minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: tre, alberoni, lagoni, fiumoni, scavallo, la ruta siete

Svegliandomi, mi ritrovo sulle alpi, diciamo Pinzolo per vegetazione, clima e montagne ma Andalusia per negozi e case. È la precordillera e la cosa stupefacente è che sono a novanta metri sul livello del mare. Tutta la cordillera è più bassa di quanto si pensi, duemila, duemilaedue proprio a far tanto, i tremila dei picchi e l’Aconcagua che spicca per eccesso ma, in generale, è il clima che è proprio diverso a livello del mare. Che poi sono due oceani non banali a una buona latitudine sud, tutto si spiega. La cordillera stessa fa da spartiacque: pioggia e tempeste sul lato cileno, un po’ più arida lato argentino. Per modo di dire, ci sono foreste meravigliose, fittissime, ed enormi laghi, per dare un ordine diciamo una decina di volte il lago di Garda per quelli medi.

Passo non lontano da San Carlos de Bariloche, vero paesello bavarese luogo prediletto di villeggiatura per ex gerarchi nazisti, Priebke lo pigliarono qui. Salendo vedo piante mai viste, la primordiale araucaria, cipressi a cono di dimensioni colossali, il locale cipresso fitzroy, capace di arrivare a sessanta metri e tremila anni. Ed erbe di ogni tipo, certi foglioni ombrelloni buoni per l’estate, ricordarne un nome. Pangue.

A Trevelin iniziava la ferrovia che andava a Trelew, seguendo tutta la valle del Chubut, costruita dagli immigrati gallesi. Molte scritte qui sono in gallese, appendono dragoni dappertutto. È un paesone tutto rettangolare con una piazza al centro, come quasi tutti qui, la statua di Sanmartin, liberatore dell’Argentina, le vie hanno tutte gli stessi nomi, sempre le stesse date ovunque. Vado a mangiare qualcosa ed è invariabilmente il miglior filetto mai visto da noi, foss’anche una bettola senza speranze. La carne è un’ossessione e una monocoltura, direi. Su ogni cartello stradale, e deve essere una risoluzione comunale ricorrente, in basso a destra c’è la rivendicazione del possesso delle Malvinas.

Così le chiamiamo noi sinceri democratici, non Falkland. Le analogie della storia di questi territori con la storia americana del nord sono rilevanti: anche qui popolazioni indie represse e sterminate dagli europei alla ricerca di risorse e terre, la toponomastica lo ricorda ovunque, quasi tutta mapuche. Chiunque riportasse un orecchio di un mapuche, uomini della terra, veniva pagato. Gli stessi villaggi richiamano quelli dell’Alaska o del Canada, storia di inizio Novecento.

Colori. Aria. Acqua. Boschi. E nessuno, nessuno nessuno. È possibile viaggiare ore senza vedere una casa, io vado quasi in ansia da mancanza di capannone. In realtà, sapendolo, qualcosa c’è, ed è dove ci sono filari di cipressi, per spezzare il vento. Ma, in generale, non si vedono e sono pochissime, le case. Passando per Los Cipreses, appunto, ridente micropaesello, salgo al Paso Futaleufú perché ho un piano: scavallare in Cile. E così è, arrivo alla frontiera argentina, una serena baitella con cancello automatico – cioè un frontaliere baffuto e gioviale – in cui mi fanno un controllo più di esibizione che di sostanza e dopo qualche chilometro arrivo alla frontiera cilena, più dura. È una frontiera fitozoocosica, nel senso che non possono passare frutte o verdure o cose vive a parte le persone. Quindi i bagagli vengono ispezionati uno a uno, dipende dallo zelo. Due anziani in auto davanti a me nascondevano due mele che sono state prontamente sequestrate e poste su una bilancia in evidenza a tutti. Chiaro che poi sono stati fatti deviare verso la fucilazione anche se sembravano andarsene tranquilli. La persona dopo di me ha un enorme sacchetto di frutta comprata da poco, ottima idea. Crocifissione, suppongo.

Io c’ho il profugo cileno a casa mia è arrivato nel ‘73 / e da allora lui non è più andato via / Antonietta fammi star da te. / Compagno un caz. E poco dopo comincia l’altra strada, la Carretera austral, la ruta 7 cilena, che va giù fino in fondo in fondo. Affascinante, molto, nonostante sia stata voluta dal generalisimo nonché farabutto criminale Pinochet.

Le parti non asfaltate sono perché nel frattempo era morto. Sempre troppo tardi. Molti paeselli, villa Amengual per dirne uno, esistono proprio per la strada: anno di fondazione? 1982. Una chiesina di legno con campanile incorporato, un supermercatino, un caffè se si è fortunati, un giudice di pace che svolge tutte le funzioni. Solitamente dal caffè. L’immancabile bandiera cilena davanti a ogni casa e, ancor più immancabile, una macchinona che non corrisponde al livello della casa, tipica cileno. In Argentina le due cose corrispondono, guidano mezzi rottami.

A Puyuhuapi un caffè su un fiordo dell’oceano Pacifico, ormai sono di là, è proprio cambiato il versante. Ci sono persino i delfini che fanno capolino qua e là, notevoli le corriere adattate a casa semovente con argano dietro per le moto. Il tempo è molto più variabile su questo lato, bisogna aver fortuna.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: due, verso la cordillera, altari rocciosi, ahi l’acqua

Il natale più buffo tra molti, fa molto caldo ma non per questo è meno sentito, è pur sempre un paese cattolicone. Con gli evangelici in grande avanzata. Beh, buon natale a chi se la sente.

In realtà la partenza dall’oceano è all’insegna del nebbione, il che collima un pelo di più con il senso del natale europeo e quell’idea del babbo freddo.

Il taglio verso ovest è deciso, seguo il corso del Chubut verso la precordigliera e la cordigliera in una pianura senza orizzonte che non riesco a non guardar passare dal finestrino. Cambio duecento euro per le spesucce, la carta spesso ma non sempre, e mi danno in cambio un sacchetto con su la esse dei dolares.

Il cambio è uno a milletre, riempio le tasche, mie e dello zaino, di mazzette con cui poi comprerò un paio di caffè e una salsiccia. Perché un po’ con l’inflazione prima e i tagli orizzontali indiscriminati del governo poi i prezzi sono schizzati in alto e tutto è piuttosto caro: un caffè duemilaedue, una cena al ristorante tra i trenta e i cinquanta euro, sessantamila pesos. Il che vuol dire, anche senza essere economisti, che la maggior parte della popolazione argentina farà fatica a mettere insieme il mese. Vedremo quanto dura, il governo attuale di fatto è il governo di Macrì, le persone le stesse, espressione delle grandi famiglie coinvolte nello sfruttamento del territorio e delle risorse.

Dopo Las Palmas l’ambiente cambia e prende un che di Arizona, di monument valley, torri e pareti di roccia rossa vulcanica depositata su strati di concrezioni marine inframezzati da uno strato riferibile al momento tropicale dell’Argentina. Sono Los Altares, nome appropriato. Un fiumiciattolo fangoso al centro ha scavato tutto quanto e oggi regala alla zona un piccolo corridoio verde. L’asfalto è rovente, impossibile toccarlo, ci sono trentasei gradi ma con il vento si sentono un po’ meno.

E poi succede: un toc improvviso e l’acqua del pullmino resta tutta sull’asfalto dietro, asciugandosi d’istante. E noi con essa, al ciglio della strada. Nel niente niente. Quel che prima era favoloso a vedersi adesso comincia ad avere un aspetto un filo ostile. In prospettiva. Un paio di tentativi inutili di stringere le manichette, riempiendo il circuito di nuovo con quasi tutta l’acqua. Altra scelta discutibile in prospettiva. Il culo è che un paese – intendesi, in patagonico significa una stazione di servizio, chissà se aperta – è solo una quindicina di chilometri più avanti. Nel caso. E i telefoni non prendono, ovvio. Frequenza di passaggio di altre auto: incalcolabile. È pure natale. Inutile fare affidamento, i pezzi di ricambio stanno forse a Buenos Aires, il carro attrezzi magari anche, tutto sta sempre a Buenos Aires. Infatti qui si dice che dio sta a Buenos Aires. Raccatto i miei stracci e dopo un paio d’ore mi metto in cammino sulla ruta 25, già immaginando la vignetta con lo scheletro nel deserto, il cappello e la borraccia, e l’avvoltoio – qui il condor – che gira in tondo in alto. Lascio le mie collezioni di cose illegali a chi legge queste righe. Dopo quasi tre ore e nessuna macchina incrociata, arrivo a Paso de Indios, ridente località costituita da una stazione di servizio e un nucleo di qualche decina di case. Oddio, una macchina è passata, un pickup Chevrolet degli anni Cinquanta caricato di tre belle facce indie risultato – mi si perdoni – di decenni di incesti e che promettono solo un tranquillo weekend di vero terrore. Non faccio cenni. Trascorro a Paso de Indios circa otto ore, alla stazione consumo quasi tutto il magazzino e faccio l’incasso della settimana, all’unico locale del paese rimedio anche una bistecca verso sera e visito le strutture sociali della comunità. Considero l’ipotesi di comprare casa qui, ci sono numerose opportunità immobiliari da cogliere.

Circa alle due di notte arriva un altro pullmino che in qualche modo mi porta alla mia destinazione, Esquel. Niente avvoltoi, stavolta, la nera signora dev’essere ancora a Samarcanda.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: uno, oceano, bestie, fuorilegge, megabestie, quanti ettari


Chissà com’è fatta l’Argentina. Oppure, perchè non andare in Argentina? E allora, per vedere com’è fatta l’Argentina… Prendo un volo interno per Puerto Madryn, d’estate si va solo a sud, e sono due ore solo per arrivare a un terzo del paese. Fare pure confronto Milano-Palermo sola andata. L’aeroporto è una stanza nel mezzo della pianura ma quella pianura vuota e dritta, tirata con la riga e senza orizzonte, non come la nostra di capannoni. Com’è tutto uguale in Argentina. La città è sul golfo della península Valdés e lo stabilimento per la produzione dell’alluminio dà lavoro a una parte importante della popolazione. Ma non si pensi, il golfo è frequentato dalle balene australi in stagione, la concentrazione anche industriale non è un concetto noto nello spazio argentino. Da qui, la stessa latitudine di Pavia ma sotto, comincia la Patagonia. Fino alla latitudine di Berlino, sempre dalla parte opposta. In Patagonia, Butch, in Patagonia. Liberi.

Quella Croce del Sud nel cielo terso, la capovolta ambiguità d’Orione e l’orizzonte sembra perverso. A un certo punto dalla pianura appare un collo lunghissimo seguito da un vagone del treno, è un Patagotitan mayorum, un megabestione lungo quaranta metri e alto venticinque trovato a Trelew, la comparazione è femore-uomo. Per fortuna non abbiamo mai convissuto, vederlo arrivare senza sapere se fosse erbivoro o meno sarebbe stato paurevole, sempre a non esser schiacciati. In città c’è un formidabile museo paleontologico, la Patagonia fu per milioni di anni casa per certi dinosauri affetti da gigantismo, titani appunto. Per me un caffè all’hotel Touring Club di Trelew, ha ancora l’aria di quando ci passò a cavallo Butch Cassidy, qui per professione e per scappare dalla Pinkerton, andato poi chissà forse a morire in Bolivia. In Patagonia, Butch, in Patagonia. Si ricorda ancora il massacro di Trelew, di circa venti peronisti venduti dai compagni all’esercito del dittatore. Da qui si va a punta Tombo per vedere i pinguini. Una colossale colonia di oltre due milioni di individui, nanetti dondolanti lungo la costa tanto goffi sulla terra quanto agili in acqua. Sono della stessa taglia della colonia urbana che vidi a Città del Capo, anche l’odore selvatico è lo stesso. È pieno di guanacos, specie di lama marroncini e sputatori, lepri, pernici e chissà quanto altro non colgo. Il rapporto costante con gli animali è un pezzo definitivamente perduto per noi europei.

Incontro Humberto, Beto, gaucho figlio di gaucho della provincia di Rovigo, a fare le guide in Patagonia. Andremo insieme per la ruta 25, tagliando il paese in orizzontale dalla península Valdés a Esquel, ai piedi della cordigliera. E da lì, poi giù per la Carretera austral. Millei salterà entro l’estate, mi dice Humberto, già si sente la puzza. Perderà le elezioni di medio termine, dice, e poi cadrà e così altri otto anni dei peronisti, senza che abbiano coraggio però di fare riforme. Ne dice il peggio, ha un pullmino nuovo di zecca che non può immatricolare perché non c’è più il ministero. Ne prendiamo uno con mezzo milione di chilometri, appropriato, sempre che sia al primo giro. Non gaucho, mi dice, che è l’appellativo brasiliano, ma paisano, quello è.

Che poi, possedere diecimila ettari di terra vuol dire avere una fattoria piccoletta e nemmeno essere ricchi, gli appezzamenti sono di ben altre dimensioni. Come quel ranch in Australia che è grande come mezza Lombardia. Fa impressione perché quasi tutta la terra è recintata, seppur blandamente per le pecore merinos è comunque per gran parte privata. Ovviamente, savasansdir, fino a qualche decennio fa te la tiravano dietro. Ogni appezzamento è diviso in quadranti e gli ovini si fanno ruotare perché, altrimenti, desertificano, mangiandosi tutti quei deliziosi cespuglietti spinosi che punteggiano la pianura.

Un helado pompelmo rosado e dulce de leche tentación, seguendo il consiglio di Nelson, e via verso ovest, sulla ruta 25. Duecento chilometri da Trelew a las Palmas tutti uguali, per seguire il fiume Chubut verso la cordigliera. Ma questo poi. In Patagonia, Butch.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: zero, che ideone che ho, introduzioni, fiumi che sembran mari, Plata senza plomo

Alla fine è accaduto: la connessione internet sugli aerei. Il gentile annuncio porta invece sciagura, i ping, i bip, le notifiche ma soprattutto i video imbecilli e, ancor peggio, i vocali nell’ultima oasi priva di telefoni. La chiesa, forse, la sauna ma non so.

Sembrerebbe una bazzeccola ma se il viaggio è da quattordici ore in stretta compagnia di una certa quantità di persone assume una sua rilevanza.

Perché sono su questo aereo? Perché ho avuto una serie di idee di seguito che non esiterei a definire geniali. Geniali per me, non in assoluto, sono ancora qui che me ne compiaccio. Prima idea: andare via per natale. Ma via via, niente cene, niente pacchi, niente capitone, niente multe, niente cestini. Seconda idea: allungare la cosa anche a capodanno, insomma non contate su di me. Niente giorni tra natale e fine anno che comunque si lavora, niente notti insonni, niente essere a disposizione. Adios. Astaluego. Lo so, una persona normale ci arriva facilmente ma io no, solo ora. Ecco perché geniali. Terza idea: andare nel posto più lontano e capovolto che mi è venuto in mente. Bravo me, così sia. L’avevo pensata anche ben più sporca ma la realtà mi ha costretto, diciamo, a non estendere oltre la mia assenza. Uh, quanto la sto facendo lunga: sono su un aereo per Buenos Aires, ah, l’Argentina che tensione. Primo natale al caldo, sembra il titolo di un cinepanettone e forse un po’ lo è pure. Dai due gradi padani ai trenta di questi miei primi minuti argentini, pare strano. Se Millei, dunque, staziona da noi limonando con la nostra presidente del consiglio e gli si dona pure la cittadinanza, beh allora io vengo qua mentre lui non c’è, mentre la motosega è spenta, voglio vedere come stanno le cose in uno dei paesi politicamente ed economicamente più disgraziati di sempre, non da oggi. Ma voglio dire: Gardel, Piazzolla, Borges, Bioy Casares, Ocampo, Wilcock, Guevara, Quino e chissà quanti ne dimentico, tutti formidabili. E il culto invece è rivolto alla triade Maradona-Messi-Bergoglio, nemmeno in quest’ordine. La combinazione indigeni più europei vari e poi una robusta iniezione di nazisti non è che sia venuta benissimo, la ricetta poteva essere ampiamente migliorata, magari con ingredienti differenti.

Ma chi sono io per dirlo? Chi sono io per dire qualsiasi cosa, voglio dire? Mangio le mie empanadas a Caminito, tra le case colorate, e penso al porto, agli immigrati genovesi, al Boca, a San Telmo, al treno che non passa più e al fatto che sono stato proprio bravo a mettere un freno alla deriva dei mesi scorsi e un argine preventivo ai prossimi venendo qui. Dovevo capovolgere proprio il tavolo. Con me sopra, o sotto, visto lo stato di partenza. Tant’è che delle quattordici ore del volo ne ho dormite tredici e che, fortuna temporanea, la connessione dell’aereo non funzionava per davvero. Massimo otto persone collegate, è pur sempre un residuo di Alitalia, e dai. E così ho lungamente parlato con Oli, giovane nederlandico cresciuto in Argentina di ritorno per le feste che mi spiega gentilmente dove andare a fare surf e dove a sciare, perché il paese dei cinquemila chilometri di latitudini ha davvero tutto: dalle cascate tempestose di Iguazu alle terre estreme del fuoco e in mezzo tutte le cose medie.

Dopo la seconda empanada apprendo l’esistenza del lunfardo, un argot che chi sa lo spagnolo fa fatica a capire e chi sa l’italiano meno, laborar e birra, per dire due parole, e così i testi dei tanghi son più chiari. Chissà se poi sarà vero che venga da lombardo, fantasie. E mi vien da ridere non poco a leggere di El juego del calamar che sta su Nefflics come lo Squid game coreano. Le strade sono costeggiate da enormi manifesti pubblicitari e da enormi murales, pure molto ben fatti, di Messi con la coppa del mondo. Una fissazione. Molti di loro, dei manifesti, sono di compagnie assicurative private che offrono cure sanitarie premurose e complete, nessuno stupore purtroppo, non esiste manco più il ministero. Chissà quanto ci vorrà perché un Luigi Mangione si alzi dal letto anche qui con un’idea per la testa. A plaza de Mayo – si dice Màgio, sensatamente – qualcuno protesta, è il luogo giusto, sto lì e immagino le madri. Ma questo è il minidiario zero, quello introduttivo, in cui ancora non succede nulla e pare proprio strano parlare di Buenos Aires qui ma è così, è ancora avvio. Vediamo, dunque, che c’è qui, in questo posto così lontano e capovolto che per arrivarci bisogna volare su una bella fetta d’Africa, su un oceano davvero grande, su tutto il Brasile e su tutto l’Uruguay. Vediamo che succede.


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ottime idee del governo italiano parte 24.603

Dare, oggi, la cittadinanza italiana a Javier Milei, presidente argentino dotato di motosega populista e dotato di nonni calabresi.

Lo sciagurato principio è quello dello “ius sanguinis”, ovvero il principio che regola il diritto alla cittadinanza in Italia a differenza dello “ius soli”, temperato o meno, o ancor meno dello “ius culturae”: cioè quel principio per cui le questure in questo momento esplodono di richieste di gente sparsa nel mondo con qualche bisnonno italiano di avere la cittadinanza, manco serve siano mai stati qui o sappiano indicare su una carta geografica il paese desiderato; e parimenti chi è nato qui ma da genitori stranieri si attacca, anche se lavora in un ospedale italiano da anni con un curriculum d’eccellenza.
Un dato interessante: il numero degli studenti stranieri che però sono nati in Italia. Nel quinquennio tra l’anno scolastico 2018-2019 e il 2022-2023 il numero degli studenti con cittadinanza non italiana nati in Italia è passato da oltre 553mila a quasi 599mila. Il 65,4 per cento degli studenti stranieri quindi è nato in Italia e non ha la cittadinanza.
Molto bene, invece che contrastare la fuga dei cervelli validi magari accogliendo quelli in entrata, importiamo pagliacci deficienti di destra e nazionalisti. Bene anche qui, andiamo avanti così.

il cinquantacinquesimo dodici dicembre

Il primo senza Licia Pinelli. Chiare le parole di Mattarella, per chi ha voglia di capire: «Fu anzitutto l’unità in difesa dei valori costituzionali a sconfiggere gli eversori e a consentire la ripresa del cammino di crescita civile e sociale. Milano fu baluardo e tutto il Paese seppe unirsi», «Seguirono tentativi di depistaggio e di offuscamento della realtà. L’impronta neofascista della strage del ’69 è emersa con evidenza nel percorso giudiziario, anche se deviazioni e colpevoli ritardi hanno impedito che i responsabili venissero chiamati a rispondere dei loro misfatti», «Verità e democrazia hanno un legame etico inscindibile». Ecco, ovviamente il dibattito oggi sarà sull’aggettivo incriminato, come sempre, quel «neofascista» che la destra di governo si rifiuterà di pronunciare, vedere la dichiarazione di Piantedosi, ministro titolato alla dichiarazione odierna, «un attacco vile e sanguinario al cuore della nostra democrazia ebbe inizio una lunga stagione terroristica a cui il nostro Paese» eccetera, ovvio, credo manchi anche un pronome relativo. Quante cose mancano a questo paese.

quest’anno ho buttato duemila minuti

Non ascoltando musica, chissà che cavolo ho fatto.

Il 7 gennaio è stata evidentemente una giornata gloriosa, forse aspettavo Ascanio. Sopra tutti, gli Shins e ne vado consapevolmente fiero, pezzo i Wombats di Let’s Dance to Joy Division. Idem. Ovviamente è tempo di Wrapped su Spotify, chissà quanto potrei fare ancora in questo dicembre. Che poi le cose vanno sempre nel modo più inaspettato, proprio ora per esempio sto sentendo Bootylicious delle Destiny’s child, vedi la vita?