ore o tre giorni – costruito per gli ospiti, lui preferiva il palazzo piccolo a quello Nuovo. Tra l’altro, quello nuovo, imponente senz’altro, ha delle cosette davvero orrende, dentro. Sono certo che nella salona di rappresentanza al pian terreno le pietre e le conchiglie siano di grande valore ma non riesco a non avere una vaga sensazione di nausea.
Son cose che piacciono se sei ducaconte o nazista in cerca di sale di rappresentanza – così fu per parecchie volte, qui -, altrimenti insomma. Il parco è bellissimo, ci cammino per ore, piove, mangio un panino davanti a un pubblico di capre, incontro talvolta una coppia con ombrellino che si gode l’ambiente, è una splendida fine agosto. Vado a pensare.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. Vado a Jena, sulla scorta della sua famosa università – basti citare la triade Fichte, Schelling e Hegel – più che per informazioni attuali. A volte è meglio andare a vedere di persona. Fu a Jena nel 1806 che Hegel vide sfilare Napoleone e lo definì, è noto, “anima del mondo”, concentrato in quel punto esatto, in quel momento, mentre andava a cogliere una delle vittorie più clamorose delle sue campagne, dissolse in sostanza l’esercito prussiano, ormai lontano dalla disciplina e abilità di Federico il Grande. E andiamola, ‘sta Jena.
Era l’università di Heidelberg, forse di Jena, cantava il grande Ricky Gianco in Fango, ma in programma c’erano i cubi, purtroppo. Gran canzone. A Jena trovo pochetto, lo sospettavo dalle scarse notizie, un bell’osservatorio dovuto a Carl Zeiss, il migliore fornitore di lenti mai avuto, e poco altro, il centro è sconnesso, i dintorni graziosi ma residenziali, l’università imponente e ancora prestigiosa. Capita di esaurire le visite in poco, piglio la via delle colline per vedere meglio e sgranchirmi ma ci metto comunque poco a capire che non varrebbe la pena fermarmi qui un giorno. Stazione, treno, prossima tappa: Dessau.
Quando nel 1925 la neoamministrazione destrorsa di Weimar diede lo sfratto alla Bauhaus, parecchie città si offrirono di accogliere la scuola. Per posizione, offerta, connessione industriale la spuntò Dessau. Ed eccomi qui. C’è una zona a nord della città, verso l’Elba, in cui la scuola, le case dei docenti, le strutture per gli studenti, le abitazioni costruite da Bauhaus per le aziende della città, le vie, le zone di espansione, tutte parlano la lingua della Bauhaus.
I balconi della scuola, ancora quelli ed evidentemente solidi, in alcune fotografie d’epoca raccontano anni di gioia, comunanza ed esplosione creativa, nonostante alcune nubi che già si percepivano.
Perché l’esperienza della scuola, soprattutto nei primi anni di Weimar, era un’esperienza totale: non solo principi di progettazione tecnica, di architettura, di scienza dei materiali ma, insieme, scenografia, disegno di costumi, progettazione dei font e di tutta la grafica, organizzazione dell’annuale festival Bauhaus con tanto di gara di aquiloni. Era il posto giusto in cui essere, avendo un minimo di fantasia e aspirazione. Vicino alla scuola, all’inizio del bosco, quattro case – ovviamente in stile Bauhaus – dedicate agli alloggi degli insegnanti. In una di esse, la doppia ai civici sei e sette della via, abitarono a un certo punto porta a porta Klee e Kandinsky. Buongiorno Paul, tutto bene? Non me ne parlare, Vasilij, oggi ho quattro ore e la correzione dei compiti.
All’inizio degli anni Novanta, alla caduta della DDR, erano in condizioni disastrose, qualcuno allora potendo le comprò e oggi ci vive. Con qualche vincolo, immagino, ma non dev’essere malaccio, immagino osservando la donna che fuma da una delle finestre.
Tutta la città doveva essere in condizioni miserevoli sotto la DDR, immagino osservandola com’è ora. Si dev’essere presa una bella dose di bombe alleate, data l’industria e la vicinanza al fiumone, deve aver subito una ricostruzione al minimo con i classici spazi vuoti e condomini corvialoni infilati negli spazi, poi dopo il novantuno, come sempre, centri commerciali nei vuoti e tutto sommato un’aria disarticolata ancora oggi. In piazza, una buffa statua di Gorbaciov magrissimo con indosso un piumino di quelli di oggi, sottili e a quadratini. Va’ a sapere lo scultore. Bello il museo dedicato alla Bauhaus, non molto differente da quello di Weimar, sono le strutture però che meritano una visita. Ora, le riflessioni di fine giornata, domani spostamento ancora un po’ più a nord.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. Dopo dodici minuti di treno da Erfurt sono, di nuovo, a Weimar. Di nuovo perché ci fui nel maggio 2008 (undici), rimando ad allora per descrizioni più piane e complete. Di Weimar dico che è la Gardaland della cultura, nel senso che è tutto talmente fitto che basta scegliere le attrazioni che si preferiscono: la casa di Goethe? Basta attraversare la strada e c’è quella di Schiller. E Bach? Là dietro, due vie più in là c’è casa e la chiesa dove suonava. Ne dico un po’: Cranach, Lutero, Bach, Wieland, Herder, Wagner, Liszt, Strauss, Nietzsche, Mann, Goethe, Schiller, Heine, Puhskin, Klee, Gropius, Kandinsky, i principi di Turingia, forse Shakespeare, Schweitzer, sono solo alcuni, quelli che conosco io, di coloro che vissero o passarono da Weimar. E poi la Repubblica, la fondazione del Bauhaus, Buchenwald è la dietro il bosco di faggi, appunto. Il tutto in un paesotto che è più piccolo di Colgate al Piano. Se uno, me, ha proprio voglia di camminare, si fa tutto il parco del palazzo del principe e in fondo in fondo entra nella cappella dove è sepolta la dinastia e Goethe e Schiller lo sono fianco a fianco. Difficile di più.
C’è un libro ben riuscito che parla di questo, del decennio favoloso in cui le intelligenze tedesche si ritrovarono nello stesso quartierino e inventarono l'”io”: è Andrea Wulf, Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’Io, è un libro molto piacevole, come il suo precedente su von Humboldt. La concentrazione è pazzesca, nemmeno il Brasile del 1970 aveva così tanti fuoriclasse in formazione, impossibile dimenticare lo sketch dei Monty python in cui la nazionale tedesca dei filosofi stracciava quella greca antica. E qui non c’era Marx.
Nel 2008 il museo sulla Bauhaus era un museino ospitato temporaneamente nella sede della Repubblica, oggi è un museo e in apposita sede architettonicamente coerente per cui vado senz’altro. Forse non tutti sanno che la Bauhaus sia nata a Weimar e non altrove. Forse non tutti sanno che sia la Bauhaus, come ho appena appurato al telefono e davo scioccamente per scontato, ma a quello non sta a me mettere una toppa qui. Lamentavo nel 2008 come non avessero del merchandise appropriato al bookshop, visto che Bauhaus di fatto e già merchandise pronto, almeno parlando di tazze e oggettistica varia. Oggi hanno recepito, bravi, e il negozio è grande tanto quanto il museo. Bauhaus fu una scuola di arti applicate, in relazione alla nascente produzione industriale e allo sviluppo tecnologico dei materiali, e fu una fucina di innovazione clamorosa, sempre attenta all’aspetto umano. La necessità della produzione in serie, soprattutto in ambito abitativo per rispondere alla grande domanda di case dopo la prima guerra mondiale e in momento di iperinflazione, di fatto nascendo da propositi umanissimi e progressisti in realtà offrì una sponda effettiva al nascente nazionalsocialismo e alla massificazione del popolo. Gropius, che fu direttore e mente della Bauhaus, disegnò il maggiolone che poi, vedi tu, diventò l’auto dei nazisti, per fare un esempio piccolo e sciocco. Due nomi tra gli insegnanti alla Bauhaus? Intendo quelli che ti entrano in classe e ti spiegano le cose dalla cattedra, sì: Klee e Kandinsky. Capito che roba?
Tanta cultura servì poi a evitare derive reazionarie? Ovviamente no. Non appena fu eletta un’amministrazione più a destra a Weimar già nel 1925 ci mise pochissimo a tagliare i fondi alla Bauhaus e a farla sloggiare. Tutti i Goethe del mondo non bastarono, o probabilmente fu proprio per quello, e a pochi chilometri dalla città fu aperto il campo di concentramento di Buchenwald, maggio 2008 (dodici), ne scrissi pagine che considero decentemente ispirate. Nel 2008 là feci un giuramento, a fianco di quelli che lo fecero l’11 aprile 1945, bene ricordarmelo – perché non è che io stia facendo granché – e rinnovarlo ancor più di questi tempi in cui il settantanove per cento degli israeliani si dichiara ‘non turbato’ dalla situazione umanitaria a Gaza. Mica è solo Netanyahu, eddai.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. La mia tappa successiva del concatenamento di città medie tedesche della Turingia e Assia è Erfurt. La città è graziosa, con tutte le cose giuste al proprio posto, la via Regia che l’attraversa e il famoso ponte medievale.
Su un canaletto derivato dal fiume Gera per dotare il centro città di una via d’acqua, che a dirla onesta sarà profonda al massimo otto centimetri nelle zone delle rapide tumultuose, sorge il Krämerbrücke, il ponte dei bottegai. Bello, cinque arcate di pietra e case addossate ai lati che pare di essere in una via normale, quando nei pannelli lo storico dell’amministrazione locale lo promuove come ‘unico al mondo’ verrebbe da aggiungere Firenze e aggiungo io, che un paio di ponti con le botteghe li ho visti, il Pulteney bridge a Bath. In piazza, la pizzeria Pavarotti fronteggia spavalda il ristorante Fellini e io non potrei proprio essere più orgoglioso dei miei connazionali. Ho una storia su Erfurt, mi è tornata in mente, e, prima di raccontarla che è difficile, vorrei celebrare ancora una volta i supermercati tedeschi, in cui si può pigliare una ciotola, media o grande, riempirla delle verdure che si prediligono, condirle, pesarla, prendere posate e quanto serva gratuitamente, pagare e andare felici a consumarla ove si preferisca.
Ci fosse in Italia, ci pranzerei e cenerei ogni giorno.
Ecco la storia. La ditta J.A. Topf und Söhne di Erfurt, fondata a fine Ottocento e che produceva prodotti per il riscaldamento, colse una certa opportunità commerciale con l’avvento del nazionalsocialismo, anzi in particolare con una certa politica nazista di eliminazione delle persone. Perché non fare confluire le competenze dell’azienda nella costruzione di forni crematori e camere a gas? Un successone, commesse per i campi di Auschwitz, Birkenau, Mauthausen, Dachau, Gusen, Buchenwald e così via, maggiori e minori. D’altronde non solo la competenza era di alto livello ma anche la dedizione dell’azienda con cui si applicava nel trovare soluzioni tecniche ai problemi dovuti a un numero sempre crescente di persone da liquidare era davvero straordinaria. Trovarne di fornitori così. Innovativi sistemi di ventilazione dei forni e delle camere a gas, così che gli operatori, per carità, non corressero alcun rischio; la felice intuizione di accostare le camere ai forni così da utilizzare il calore di questi per innescare la sublimazione dei cristalli di gas alla giusta temperatura; qualora questo non fosse possibile, comode tabelle per sapere quante persone andassero stipate per metro quadro nelle camere a gas per scaldare a sufficienza i cristalli e innescare la reazione a gratis, che convenienza. Tanta e tale bravura fu premiata, la divisione aziendale che si occupava di forni divenne leader di mercato e l’azienda nel 1942 depositò l’innovativo progetto di “un forno di cremazione di massa e continua di corpi”. Così tante teste dedicate a così tante innovazioni. Capito come si fa a non vedere? Basta mettere le banconote sugli occhi. La prima difesa dei fratelli e figli Topf ad aprile 1945 fu sostenere che non sapessero a cosa sarebbero poi serviti i forni, poi, constatata l’insensatezza delle parole e delle tesi, a fine maggio, fu tirarsi un colpo in testa un Topf e fuggire l’altro. Erfurt rimase in Germania est e i sovietici, i cattivi, chiusero tutta la fabbrica e processarono fino all’ultimo dei dirigenti, a ovest, dove c’erano i buoni che per carità i lavoratori, fu permesso a un paio di Topf scappati di là di reimpiantare l’azienda, forni per pizza?, fallita poi nel 1996 per mancanza di liquidità. I nipoti chiedono ancora la restituzione di ville e soldi ma per fortuna qualche bravo giudice dice ancora di no e spiega loro il giusto senso delle cose.
Erfurt ha un’enorme cittadella fortificata che la domina e che deve aver ospitato guarnigioni e guarnigioni alla bisogna, raramente ne ho viste di così grandi. E sì, ha un ascensore per arrivarci, per chi non se la sentisse di farla a piedi, questo lo dico per chi vivesse in città in cui si discuta dell’argomento. Anche il centro è grazioso e come già dicevo ha tutto al posto giusto. Ma la cosa più bella del giorno è una giovane mamma che si toglie uno zaino gigantesco dalle spalle, peserà almeno venticinque chili, si toglie gli scarponi ed entra nell’acqua del canale per rinfrescare i piedi. Attorno, tipo anatroccoli, tre ragazzini ciascuno con il proprio zainetto colorato, con dentro chissà quali cose utili, probabilmente la dotazione minima cappello-panino-acqua, che le girano attorno e tentennano sul discorso piedi-nell’acqua. Se, come presumibile, lei si sta portando i tre giovani virgulti in vacanza a piedi in giro per la via Regia o quella barocca o comunque per queste zone, beh, ha tutta la mia sconfinata e sincera ammirazione. Donne coraggiose e ricche di iniziativa, quante ce ne servono. La sua presenza mi rimette anche un po’ a posto il magone per i Topf e quel genere di umanità lì. Grazie. Ora vado a pensarci come faccio ogni sera.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Proseguo il concatenamento di città tedesche dell’Assia e della Turingia e da Fulda vado a Gotha, saltando Eisenach. Forse un errore.
Gotha, anche nelle sue varianti di Gotham e Golgota, per Gugol e assessori alla cultura improvvisati, è proverbiale proprio perché a metà Settecento qui si compilò e si continuò a stampare l’almanacco della nobiltà europea ed era fondamentale essere menzionati. Essere nel Gotha, dunque, ovvero essere nell’empireo di qualcosa, nel gruppo ristretto, significa avercela fatta, in qualche maniera e se ovviamente uno ci tiene.
Io no, non desidero far parte di alcun gruppo ristretto, anzi preferisco annacquarmi nei gruppi e nelle categorie più ampie possibile, tant’è che per dire scrivo queste cosette in forma anonima da una vita. Quindi non sono qui per controllare l’almanacco ma per completare una visita di quattro anni fa a Coburgo: poiché il Casato è di Sassonia-Coburgo e Gotha, ovvero i discendenti dei Wettin che regnano tutt’ora su Belgio e Inghilterra, per via dell’Alberto di Vittoria, volevo vedere l’altra parte. Per chiarire, se io devo guardare alla nobiltà, direi che il mio punto di vista sia quello di un bolscevico davanti ai Romanov, ancora sono grato a Napoleone per aver spazzato via l’aristocrazia europea polverosa e resa ancor più demente da matrimoni tra consanguinei. Però avevano palazzi, raccolte d’arte, giardini e tenute, impossibile prescindere, vengo a vedere.
Gotha, come Coburgo, è un paesone sorto attorno al palazzo, anzi a un castello, il Castello Friedenstein, sorto nelle forme più aggraziate su una precedente fortezza, alla fine della guerra dei Trent’anni. Com’è giusto è su una collina che domina gli attorni, a sud un bel parco con lago che a un certo punto utilizzerò con soddisfazione, a nord il paese che, obbediente, circonda la casa del signore. In venti minuti ho percorso tutto il reticolo delle vie del centro e ho preso anche un caffè. Ma non sono qui per il paesello, sono qui per la raccolta d’arte di Ernesto II dei Duchi di Sassonia-Gotha, dalle antichità egizie e greco-romane all’arte giapponese. C’è una stanza piena di soli Cranach, ma qui tra Turingia e Sassonia non è infrequente, un Frans Hals bellissimo, buffi ritratti ottocenteschi di Voltaire e Rousseau. Non esattamente la ressa per entrare.
Non mi stupisce che nel 1979 siano entrati e bel belli si siano portati via cinque quadri notevoli, poi spariti del tutto e riapparsi in modo non chiaro quarant’anni dopo. Potrei portarne fuori uno io ora senza avere grossi problemi. Ora vado a riflettere al parco.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Lo so, sembra da stronzi dirlo, e forse lo è, ma quei tre paesi là mi hanno tenuto in tensione, per capire, per apprendere, per non sbagliare. Ora avrei bisogno di qualche giorno tranquillo e, visto l’atterraggio a Francoforte, ho finto di essere lavorativamente morto e, come quelle capre che si irrigidiscono e cascano al pericolo, provo a strappare ancora qualche giorno. Rispondo vagamente e in modo confuso a chi mi chiede quanto torni. Per vedere cose che non fatico a capire, per dormire, per camminare, leggere, scrivere, bere, non proprio in quest’ordine.
Desideravo questo concatenamento di città medio-piccole tedesche una vicino all’altra da molti anni, l’ho desiderato moltissimo nel 2020 durante la pandemia, lo sognavo di notte da prigioniero in casa – ecco la prova -, ora ci sono. Atterrato a Francoforte da Yerevan alle sette del mattino, vado a piedi a vedere la sede dell’università che, oltre a essere bellissima, racchiude una storia dentro di sé.
L’edificio fu progettato da Hans Poelzig in puro stile modernista d’epoca Weimar nel 1929-31 ed è bellissimo ed è strano come un’architettura progressista e umanista per quanto industriale nel giro di pochi anni sia diventata l’espressione dell’architettura reazionaria e oppressiva del nazionalsocialismo, l’aeroporto di Berlino-Tempelhof di Ernst Sagebiel riprende senz’altro questo progetto, l’avete notato tutti, no? Comunque, quella che oggi è l’università in realtà nasce come sede dell’I.G. Farben, un agglomeratone di industrie chimiche che negli anni Trenta riunì colossi della chimica come Bayer, BASF, Agfa, Sanofi, per dire quelle note ancora oggi, per resistere alla concorrenza europea e americana. ‘Farben’ significa vernici, tinture. Con l’avvento del nazionalsocialismo, il gigante non si fece sfuggire l’occasione e utilizzò più di tutti la manodopera gratuita degli schiavi deportati, costruendo spudoratamente una fabbrica a Monowitz, il blocco industriale di Auschwitz, lo stesso Primo Levi lo racconta. Ma non bastava, il colosso della chimica sviluppò prodotti per la crescente richiesta del governo nazista, prodotti per la guerra e prodotti per l’eliminazione delle persone, il famigerato zyklon B, il gas per i campi di sterminio. Chimici e scienziati al lavoro per migliorare l’efficacia del prodotto, questo è. Qualcuno oggi direbbe che è un prodotto, uno strumento, dipende poi da come lo si usa. Certo.
Francoforte fa schifino, lo sapevo già. Della città di Goethe resta niente, c’è un attorno di belle ville primo Novecento, un bel fiumone, poi il resto stride, tra il centro finanziario dell’UE e una quantità spropositata di persone che vive di scarti. Nella prima mezz’ora assisto a una retata con sei automezzi della polizia tedesca, un gentiluomo quasi mi vomita addosso sotto il simbolone dell’euro, le strade tra la stazione e il centro sono belle luride. Vero che è domenica presto e ancora, forse, non hanno pulito ma la cosa balza agli occhi. Io, vista l’università e il fiume sarei anche a posto, ricordo qui un magnifico doppio concerto Sharon Jones & the Dap-Kings e Maxïmo Park nel 2012 se non sbaglio, e questo mi basta. Iddio ti benedica e ti tenga compagnia, SJ. Inizio il concatenamento.
Vado a Fulda, un paesone a poco meno di un’ora a nord-est nonostante gli ormai ordinari ritardi di Deutsche Bahn. A pochi chilometri da qui correva la cortina di ferro e secondo gli strateghi della NATO il patto di Varsavia, qualora avesse deciso di invadere, l’avrebbe fatto qui. Per questo fino al 1994 nei pressi di Fulda stanziò un grosso contingente di soldati americani, in attesa dei Tartari. Io sono qui per la leggendaria abbazia, lo scriptorium più importante dell’alto medioevo e dell’impero carolingio, con ben seicento monaci copisti e miniaturisti e un patrimonio di ben più di duemila manoscritti, dall’ottavo secolo in poi. Poggio Bracciolini, che era uno bravo davvero, venne qui a pascolare tra i testi e vi ritrovò, per dire, il De rerum natura di Lucrezio che, se non fosse stato per i fuldani e per Poggio, ce lo scordavamo e buona notte. Arrivo carico di aspettative a Fulda e sbatto contro l’abbazia.
Mapporc, che è? Questo è barocco, dov’è l’alto medioevo? Dov’è Poggio? E i manoscritti? E i copisti? Nisba, ciao, puff. Il principino d’Assia, un Augusto qualsiasi, stufo dei vetera e dei vetusta, disgraziato, pensò bene di tirar giù tutto e di rifare in forme moderne di suo gusto. Disgraziato. Mapporc. E la statua e il bollone lapideo lo celebrano pure. Certo, ora ci passa la strada del barocco, che bello, ma che coioni il barocco, facculo il barocco, come la controriforma, ma che cazzo. E intanto, ciao Fulda. Perché a quello gli piacevano le cose contemporanee, ma dico io. Dentro, peggio che andar di notte.
Una chiesotta per le cene in bianco. Disgraziato. Sulla scorta degli eccezionali manoscritti armeni visto qualche giorno fa, sognavo già collezioni clamorose di testi carolingi e la riscoperta di qualche testo perduto di Aristotele. Nel museino, quattro capitelli e tre statue mozziche, tocca fare galoppare la fantasia, l’abbazia ricordava la vecchia basilica costantiniana di san Pietro a Roma, Sant’Ambrogio di Milano, per capirci, e noi ci tocca questa. Grazie, Augusto. Bravo davvero.
Qualcosa però c’è. Per fortuna, a fianco della chiesa in bianco c’è una chiesina dedicata a San Michele, del nono secolo, sopravvissuta alla rigenerazione barocca.
La rotonda ha sotto una criptina retta da una sola colonna tozza che ha del commovente e, oltre a dare un’idea di cosa potesse essere l’abbazia nel complesso, aumenta il rammarico per la perdita. E ora, come si conviene, è tempo di andare a riflettere sui fatti della giornata al biergarten.
La zona è complicata, si è capito. E non da oggi. Ma lo è anche per un turista? Anticipazione: no, non direi. Esistono voli economici per la Georgia, Tbilisi e Kutaisi, la seconda ottima base di partenza per il Grande Caucaso, ma se si desideri vedere anche l’Azerbaijan allora, già lo dicevo, tocca entrare da Baku, più costoso. Da quanto si dice, le frontiere azerbaigiane riapriranno non appena la situazione in Ucraina sarà risolta, speriamo non manchi molto tempo. La linea ferroviaria principale è la Baku-Batumi, da un mare all’altro, mentre a Yerevan si arriva col pullman (o si parte, arrivando qui col volo). Le linee ferroviarie minori, funzionanti sotto l’URSS, ora sono in sostanza dismesse, alcune in recupero. In ogni centro, fino ai medio-piccoli, si trovano persone con un pullmino che organizzano giri nei dintorni per poco. Taxi ovunque, anche informali, usando le app il prezzo è già fissato e non c’è da discutere in lingue strane. Specie fuori dalle capitali, tocca un po’ arrangiarsi con i posti dove dormire e in alcuni casi fare più di una pieghina. Il mangiare è buono ovunque, frutta e verdura eccellenti, a voler trovare un difetto è un’alimentazione un poco ripetitiva. Ma io lo sono, quindi andato a nozze, a parte il coriandolo, noioso. A chiedere un po’ in giro, molte famiglie ospitano a pranzo e ho sempre mangiato molto e bene. Le carte funzionano nei grandi centri, al solito, fuori meno, banche e ATM ovunque. Le linee telefoniche sorprendenti, prendono ovunque anche nel nulla apparente, per cui una esim è una buona soluzione. Contesto? Tutto tranquillo, mai nessun pericolo reale o percepito, anche i locali confermano, l’unica indicazione in tal senso è stata a Baku, in cui mi hanno raccomandato di “non stare al buio”. Il che a Baku è pressoché impossibile, persino la terra brucia da sola. I prezzi come sempre in questi paesi dipendono da ciò che si compra: un espresso costa giustamente un botto, un cristo di legno a grandezza naturale pochissimo, nei paesi cristiani.
La Georgia è più facile, è la più varia dal punto di vista naturalistico, la più verde e rigogliosa, quella più vicina a noi per tensione, i georgiani si considerano europei e il paese ha chiesto tempo fa di entrare nell’UE. Sia per ovvie e comprensibili ragioni di sopravvivenza geopolitica che per vicinanza culturale. Non c’è da stare granché tranquilli con quei confini lì, i georgiani con cui ho parlato, comunque, hanno l’atteggiamento di chi nella storia i russi li ha già combattuti molte altre volte, lo rifaremo, dicono. E l’ultima è nel 2008, mica secoli fa, hanno ben di che dirlo. Eh, il culo di chi come noi è nato da un’altra parte e non ne ha idea. Nel libro sulla storia del Caucaso che sto leggendo ora c’è una considerazione che dice molto del temperamento dei georgiani, la riporto: “Se Stalin fosse stato piú georgiano – leale nei confronti degli amici e della famiglia; giusto e retto all’eccesso; memore dei debiti contratti; sollecito degli interessi del natio Caucaso -, il XX secolo sarebbe potuto essere un po’ meno tragico”. Si può fare anche solo quella ma si perde molto della visione complessiva della regione.
È stupefacente quanto le persone in Europa confondano Caucaso con Balcani e ne facciano tutt’uno. E quanto ne abbiano un’idea men che approssimativa. E sì che Cecenia, Georgia, Ossezia sono nelle cronache recenti, e sì che un venditore di tappeti armeno fino a qualche anno fa c’era in ogni città o quasi, e sì che magari una messa o un matrimonio a San Gregorio degli Armeni capita, idem un giro per presepi a Napoli nella nota via, eccetera. La stessa finale di campionato di pallacanestro di quest’anno è stata vinta da un giocatore georgiano quasi da solo. E sì che ‘La masseria delle allodole’ gode di successo continuato. Comunque, Kusturica c’entra poco o niente, se non per un periodo comune di dominazione ideologica.
È un viaggio che consiglio caldamente, a questo punto: se dal punto di vista naturalistico il Grande Caucaso mantiene ogni aspettativa, anche molto alta, anche il resto dei tre paesi ha varietà e bellezza, spaziando dal deserto del niente alle valli boscose e fiumose; anche per cultura è una zona complessivamente ricchissima che nulla ha di meno di luoghi ben più celebrati e non manca certo di complessità. Date le relative distanze, non eccessive, è un viaggio anche meno complicato di altri, logisticamente. Dal punto di vista enogastronomico anche, per chi scelga in base a quello, basti dire che pare che il vino sia nato là. Per chi come me si gode certamente la natura ma ha bisogno dell’elemento umano è un ottimo posto dove andare. Più dò una dimensione complessiva al mio viaggio e più esso risulta uno dei più importanti, densi e stimolanti che io abbia fatto, raramente ho appreso così tanto in così poco tempo e spazio.
Non è mica stato facile, per essere chiaro. È il posto più complicato del mondo, non esagero, nemmeno l’Asia centrale è così, là almeno gli spazi sono diluiti e tutto è meno compresso. Sono stato travolto da storia, conflitti, convivenze, opportunità, opportunismi, visioni opposte, bugie e omissioni, per meglio spiegare riporto un pezzo dell’introduzione al libro da mille pagine che sto leggendo ora – impossibile leggerlo a secco, va letto una volta tornati -, Charles King, Il miraggio della libertà. Storia del Caucaso, Torino, Einaudi, 2008:
“Questo libro cerca di dare un senso a una parte di mondo apparsa negli ultimi vent’anni: la quintessenza dell’insensatezza. Un mondo nel quale governi non hanno avuto remore nel bombardare i propri cittadini; terroristi hanno sequestrato scuole e ospedali; atti di ospitalità disinteressata e crudeltà orribile sembrano essere le due facce della stessa medaglia culturale. Questa è una storia del Caucaso moderno come entità geografica dall’inizio del coinvolgimento russo sino ai nostri giorni. Ma è anche una storia del Caucaso quale coacervo di idee contrastanti: di libertà e di sregolatezza, di atti e fatti sbalorditivi e terrificanti”.
Ecco. Accanto al terrificante c’è lo sbalorditivo, è importante, è l’insieme che colpisce, l’alto e il basso, il giusto e l’ingiusto. Nel mio progetto di viaggio nelle zone più stratificate del mondo, in cui popolazioni e storia abbiano mescolato ripetutamente tutte le carte, il Caucaso guadagna subito il podio, per non dire di più. Uzbekistan e Tajikistan al confronto, retrospettivamente, paiono vicende lineari, spiegabili in prima.
Come si torna, come torno io da questi viaggi, da quelle che il mio amico E. chiama “le tue per nulla riposanti vacanze”? Sono onesto, ha ragione, ho bisogno di una vacanza, ora. Di dormire, molto. Di qualche stimolo tensivo in meno, religioso, politico, sociale. Torno più consapevole, certo, ma anche più rassegnato al fatto che alcune cose non hanno soluzione e che le vite umane non bastano, una cosa raddrizzata durerà un po’, poi cambierà. Che nulla persiste, il che è molto difficile da capire per noi europei fortunati: non durano le democrazie, non durano i confini, non dura nemmeno il clima. Putin lo sa, in Ucraina, un pezzo ora e uno tra trent’anni, lui da russo ha quella dimensione lì, noi no, per noi è già durata troppo. E vorremmo chiuderla definitivamente, illusi. È un po’ il contraltare del viaggio, della ricerca della comprensione dell’umano e della storia, la disillusione. Almeno collettivamente, non individualmente. Si finisce in una dimensione temporale talmente lunga che il contingente diventerebbe trascurabile, non ci fosse quell’impiccio della breve durata delle nostre vite. Vabbè, l’ho fatta come sempre lunga, torno alle cose quotidiane, l’aereo è arrivato e io ora comincio la mia vacanza, se riesco. Grazie a chi ha seguito.
In un periodo di rapporti tesi tra URSS e Turchia – a proposito, non avevo mai compreso quanto la vicinanza tra i due imperi avesse creato situazioni di conflitto, si contano almeno dodici guerre russo-turche tra 1568 e 1922, alcune durate quattordici anni -, negli anni Sessanta da Mosca arrivò il via libera alla costruzione di un mausoleo per ricordare il genocidio degli armeni del 1915 per mano appunto turca ed eccomi qui: un bel mappozzone con rampa di lancio missilistica e piramide doppia incastonata, con fiamma eterna e muro dei giusti. E a me piacciono pure questi cosi.
Tra i giusti, Werfel per i suoi giorni del Mussa Dagh, serve però dire che come sempre le cose non stanno tutte da una parte sola: in Azerbaijan ricordano il genocidio degli azeri per mano armena, di sicuro a Baku pochi anni prima di sangue ne scorse molto, di sicuro gli armeni nel mondo – in Italia in particolare – godono di buona stampa, Arslan per esempio. Non voglio togliere nulla, per carità, segnalo solo come vista da qui sia enormemente più complicata, non si può esser mai certi di quel che si sente o si legge, senza conoscere gli interessi dell’interlocutore. E di sicuro ci furono di mezzo anche i greci e gli assiri cristiani, decimati anche loro. Gli stessi ottomani persero quattrocentomila uomini nella manovra di accerchiamento anglo-russa tra il 1915 e il 1917, allo scopo di eliminare la loro presenza nel Grande Oriente. Per dire che qua è un vero casino, detta alla storica. Dietro il mausoleo, una distilleria di quel càgnac di cui vanno molto fieri e che devono chiamare brandy per ragioni di marchi depositati.
Uscendo da Yerevan, strepitoso il monastero di Geghard o Gaghard, va’ a sapere, al termine di un canyon e le cui tre chiese sono scavate nella roccia, l’effetto Indiana Jones è assicurato. Butto qui ma non è che renda granché.
A seguire, a Garni, il motivo per cui sono venuto in Caucaso, volevo vederlo: il tempio greco più a oriente in assoluto. Qui lo chiamano ‘tempio pagano’, mai greco, e la cosa mi fa sorridere.
Mi son proprio detto: ma io questo devo vederlo! Tra l’altro, è in una posizione clamorosa, al culmine di tre canyons profondi e incurvati, geologicamente stupefacenti per le loro colonne di pietra esagonale come ne ho viste solo nel nord dell’Irlanda. Però poi è talmente pieno di persone, gruppi, droni, baracchini e aste per i selfie che bon, visto, vado, e nella classifica finale del viaggio non sarà senz’altro nei dieci. Scappando, J. insiste nel portarmi a vedere il luogo più sacro del cristianesimo armeno, la cattedrale e il complesso di Etchmiadzin, la santa Sede armena. La cattedrale, la più antica del paese, del 301, cinque minuti prima del concilio di Nicea, è notevole, per carità, ma il complesso attorno dove vive il catholicos armeno, il papa patriarca, è terribile, modernismo religioso su cemento sovietico, mi ricorda da vicino l’aula Paolo VI in Vaticano per bruttezza.
Nonostante ne rimanga pochissimo, è invece emozionante e suggestivo ciò che resta della cattedrale di Zvartnots – pare il nome di un nemico di Superman -, un maestoso edificio trentaduogonale a tre piani del settimo secolo che doveva essere una di quelle meraviglie del mondo antico che venivano tramandate di viaggiatore in viaggiatore. Secondo la storia, crollò per l’ennesimo terremoto, stavolta nel decimo secolo, secondo gli armeni che mi raccontano la vicenda fu sì il terremoto ma furono prima i perfidi arabi che ne minarono la struttura erodendone i pilastri principali.
Ora, per carità, tutto può essere e chi sono io per dubitare di una frase qualsiasi di chiunque? Però una certa sindrome da accerchiamento un po’ la colgo, tutto attorno qua lavorano e hanno lavorato contro il popolo armeno, russi, ottomani, persiani, arabi generici e così via. Non che non ne abbiano ben donde, eh. Però questo brulicare di cattivi intenti dopo un po’ suona un po’ grottesco. Comunque, Zvartnots doveva essere spettacolare, ancora oggi la fotografia dell’Ararat innevato tra le colonne della cattedrale è una delle più gettonate.
Ed è qui che il mio viaggio ha termine, due settimane nel Caucaso, da Baku a Yerevan passando per la Georgia e un sacco di posti minori e maggiori, dalle altezze rigogliose del Grande Caucaso alle bassezze, in senso altimetrico, del deserto azerbaigiano che brucia da solo o sputa fango, da un mare, Caspio, all’altro, Nero, da un confine, russo, a due confini, turco e iraniano, da musulmani a cristiani ortodossi. E non ho mai parlato della Grande e Piccola Kabardia, dei Kisti, degli Ingusci, dei Karabulak, dei Ceceni, fossero essi pacifici o di montagna, dei tre tipi di Cumucchi, dei nomadi Nogaj che erano dappertutto, degli intellettuali musulmani detti Tatari e ciao, non è più finita. Magari una conclusione potrebbe essere utile, chissà, forse no, vediamo che succede in aereo.
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