sfruttare le glorie locali: stavolta Lutero

Come le palle di Mozart – che comunque se n’era andato – a Salisburgo, il testone di Beethoven a Bonn, idem, trovato la gloria altrove, il Dante a Firenze cacciato in esilio, la faccenda delle glorie locali è interessante da osservare, più di frequente un vero spasso. Non è raro che una celebrità se ne sia andata dalla città natale sbattendo la porta – nemo propheta, d’altronde – e abbia trovato la gloria altrove, spesso parlando anche piuttosto male nei bar malfamati del proprio luogo di provenienza. Ma non importa, a celebrità deceduta tutto è bello, tutto va bene, avanti con le celebrazioni e il merchandise, chi se ne impippa?
A Wittenberg le glorie locali sono numerose ma alcune davvero poco spendibili: i Cranach, piccolo e grande, figuriamoci; Melantone chi era costui? Il principe illuminato di Sassonia non mi pare proprio; Lutero sì, lui sì, puntiamo su quello. E il bello della gloria locale è che con la sua gloria, infusa come luce che si spande, illumina tutto quanto, qualsiasi angolo, qualsiasi prodotto. Perché quindi non promuovere i famosi coltelli di Lutero, tra cui l’imperdibile multifunzione copia di quelli svizzeri?

O il set da cucina con i manici colorati. Che avrà pur mangiato tra la sessantaduesima e la settantesima tesi, no? A proposito di quello, ecco l’immancabile Playmobil – ricordo che siamo in Germania – con le fattezze dell’eroe. Oddio, a essere sinceri potrebbe essere un qualsiasi governatore dei Paesi Bassi tra Cinque e Seicento o un estensore della prima costituzione americana o un poeta inglese tipo Milton, se non fosse per l’Antico Testamento che ha in mano e sul quale ce l’hanno dovuto proprio scrivere perché si capisse.

Il sospetto che Playmobil abbia in questo caso risparmiato, optando per il modello versatile, viene. Così non è per il pane con miele di Lutero, proprio quello che lui mangiava cinquecento anni fa per tenersi in forma e affrontare la temibile Chiesa Cattolica Romana e batterla sul suo terreno. Certo, aveva anche le carte con le tesi, proprio lì a destra. E lì a fianco la borraccia, un pallino una tesi.

Le glorie locali postume sono un argomento di mio gran gusto, ancor più quelle alla Girolamo Savonarola a Firenze, per esempio, che prima l’hanno bruciato sul rogo, manifestando un certo astio a parer mio, e ora ci sono le statue, qualche pupazzetto, magari una pizza e la cosa pare risolta, credo il Comune si sia scusato. Certo, comodo dopo, vallo a dire a uno arso vivo.

minidiario scritto un po’ così di un breve giro marxista-luterano: tre, la parte luterana

Ultimamente mi interesso di nuove forme dell’abitare, quindi sulla mia mappetta delle cose da vedere avevo fatto una bella crocetta su Lößnig, un quartiere a sud di Lipsia. Perché lì c’è il Rundling, chiamato anche scioccamente Nibelungensiedlung, un’area residenziale circolare in cui tre cerchi concentrici di edifici costituiscono il nucleo abitativo. Neolitico, direi, una Stonehenge catastalmente residenziale, in stile Bauhaus o, a essere più preciso, Nuova Oggettività, ovvero tra il 1929 e il 1930.

Da dentro si fa fatica a percepire gli anelli, solo al centro a Siegfriedplatz si riesce, e ridagli con Wagner, fissati. Anche le aree rettilinee attorno sono nello stesso stile e, devo dire, a me non spiace nemmeno, nel senso che la disposizione e le proporzioni sono pensate per favorire l’aggregazione strutturata tra le persone.

Ecco, forse qualche pianta in più. Sarà edilizia convenzionata o, magari, case popolari assegnate dallo stato? Aggregano meno i palazzoni epoca-DDR lungo le direttrici principali, dei corvialoni pazzeschi che hanno in comune con molta edilizia italiana la matrice ideologica, purtroppo di sinistra, almeno nominalmente.

La cosa stupefacente è che, spesso e come nel mio caso ora, basta svoltolare un angolo e tra due quartieri ad alta densità, magari, c’è un parco a bosco e, chissà, un laghetto. Mi dirigo verso il cimitero sud di Lipsia e attraverso un vero e proprio bosco in cui, a un certo punto, incontro Bambi.

Lo so, lo so, dà fastidio anche a me che questi, che poi votano AfD, abbiano il parco urbano con i cerbiatti che esci di casa e in due minuti sei in un altrove per davvero. Arrivando al cimitero, il Südfriedhof, che è noto per le celebrità qui sepolte e del lungo elenco io non ne conosco nemmeno una di sfuggita, leggo dalla bacheca di fatti incresciosi, quali i ripetuti atti vandalici alle tombe monumentali. Ecco l’antisemitismo o il neonazismo, mi dico, e invece no: furto di rame, bronzo e metalli vari. Brutto segno, significa banalmente che una fetta non trascurabile della popolazione fa davvero fatica, questo un po’ si lega, o io penso lo faccia, con le considerazioni di ieri sulla crescita di AfD e le disparità con la Germania che sta a ovest. Mi sto facendo un’idea, non sono così convinto c’entri strettamente l’ideologia, Weidel è pur sempre una lesbica che sta con una donna singalese e con due bambine adottate. Penso sia determinante l’elemento economico e il senso di abbandono e sfruttamento da parte della Germania dell’ovest che si tramuta, banalmente, come ovunque in risentimento contro gli immigrati e chiunque sia ritenuto direttamente o lateralmente responsabile di qualunque sottrazione di risorse. Come poi Weidel possa guidare un partito contrario ai matrimoni omosessuali resta per me un vero mistero.

Svoltolo ancora, so dove sto andando, e sbatto contro il Völkerschlachtdenkmal, il monumento della battaglia delle Nazioni, ancora. Entro da dietro e salgo novemila gradini senza incontrare nessuno per andare a vedere dalla cima la piana, quando un pur gentile nibelungo mi chiede il biglietto e io non ho mica visto indicazioni salendo e lui punta il dito novemila gradini più in basso verso un edificino che dovrebbe vendere i biglietti. E secondo te, nibelungo, io faccio novemila e novemila e novemila gradini ancora per vedere all’interno questo panacchione ultranazionalista? Adios, amigo, ci vediamo. Così mi basta, leggo qualcosa sulla battaglia, una delle due scoppolone di Napoleone che ancora a Sant’Elena sosteneva di aver vinto, significativa perché fu la battaglia più ampia per uomini e armamenti della storia fino alla prima guerra mondiale. Delle ‘Nazioni’ perché c’erano proprio tutti. Ed è questo il motivo per cui da Mosca decisero di tenere il monumentone panettone, perché la vittoria era anche loro. A questo punto una mostrofoto devo metterla:

Novanta metri, ripeto. È davvero ora di andare a Wittenberg. Lutherstadt Wittenberg a voler essere corretti che, appunto, significa la città di Lutero. Il quale nacque poco distante da qui, predicò a Wittenberg, teologizzò, appese le famose tesi alla porta della chiesa del castello, diede inizio alla riforma protestante. Non da solo, ovviamente, non unico e forse il gesto delle tesi non accadde mai in questi termini ma la sostanza è così. Il miracolo è che a Wittenberg in contemporanea c’erano Filippo Melantone, Lucas Cranach e il principe di Sassonia Augusto, che tese tutto ciò possibile. E tutti abitavano sulla stessa via principale e quel che Lutero e Melantone facevano all’università e in chiesa poi Cranach, i Cranach, rendevano visibile e comprensibile a tutti. Per fare un paragone delle stesse dimensioni per concentrazione, direi Mantova sotto i Gonzaga con Giulio Romano, Mantegna e Baldassarre Castiglione nel raggio di pochi metri nel Cinquecento. Oggi è buffo percorrere Collegienstraße e vedere quanto abitassero vicino. Ovvio, era lo stesso Augusto che fornì loro abitazioni comode e a tiro, tenendoli a sé senza cedere alle lusinghe delle altre corti del Sacro Romano Impero. Per cui la città è un gioiellino, piccolo ricco e curato, cui non manca vicino lo straordinario fiume tedesco, l’Elba.

Melantone, il più formidabile grecista tedesco e latinista secondo solo a Erasmo da Rotterdam, sposò a un certo punto le tesi di Lutero per la riforma protestante, se ne fece latore poderoso ed ebbe la fortuna, a differenza di Lutero, di essere ancora vivo alla Dieta di Augusta del 1555 che sancì il principio del “cuius regio, eius religio”, ovvero la permissione delle confessioni religiose cattolica e protestante, un trionfo. La sua casa è qui, ancora integra, anche se durante la DDR sarà andata facilmente in rovina. Un raffronto, la casa dei Cranach nel 1990, alla caduta del muro:

E com’è oggi:

Mi immagino dentro. È quel maquillage, ovviamente spesso necessario, cui mi riferivo ieri, la cancellazione di un periodo culturale e architettonico che, certo, non ha brillato per leggerezza né costituisce attrattiva per la gente d’oggi che vuole le esperienze genuine. E, allora, doppio carpiato all’indietro saltando secoli in nome della genuinità. Tutti contenti.

Qualcuno si fa fotografare sulla tomba di Lutero, sulla quale, a differenza di quella di Melantone, c’è qualche fiore fresco. Evidentemente è ancora apprezzato e le variazioni delle confessioni protestanti sono tante e tali che un cattolico romano di formazione stenta a racapezzarcisi. La famosa porta delle tesi, dando per buono il gesto, non esiste più, come la chiesa, distrutte entrambe durante la guerra dei sette anni. Adesso c’è una chiesa neogotica di fine Ottocento e una porta di bronzo sulla quale sono scolpite le tesi. Più interessante la chiesa della città, la chiesa madre del luteranesimo, soprattutto perché è tappezzata di Cranach, tra cui una notevole pala d’altare richiudibile. A questo punto, dopo l’indigestione di Cranach giovani e vecchi, sarei pronto a raccattare le mie pezze e tornare a casa. Prima, una lunga camminata sull’Elba, un pasto del giusto, un ultimo sguardo e un saluto. E non senza non aver mangiato un dolce tipico di queste pianure sabbiose tra Sassonia, appunto, e Brandeburgo, che per la sua combinazione di elementi del tutto insensati dice più della Germania di tante guidine improvvisate: una panna cotta agli asparagi con l’aggiunta di Baileys e composta di fragole (Spargel-Baileys panna cotta mit Erdbeerragout). Alla prossima, grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro marxista-luterano: due, smambroni, analisi, grande pittura, cosmonauti, il diavolo

La sagoma del denkmal che celebra la vittoria nella battaglia delle Nazioni del 1813, un monumentone panettone alto novanta metri in granito che mi ricorda quello dei boeri a Johannesburg, si staglia sulla pianura. Con la grazia dell’atteggiamento e dello stile fin de siècle tedesco, statue di nibelunghi barbuti con gli spadoni e i leoni seguono fedeli un arcangelo Michele alto un tot che pare uscito dalle monate di Jackson nel signore degli anelli, sotto la scritta ‘Gott mit uns’ e qui un pezzetto di AfD si spiegherebbe già. Ci credo bene che ogni qualche decennio venga loro il desiderio di sottomettere il mondo, da qui a Coblenza è pieno di ‘ste boiate guglielmine nazionaliste. Giro attorno e alla larga col treno perché vado a sud, a Chemnitz, la Manchester della Sassonia, e la ragione è politico-sentimentale. Nel frattempo, mi stupisco ancora una volta guardando dal finestrino del fatto che loro, in Germania, hanno ancora le foreste, fitte fitte, e i boschi, integri e belli. Ogni volta una sorpresa un po’ dolorosa, quando torno.

Vale la pena, a questo punto, provare ad affrontare la questione: perché AfD, Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra, vince e cresce dappertutto nella parte est della Germania, ricalcando geometricamente i territori dell’ex-DDR? Eh, bravo, adesso lo spiego io, altro che i fior di analisti. Beh, però, visto che son qui tanto vale dare un’annusata, snocciolo qualche dato fornitomi dal Dipartimento analisi economiche di trivigante. Lo stipendio medio nell’est della Germania è inferiore di circa tredicimila euro lordi rispetto a quelli dell’ovest e a Lipsia è il più basso delle grandi città tedesche, circa trentottomila euro all’anno. Non a caso BMW come molte altre aziende tedesche aprono fabbriche qui, costano meno e un filo scoccia. Il divario è un forte crescita, negli ultimi tre anni è aumentato di oltre duemila euro all’anno, non si può non percepire (e infatti). Soprattutto considerando l’alto livello di tassazione tedesco, addirittura di poco superiore a quello italiano secondo l’OCSE,  attorno al 38% per questa fascia di reddito. Se la disoccupazione in Germania è al 6,2%, a est la media è del 16%, con punte del 21 in Sassonia Anhalt, del 20 in Mecklemburgo e del 19 in Turingia, il dato che ho non è però recentissimo, dovrebbe essere in ribasso a Lipsia e dintorni. E già qualcosa qui si inizia a capire. Per carità, non è che i servizi non ci siano, si vedono eccome, trasporti pubblici, pulizia, stato delle città, ma non ho modo di provare ad avere un medico di base o chiedere la disoccupazione. Però il costo della vita, secondo gli indicatori tipici triviganteschi in viaggio, è abbastanza vicino a quello dell’ovest: un biglietto urbano dell’autobus tre euro e cinquanta, un espresso doppio da bere per strada tra i tre e i quattro euro, una bistecca del contadino sassone e due birre in una keller da ottomila posti circa, in centro certo ma loro non fanno differenza, circa cinquanta euro. Eh. Alberghi esplosi ovunque, non contano. Da una breve incursione in un paio di negozi di case, l’affitto è tra i mille e i milleecinque per appartamento, stanze a quattro-seicento, mica bazzeccole.

Chemnitz, che sta sul fiumicello Chemnitz, ai tempi della DDR si chiamava Karl Marx Stadt, non perché ci fosse mai stato o avesse relazione, quanto per i lavoratori delle fabbriche, numerosissime qui, il centro dell’auto dell’est, Barkas, non Trabant. Ed è così che davanti al palazzo del partito nel 1970 fu installata un’enorme parete con il suo ‘proletari di tutto il mondo unitevi’ in quattro lingue, che capissero anche fuori, e sotto un bel testone del filosofo economista che mi piace moltissimo per forme, proporzioni ed espressione. Ho una foto dei miei lì sotto che riguardo di tanto in tanto con affetto. L’allora Karl Marx Stadt, come Lipsia, fu teatro delle proteste del lunedì che portarono alla caduta del muro e al primo giorno utile cambiò nuovamente il nome in Chemnitz con plebiscito mentre non ci fu una posizione netta sul mantenere o meno la testona dov’è e così resto lì. Per fortuna sua e mia. È ancora corrucciato, Karl, perché lo stato dei lavoratori lo preoccupa anche ora ma se dovessi stabilire lo stato di salute del socialismo dalle sue condizioni attuali, direi che non è che vada benissimo.

Già. Cappellone e manona sono i simboli della festa in corso in città, perché Chemnitz quest’anno è capitale europea della cultura. E siccome già l’UE colpevolmente attribuisce il titolo a città medie senza prerogative culturali particolari ma per rilanciarle turisticamente, anche qui confondono cultura con intrattenimento e la festa sono bancarelle di artigianato casalingo, materassoni per il parkour, quattro tizi vestiti da mona e una quantità di cibo imbarazzante. E il socialismo a ramengo, sconfitto dal bratwurst. In realtà la cultura c’è, forse non così da farne una capitale, ma c’è: il museo Gunzenhauser, dalla collezione del gallerista, la più ricca del mondo di opere di Otto Dix. Lo so che nessuno lì si piglierà la briga di venire a Chemnitz per vedere una mostra, pazienza, la promuovo lo stesso: formidabile, pittura realista europea degli anni Venti e Trenta, da Stoccolma a Sofia, raggruppata per temi: un primo piano di autoritratti eccezionali, poi la vita sociale accesa dopo il disastro della guerra, le fabbriche e il lavoro, il tempo libero, la scoperta dello sport e degli hobbies.

Strepitosa, anche l’edificio modernista aiuta. Se il catalogo non pesasse ottocento chili ci farei un pensiero e poi mi rendo conto di quanto pensi vecchio, lo compro online e lo metto in viaggio verso casa mentre io sono ancora qui. Giornata decisamente portata a casa, ed è solo mezzogiorno, da adesso è tutto ricavo. Nei due anni successivi alla caduta del muro a Chemnitz furono lasciati a casa settantamila operai, per dare una dimensione alla faccenda. Con l’indotto familiare, significava tutta la città con il culo per terra, per dirla in termini economici.

La città, rasa al suolo durante la guerra, perché qui si costruivano i motori del panzer Tiger, fu ricostruita come città modello socialista e c’è una parola che definisce lo stile dei palazzoni dell’epoca, lo scopro ora: il Plattenbau. Ovvero a pannelli di calcestruzzo prefabbricato per pareti, soffitti e pavimenti. Oggi li abbiamo colorati ma quelli sono, ancora numerati come allora, e la cosa che balza agli occhi è che nel consumismo l’altezza delle balaustre dei balconi dev’essere più alta che nel socialismo, li hanno alzati tutti con barre di metallo. Allora la.vita individuale contava meno, forse. Come per le fermate degli autobus, vorrei fare reportages fotografici delle entrate ai condomini socialisti, veri simboli delle comunità fondanti lo stato socialista.

Il castello del principe è stato abbattuto come simbolo borghese ma sono rimasti il parco e il lago, dove scopro i rododendri, tutti fioriti tra il rosa e il viola e tutti velenosi, scopro poi. Vagolando per l’ameno finisco al Centro dei Cosmonauti intitolato, giustamente, a Sigmund Jähn, il primo cosmonauta tedesco della DDR, doveva essere la Soyuz 31. Proprio quello Jähn che divenne presidente in ‘Goodbye Lenin’, quello delle avventure di Sabbiolino, che vedo al Centro. Che gloria, Jurij, Valentina, Sigmund, i cosmonauti tutti, che cavalcata leggendaria furono quegli anni. Frotte di bimbi domenicali usano gli strumenti dei cosmonauti e la DDR è ancora qui tra noi, per la parte buona.

Mentre scrivo questo minidiario sotto un tiglione, Lipsia significa posto dove crescono i tigli, immagino per estensione valga anche qui, il cielo si rannuvola e arriva un acquazzone che una volta avremmo avuto ad agosto e ora lo abbiamo ora. Scappo in stazione e torno a Lipsia per la serata che dedico all’Auerbachs Keller, storica birreria cinquecentesca citata anche nel ‘Faust’ di Goethe e in cui il diavolo è dipinto dappertutto. E si sa, poi non è brutto tanto quanto, quindi bene.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro marxista-luterano: uno, dal Golgota all’Olimpo per lo scontro finale

Nel triennio dal 1989 al 1992 chi al tempo viveva in Europa fu proiettato improvvisamente in un futuro apparentemente radioso ancorché illeggibile, fatto di pace e di unione, in cui cadevano teste e muri e partiti e tutto il vecchiume veniva spazzato via, quale gioia più grande per un giovane progressista irruento come me? Se nell’estate del 1989 non traemmo alcuna conclusione utile dal picnic paneuropeo, in settembre qualcosina sui confini ungheresi lo notammo ma a novembre il crollo del muro lo cogliemmo eccome, tutta quella gente contenta che affluiva dai varchi e saltava sul muro con i picconi era lì da vedere. Il difficile era capire perché. E poco dopo cadde Ceausescu, giustiziato con la moglie, e poco prima in Polonia avevano votato liberamente e vinto Solidarność, l’Armata Rossa era in ritirata da tutti i paesi satellite. E per le mie giovanili e ingiustificate simpatie filosovietiche non era necessariamente una buona notizia, mentre Honecker si dimetteva poco dopo aver detto che il muro sarebbe durato per almeno un secolo. Certo. Anche il mondo andava bene, in Cile dopo sedici anni si votava per la prima volta liberamente, certo a Tienanmen era successo un disastro ma la Cina era lontana e schiacciata da un potere millenario, per noi, e l’estate del 1990 aveva in serbo l’invasione del Kuwait e la prima – allora non lo sapevamo lo fosse – guerra del Golfo. Ma in Europa si volava. Si parlava sempre più di Europa unita, allora la chiamavamo CEE, o Comunità Europea, e avremmo tutti con certezza parlato tedesco, visto che oltre all’economia vincevano pure il mondiale. Le Germanie diventavano una, anzi una si scioglieva nell’altra ma da qui non era chiaro, sembrava tutto lineare e facile, le barriere crollavano. Persino Mandela, quello dei decenni in carcere, diventava presidente dello stato dei bianchi armati, tutto merito dei megaconcerti che facevano accadere le cose. Noi, qui in Europa, firmavamo accordi a Schengen per cui si poteva circolare liberamente, inimmaginabile poco prima, anche la Bulgaria, stato proverbiale, si liberava per poi votare di nuovo alla loro maniera, persino la Thatcher se ne andava e a Palermo finalmente si condannava la mafia a secoli di carcere, la Lituania iniziava la lotta per l’indipendenza. Travolgente, pareva un’onda inarrestabile, le carte urtavano le vicine e facevano crollare tutto. Poi anche la Georgia indipendente, che mah fino a poco prima sembrava stare negli Stati Uniti, e da giugno pure alcune parti della Jugoslavia, e lì per lì pareva una cosa buona e non intuimmo nemmeno lontanamente il baratro, e il patto di Varsavia veniva sciolto e tutto pareva a favore del mondo occidentale consumista e la mia ostalgie non mi permetteva di essere serenamente felice.

In quell’agosto del 1991 i miei genitori che non erano persone da saltare sul muro con il piccone al momento ma che certe cose le volevano poi andare a vedere, decisero di andare nell’ex Germania est e – fortunatamente per me – di portarmi con loro: Dresda, Chemnitz, Lipsia, Wittenberg e poi Berlino, col camper – un occidentale Westfalia ma almeno indigeno – lanciato anch’esso a missile seguendo il flusso. Un’onda travolgente di soldi spazzava tutto via da ovest e la Germania est era tutta in vendita sulle bancarelle, tra pezzi di intonaco meglio se colorati, maschere antigas, uniformi, elmetti e qualsiasi cosa sapesse di passato, le banche aprivano in ogni vetrina ceduta da un fruttivendolo senza frutta e i manifesti invitavano a guadagnare, che era il momento. I bagni nei campeggi sembravano quelli di Ostia antica, con le sedute una a fianco dell’altra senza separazioni, mentre il futuro si comprava il passato. O, meglio, lo occupava, come si faceva con gli appartamenti lasciati liberi senza un catasto certo. Il responsabile del processo di integrazione lavorativa tra DDR e RDT sarebbe finito ammazzato per strada poco tempo dopo, cose che non si vedevano dai tempi della Rote Armee Fraktion, le banche cambiavano due a uno i marchi, indovinare in favore di chi, anzi a essere precisi i marchi orientali erano già andati bell’e che fuori corso. Alla faccia di chi li aveva sotto il materasso. Siccome abbiamo sperimentato anche noi un cambio di valuta, per fare un paragone si rifletta che da noi è durato dieci anni, il marco tedesco orientale può ancora essere convertito in euro senza limiti di tempo, allora si aveva fretta.

Alle trabant si affiancarono le Porsche, le due velocità erano di palese evidenza, chissà quanta gente la trabant l’aveva già ordinata e pagata da tempo e ancora la stava aspettando, alla caduta del muro, e non l’avrebbe vista mai. Gli scaffali dei negozi erano già cambiati del tutto, i pisellini Globus non esistevano più, i cetriolini dello Spreewald nemmeno, l’ovest era tracimato nell’est con la forza di una diga che crolla. Gli ammorbidenti, la lacca, i gelati mille gusti, gli yuppies, i mascelloni strafottenti vincevano su tutte le scale possibili, guadagnate, guadagnate.

Ora è un buon momento, trentacinque anni dopo, per andare a vedere che aria tira. Ricorda, trivigante, ricorda che qui AfD, i nuovi filonazisti, trionfa ovunque. Ricordatelo, trivigante, anche se avranno le buone birrette, un modo di convivere civile e sorridente, luoghi sociali, aperti e accoglienti, cultura mostrata e disponibile, allegre feste di piazza. E così è, infatti. Ma questa cosa di AfD bisogna leggerla, in qualche modo. Vediamo.

A Lipsia è tutto come dev’essere: i segni evidenti di un passato ricco e promettente – tanto Dresda era cortese, nel senso della corte del principe elettore di Sassonia, tanto Lipsia era mercantile e attraeva gente da tutta Europa -, esploso sul finire del diciannovesimo secolo e nei primi dieci, imploso dopo la prima guerra mondiale, riesploso nei Venti per collassare definitivamente alla fine del nazismo e della guerra, reinterpretato in chiave socialista per quarantacinque anni, là dove alla mancanza di libertà si accompagnava però la certezza di casa, lavoro e cibo sebbene con poca varietà, per poi alla caduta del muro affondare in una crisi economico-produttiva colossale dalla quale parrebbe essere in ripresa solo nel nuovo secolo. A oggi è ancora la città meno costosa della Germania, caratteristica attrattiva per enormi imprese e più piccoli cittadini in cerca di lavoro e casa e prospettive.

Il maquillage architettonico del centro, come in tutta l’Unione Europea dell’est, dalla Bulgaria alla Polonia all’Estonia alla Romania, è imponente e ovunque si può si ristrutturano edifici e palazzi nelle forme più accattivanti tra Settecento e art nouveau degli anni Venti, creando un ibrido falso-storico che tanto rassicura i turisti ma che un po’ viene a noia. Il centro storico di Varsavia assomiglia oggi più a Dresda di quanto fosse un tempo, per restare a due esempi di città con destino simile, rase al suolo ottant’anni fa. Qui che due problemi in più che in Polonia in questo se li fanno, restano un po’ di smozzichi e vuoti urbanistici qua e là. Basta però uscire dal centro e il socialismo casermonico è lì da vedere, ridipinto a dovere, oggi offre però case migliori di quelle costruite a occidente della speculazione condominiale degli anni Settanta e Ottanta. Restano comunque consuetudini dell’est socialista, serve un occhio allenato, per esempio le biglietterie dei musei fanno ancora oggi da bar, due fettine di torta luisona e una macchinetta a cialde ci sono sempre. Come certe biglietterie dei treni che resistono. Le strutture grosse ci mettono di più a sparire, quindi certi complessi modernisti, bellissimi peraltro, o certi palazzi della cultura di stampo sovietico, stessa cosa, permangono, spesso un po’ disarticolati dal contesto.

Per come la ricordavo io, scura e cupa, oggi Lipsia è anzi luminosa e verde. Sarà che allora magari fu una giornata di acquazzoni d’agosto – dopo ferragosto si rompeva l’estate, dicevano i vecchi – oppure il me meno che ventenne trasformava la mancanza di prodotti sugli scaffali e di negozi in mancanza di colore. Entrambe, chissà. Come allora, ed è un po’ anche per questo che sono tornato, la chiesa evangelica di san Tommaso ospita la tomba di Bach, che fu maestro di cappella a lungo qui, e il coro della Gewandhaus, che si esibisce quasi quotidianamente da metà Settecento. Mendelssohn e Furtwängler, per dirne due direttori. Ed è così che la ricordo allora, solenne, tutti seduti composti a sentire gli esercizi del coro che riempivano la chiesa fino alle volte, così come la rivedo e la risento ora. La sensazione è la medesima, una certa commozione in grado di proiettare il momento attuale indietro nel tempo. Anche Mozart suonò qui, in caso non bastasse, e si racconta che ascoltata l’esecuzione del mottetto Singet dem Herrn ein neues Lied BWV 225, esclamò: “Qui c’è qualcosa da cui possiamo imparare!” e si mise a studiarne gli spartiti. Io non so se imparai qualcosa allora ma una volta uscito comprai su una bancarella un disco dei Moody blues che aveva una copertina congrua col momento, secondo me, e ancora lo ascolto.

Prima di una bella zuppa di patate sassone e un qualche brasato alla birra che mi farà sognare Satana, visito il Museum der bildenden Künste, un enorme cubo di cemento nel centro della città che, lo so che così non sembrerebbe, è bellissimo. E dentro ancor meglio, i sotrocubi in cui sono divise le sezioni creano un gioco di spazi notevole, a dimensione così enorme. Vedo uno degli Hals che preferisco, parecchie cose buone, e poi nell’Ottocento, che è dove i germanici vanno fortissimo, il più clamoroso crossover nella storia dell’arte e forse anche nella teologia: Cristo sull’Olimpo di Klinger. Uno smambrone lungo otto o dodici metri, non so, per altrettanti, misto a bronzo e marmo e oro e cose che dir non so, nel quale un Cristo fichissimo e chiaramente trionfante guarda con disprezzo uno Zeus con i suoi fulminetti e tutti gli dii idioti attorno che percepiscono la grandezza della figura che hanno davanti, sconfitti senza riscatto. Il campo di riferimento della rappresentazione è quello della teologia della Marvel, ovvero quello del mio-dio-è-più-forte-del-tuo, il messaggio è posato e denso di contenuto quanto un proclama dell’Isis, adesso mio padre dà un pugno al tuo che lo manda sulla luna. Una boiata considerevole che ha, però, un posto d’onore qua nel bel museo. Va’ a capire. Tra tanti altri belli, ce n’è uno che rappresenta il popolo che dona oro e beni a un funzionario in nome di non so quale causa e che, come fu, non poteva che suscitare gli entusiasmi di Hitler. A me suscita solo un’enorme tristezza, già alimentata dal Gesù olimpico. Essa, la tristezza, aumenta ancor di più alla vista della statua di Beethoven in cui un’aquila guarda riverente ai suoi piedi di titano, altra boiata somma del sempre lui Klinger, anche scultore, bravo. Romanticismo al cubo, deleterio quando si deve essere i più impetuosi di tutti. Mi riprendo abbastanza alla vista della morte che piscia in un fiume di Böcklin, ed è uno scheletro, e del tutto di fronte agli splendidi Cranach lipsiani, Lutero compreso. E ora la zuppa di patate e la bistecca del contadino sassone, che sono andato lungo.


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habemus papam

Ecco la prima immagine del nuovo papa, Leone quattuordecimo:

Che con quel cognome, Prevost, era evidentemente predestinato alla carriera. Registro la ripresa degli abiti cerimoniali – la vezzetta, il diliquano e i pendagliumi – dopo il bianco sacrale di papa Francesco.
Tra i giornali, i più significativi sono quelli italiani, perché più coinvolti e avvezzi, Domani fa la citazione cinematografica:

Il Manifesto gigioneggia come al solito, non irresisitibile:

Il Riformista cita la serie di Sorrentino, non improprio perché americano:

Infine la più elegante, ovviamente:

A me non piacciono molto i nomi papali con alto numero di serie, preferisco quelli originali con due o tre al massimo.

crenatura papale

Sepolto il papa a Santa Maria maggiore, ottima scelta, a fianco di Bernini e del vigliacco Junio Valerio Borghese, in molti come me hanno apprezzato la sobrietà della tomba ma si sono interrogati sull’epigrafe. Chiarisco. Partendo dalle foto, ecco:

Il nome, esattamente come scritto, è dunque:

Ciò che salta all’occhio anche dei non addetti è la crenatura, o spaziatura a dirla più comprensibile anche se meno corretta, ovvero lo spazio tra una lettera e l’altra, o tra gruppi di lettere. Ora: lo spazio tra le lettere di una qualunque scritta non è mai regolare, viene bensì adattato dai grafici e dai tipografi perché risulti più appagante per l’occhio, quindi attorno a certe lettere si riduce, attorno ad altre si aumenta. Tutto leggermente, niente di drastico, ma è un lavoro necessario perché la spaziatura regolare e precisa non viene apprezzata alla vista.
In questo caso, appare tutto un po’ strano, provo a dare le distanze:

Le prime tre sono regolari anche se eccessivamente distanziate, poi la ‘N’ eccede prima per invece appiccicarsi al gruppo ‘CIS’ che si restringe drasticamente, torna quasi alla normalità per terzultima e penultima per poi stringere di nuovo. Le differenze sono sostanziali, non è un impercettibile aggiustamento, tant’è che anche alla vista appare un accrocchio di gruppi separati, tipo: F R A NCISC V S.
Ecco come sarebbe se fosse sistemata, seppur troppo ravvicinata per i canoni papali:

Ora: è ovvio che la cosa sia voluta, non c’è dubbio, sfuggono però le ragioni. Che sono sicuramente molteplici, dalle consuetudini secolari al contesto in cui è stata collocata la tomba al manuale di grafica pontificia che, magari, risale a Marco Aurelio, va’ a sapere. L’unica certezza è che stride, sia alla vista sia in relazione alla sobrietà, come detto, e semplicità del sepolcro. Inutile aspettarsi chiarimenti, in questo la Chiesa è saggia e non parla, al massimo tra due secoli manderà un onesto artigianino che zitto zitto acconcerà la cosa. Per ora, andrò a vederla di persona non appena il flusso sarà scemato e cerco di sedare il pensiero di quegli spazi messi lì così.

minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: sei, ‘taliani brava gente

Secondo me questi sono spari. Altro che fuochi d’artificio, son raffiche di fucile d’assalto, troppo regolari. Per carità, ciascuno festeggia come vuole e si sa che in certi paesi la gioia è talmente irrefrenabile che si può sfogare solo sparando in aria, meglio un caricatore intero. È notte e il Mediterraneo è agitato, fa certi tonfi quando si schianta sulla costa che sarebbe difficile attraccare con un traghetto, non solo con una nave oliaria greca. Come in tutti i paesi autoritari nel caos tutti i luoghi sensibili sono illuminati, banchina, caserma, parcheggio delle camionette, e nelle case delle persone manco una luce, dentro come topolini. Io guardo da un balcone e dopo un po’, osservando la ruggine, mi chiedo se tenga, ‘sto coso. Il generale mi osserva da un ritrattino giù, nel mezzo di un cantiere.

Ora bisogna tornare a Tripoli e sarebbe meglio non tornare a Bengasi, sono più di duecento chilometri di stradaccia e considerati i dissuasori, le buche, i posti di blocco e i ponti crollati, significherebbe almeno quattro ore. E poi comunque il golfo della Sirte sono mille chilometri. Andiamo in un aeroporto nel mezzo del nulla, ma nulla nulla, vicino a una certa Beda Littoria, una pista e una stanza per controlli, arrivi e partenze. Adel, il nostro contatto locale, ci spiega che è meglio essere lì almeno quattro ore prima perché, spiega, l’aeroporto è in mano a una banda locale e se gli serve ci potrebbero portare via i posti. D’accordo, vada per l’anticipo, anche se tra me e me penso che i posti ce li porterebbero via comunque, anticipo o meno, se ne avessero desiderio. L’aeroporto si chiama Al Abraq, è internazionale perché vola a Tripoli, e sembra in tutto e per tutto un aeroporto di Narcos. E siccome sono pirla, ho fatto pure delle foto, eccone una dell’esterno:

Labbanda non arriva e abbiamo i nostri posti, saliamo su un sigarotto stretto e piccolo da due posti per fila e io penso che i voli interni non mi piacciono. Ma la ferrovia coloniale, qui come in Tunisia e in tutto il Nordafrica a parte l’Egitto, l’hanno tolta. Quindi, sigarotto. C’è persino la carta di imbarco, inaspettata, le perquisizioni serie mentre nello zaino ho due litri d’acqua che non interessano a nessuno, e potrei avere nove chili di semtex tranquillo. Ho di fianco un uomo maturo e serio in cappottone fino ai polpacci che, chissà perché, mi fa pensare a Terracini o Calamandrei, mah. Forse interpreto una dissidenza nei suoi abiti e modi.

A Tripoli conosciamo un gruppo di italiani nati in Libia prima e durante la guerra, tornati per rivedere i luoghi dell’infanzia. So a memoria che anche Claudio Gentile è nato qui, potere degli album Panini. Sono un’associazione italiana, ci dicono, di amici della Libia e quando hanno chiesto alla Farnesina i visti per la partenza il Ministero li ha caldamente sconsigliati. Ma loro sono partiti lo stesso, e pure noi, penso. Con loro c’è la direttrice italiana degli scavi di Sabratha e non avrà vita facile, immagino. Facile imbattersi qua e là in qualche compatriota nostalgico di Balbo e dell’italico ordine in Libia, Graziani no, lui no, era proprio esagerato. Montanelli che comprava la moglie dodicenne no? Eh, ma si poteva fare. Una testata, vi dò, babbei. È proprio vero che i ricordi dell’infanzia sono i migliori.

Girolando per la Tripoli coloniale mi imbatto in un cinema dell’epoca, ha la classica forma, pensilina e finestroni verticali compresi, sembra l’Impero di Asmara, uguale all’omonimo di Tor Pignattara. Il viale è quello che porta al palazzo del governatore, sono quasi tutti edifici di epoca coloniale e sono ricoperti di impalcature: a un occhio non esperto, il mio, non per ristrutturare ma per fare tutt’altro, a giudicare dai forati aggiunti apparentemente senza costrutto. In tutta la faccenda, prima di Balbo, fu coinvolto quel gran porcaccione del conte Volpi di Misurata, che nell’Italia repubblicana si ritroverà proprietario della SADE nella faccenda della diga del Vajont, supportato dal punto di vista militare dall’orrendo Graziani. E ancora oggi a Venezia danno la coppa Volpi, madonna che nervoso. Il palazzo del governatore è un assurdo architettonico misto tra razionalismo e architettura araba e per prominenza della posizione dà l’idea della dominazione, poi fu la dimora di Balbo e poi di re Idris. Gheddafi no, lui dormiva nelle caserme e le cambiava spesso, guardarsi le spalle.

Nella dechirichiana – o escheriana, se fosse più intelligente – chiesa di san Francesco fu celebrato il funerale di Balbo in gran pompa, tirato giù lo ricordo da fuoco amico. Bravi. Dentro incontro un gruppone di suorine di Calcutta, cioè dell’ordine di madre teresa (scritto minuscolo, non apprezzo per nulla), chissà che connessioni ci sono. Girolando ancora, trovo un tesoro: una piccola libreria, polverosa perché la sabbia entra dappertutto, gestita da un uomo cordiale il cui ruolo di libraio in Libia dev’essere tutt’altro che facile, come sventolare una bandiera bianca in mezzo a due linee di fronte. Tra le storie di Balbo, alcune anche in italiano, e di Saddam, trovo i sonetti di Shakespeare in arabo con testo a fronte, l’Orwell di 1984, un Vonnegut indecifrabile, un piccolo Principe nell’identica edizione italiana solo in arabo.

Pur volendo, non riesco a comprare nulla ma due parole le facciamo, sorridendoci a vicenda. Quella che ora è via Indipendenza era una volta via Vittorio Emanuele terzo, altro porcaccione imbelle. Sento la necessità di avere vicino Del Boca, grande merito a lui. Arrivo alla galleria Aurora, altro grave lascito del colonialismo italiano e qui finisco anche le galleriette di immagini, per dare conto qui a chi ne avesse curiosità.

E a questo punto mi congedo, senza trarre alcuna conclusione specifica. Che non sarebbe stato un viaggio facile lo sapevo ancor prima di partire e così è stato, porto a casa con me consapevolezza, rapporti umani significativi, ricordi belli e qualcuno meno, qualche incubo nuovo. Ora starà a me mettere a frutto quando visto e detto e se possibile trasmetterlo nella maniera più efficace possibile. Il mondo che conosco si è allargato e ristretto insieme, con questo viaggio, come l’ottimismo sulle sorti umane e del mondo, mica posso andare solo a Siena tutte le volte per farmi scaldare da forme e modi amichevoli e conosciute. Vedrò la prossima volta che strada piglio. Grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: cinque, segui l’oracolo

Dalla Tripolitania alla Cirenaica è cambiato anche il poliziotto che ci accompagna. Questo è lo Starsky di Cirene e fa video in continuazione, probabilmente per mostrare chi siamo e che facciamo. Amichevolmente. Da quel che spiega, lui è responsabile della nostra incolumità, non si capisce però se sia un modo per tenerci uniti in vista o ne risponda per davvero. Comunque, non è che ci sia da andare chissà dove.

Un albergo ad Apollonia che oltre a essere appena rinnovato è anche l’unico. L’idea del rinnovamento dipende chiaramente dal punto di partenza: questo dev’essere partito parecchio indietro. È tassativamente vietato uscire ma non è che venga tutta questa tentazione, tranne guardare un po’ quel mare che schiuma regolare contro le rovine della città antica e moderna. Vedi poi i casi della vita? Qui conosco – nell’unico albergo – un noto ex politico italiano, a lungo presidente del consiglio comunale di una grande città del nord, poi senatore, ed è la prima volta che incontro un piduista. Ma guarda te, venire in Cirenaica per fare di questi incontri, se c’è un significato giuro che non riesco, al momento, ad afferrarlo. Se c’è un Caso, esso si diverte.

La mattina dopo, e sono piuttosto emozionato, finalmente la capitale della pentapoli Cirene (Shahat). Vigliacco se in un ciclo scolastico qualsiasi qualche insegnante si fosse preso la briga di mostrarci sulla mappa dove fosse, macché, sempre un nome sospeso nell’aria e nel vuoto. La città è colossale, sterminata per l’epoca, poteva senz’altro rivaleggiare con Roma e Atene, basti dire che aveva cinque dico cinque teatri. La sola area sacra richiede alcune ore, il ginnasio è talmente esteso che smetto di contare le colonne, tutte doriche in queste città di origine greca in terra d’Africa, la vista sulla pianura sopra la necropoli rimanda a storie di millenni fa. Eratostene, vado a memoria perché quando non ci sono connessioni tocca farlo, era di qui e misurò le dimensioni della terra con precisione contemporanea, alla faccia di qualsiasi terrapiattista. Secondo Erodoto, Cirene fu fondata da coloni di Thera, Santorini, nel VII secolo a.C. che, su consiglio dell’oracolo di Delfi, per sfuggire a une terribile siccità partirono alla ricerca di nuove terre. La città legò il suo nome alla ninfa Cirene che sguazzava in una fonte sacra poi inserita nel
santuario di Apollo. Per quanto mi riguarda, nella mia personale collezione sta a fianco di Cartagine, Tebe, Petra, Leptis magna, Sabratha, el Jem, Thugga, per dirne alcune restando all’antico. Il suo tempio di Zeus è più grande del Partenone. Bum!

Da Cirene, appollaiata su un altopiano a ridosso del mare, si scende ad Apollonia (Marsa Susa), il suo porto. A dirla giusta, a Susa, la città bizantina, perché quella greca si trova in buona parte in mare, dopo il terremoto del IV secolo, come Alessandria. Un teatro greco magnifico scavato nelle rocce rosse oggi è a pochi metri dal mare, bellissimo ma senza senso poiché non si sentirebbe niente degli attori in scena. Sembra Red rocks. D’accordo, eccolo:

Non c’è nessuno. Già è difficile arrivare fin qui, poi non c’è turismo, non è raro che le persone ci chiedano di fare delle fotografie insieme, sorridenti e amichevoli. Le ragazze ci fotografano facendo finta di niente, impossibile chiedere. I bambini, più sfacciati, spesso mi circondano e una volta saputo il nome lo ripetono in corteo standomi attorno, un momento alibumaié, emozionante.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: quattro, dall’altra parte

Nel 2011 uno dei fedeli colonnelli del Colonnello, Khalifa Belqasim Haftar, Haftar per brevità, guidò non da solo e con il sostegno russo la rivolta contro il capo e scatenò la reazione delle forze lealiste che bombardarono lungamente Bengasi. La quale era stata già bombardata nel 1986 dagli Stati Uniti e attraverso due guerre civili, l’attentato di Al Qaeda all’ambasciata americana del 1992, le proteste all’ambasciata italiana dopo le provocazioni di Calderoli, è giunta così a essere un vero disastro.

Però c’è uno stadio nuovo e grande. Bengasi è la capitale del secondo stato, la Cirenaica, la parte est del paese, sotto il controllo del secondo presidente, il militare Haftar, come da cartelloni sparsi ovunque. La terza, il deserto interno, la terza regione, il Fezzan, chissà. Il volo da Tripoli a Bengasi, al netto delle altre ore all’aeroporto, è abbastanza tranquillo, sebbene io non ami per nulla i voli interni. Arriviamo col buio al centro di Bengasi e la distruzione non si percepisce, la mattina è un risveglio che definirei somaliano. Interi quartieri della città sono recintati perché distrutti o crivellati e le stesse recinzioni sono cadenti. Le strade occupate da catorci, non c’è un’auto sana, nessuna struttura riconoscibile come scuole, uffici, ospedali, polizia. Qualche rara farmacia, al massimo. A volte mi chiedo perché io non sia in Lettonia, in questo momento. Saperlo. La città storica era la nota Berenice, inutile cercare qualche traccia, ed era una delle cinque città della pentapoli cirenaica, ovvero le città fondate dai greci, anche tolemaidi di provenienza egizia, che fronteggiavano le città puniche sull’altro lato del golfo della Sirte.

Ci leviamo da Bengasi abbastanza rapidamente, essendo le attrattive ridottine, tagliando un pezzo all’interno verso un’altra città della pentapoli, Tolemaide, lo storico porto di Barca, oggi Al Marj. Molte di queste città furono abbandonate perché devastate dopo il tremendo terremoto del 365 dopo cristo, quello per capirci che fece crollare il faro di Alessandria. Alcune di esse ebbero poi una qualche fortuna sotto i bizantini e, temporaneamente, sotto Giustiniano. Tolemaide è una città abbandonata che fu grande, oltre trentamila abitanti al culmine, oggi ricoperta di terra ed eucalipti, capre e qualche ragazzino che vive chissà dove che continua a chiedermi uoziorneim?. Un enorme palazzo, chiamato delle colonne, dà mostra di sé e realizzo che ho visto finora migliaia di colonne integre, cosa che da noi non accade perché nei secoli altri se le accaparrarono. Qui no, sono ancora lì, a parte le seicentotrenta che Luigi XIV fece portare alla costruenda Versailles da Leptis magna.

Pochi anni fa Haftar mosse i suoi miliziani verso Tripoli e giunse quasi là a colpi di mitraglia, iniziando a bombardare. Poi si fermò e non è tutt’ora chiaro cosa intervenne. Il panorama della Cirenaica cambia pian piano e diventa sempre più verde, le sterpaglie diventano cespugli e appaiono alcuni pini a fianco degli eucalipti. Complessivamente diventa un territorio verde con una bella terra rossa e una certa quantità di acqua. Due anni fa si formò un uragano vero e proprio, lo chiamarono Daniel se non ricordo male, e fece crollare una diga in terrapieno causando una quantità tremenda di morti. I corsi asciutti dei torrenti suggeriscono che in certi momenti l’acqua sia davvero molta e irruenta. Un museetto che è più che altro un magazzino mostra l’alta qualità dei reperti, statue, mosaici, vasellame, chi lavora qui come archeologo ha dell’eroico. Attualmente una spedizione polacca collabora al recupero, va’ a sapere le dinamiche. Ogni tanto emerge sul mare o nei campi una commovente basilichina bizantina, in una di queste un magnifico mosaico mostra l’unica rappresentazione nota del faro di Alessandria, in molte altre appare una fede raccolta, modesta e orgogliosa.

Quella che integralisti, che per semplicità chiamerò Isis, non possono proprio sopportare e che devono, per forza, devastare, smontando e saltandoci sopra.

Un pastore di capre con il mitra, il pastore non le capre, macchia mediterranea, un tentativo chiaramente fallito di sviluppo turistico lungo il mare, che è oggettivamente splendido, strade costellate di dissuasori e buchi, qualche casa qua e là di cemento a vista e non finita, è già molto che ci sia un albergo aperto, qui, e che sia possibile starci. Un mercato con frutta, albicocche, arance, banane e mele, e frutta bella, zucchine, cipolle, zucche, pomodori, patate e molte molte molte scarpe. Sebbene ripetitivo, il cibo è semplice e buono, non fosse per il sempre maledetto pollo che compare dappertutto e che io non posso mangiare. Restano agnello e, in generale, delle ottime orate, solitamente accompagnate da riso o più raramente cous cous. A volte capita qualche tipo di variazione di hummus, stranamente nessuna oliva, si apre sempre con ottime zuppe di lenticchie o di carne, detta libica e un po’ piccante, o pesce.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: tre, legati a doppio filo

Dice Tahar Ben Jelloun che «La Libia non va realmente d’accordo con nessuno Stato» perché «il problema è che la Libia non è uno Stato, ma un coacervo di tribù, con due governi, di cui solo uno è riconosciuto dalle Nazioni Unite». Ecco il titolo. Tra i due governi nemmeno si riconoscono la moneta ma uno senza l’altro non avrebbe petrolio, gas e banche. Andiamo verso ovest, verso il confine tunisino, ad Az Zawiyah, una città al centro del traffico di droga, di esseri umani, di armi. Gli edifici sono crivellati di proiettili, mancano le strutture minime di una città, i negozi essenziali come le farmacie, ci sono solo ricambi per auto, parabrezza ammonticchiati. In giro per le strade un buon grado di mondezzaio e la sensazione chiara di essere controllati a vista. Da qui partono i barconi, per lo meno per la gran parte, e i centri di detenzione, dopo quelli nel deserto, sono qui attorno. E chi, chi gestisce tutto questo? La risposta dopo la foto.

Usāma al-Maṣrī Nağīm, conosciuto come Al Masri, prontamente liberato dal governo Meloni quando purtroppo hanno avuto la sfortuna di trovarsi la patata bollente tra le mani mentre, bel bello, lui usciva dallo Juventus stadium. Criminale internazionale, difficile dire quanti capi di imputazione gli siano riconducibili, non nego che arrestarlo e detenerlo possa essere una rogna ma anche sbarazzarsene al primo colpo di tosse è un pessimo modo. La giustizia e la dirittura morale, personale e collettiva, sono proprio un’altra cosa. Sarà forse perché lo paghiamo, come Stato, per trattenere i migranti nei centri e seviziarli? Sarà perché siamo sotto scacco? Proseguiamo qualche chilometro e sulla costa di Sabratha il gasdotto che va in Italia si immerge nel mare. Ecco. Dopo le sanzioni alla Russia e l’acquisto di gas ed energia differenziato, siamo noi a dipendere da loro. Altrimenti non si spiega.

La parte di Libia a ovest del golfo della Sirte, ovvero la Tripolitania, è nelle mani di cinque milizie in lotta tra loro, un caos significativo. Il presidente è un palazzinaro che sotto Gheddafi divenne molto ricco, riuscendo a prendere il potere con la corruzione alla caduta del colonnello. In Cirenaica, l’altra parte del paese, c’è un altro governo, al cui capo c’è un militare che tiene il controllo sulle milizie, un’altra capitale, Bengasi, un’altra moneta. L’accordo tra i due governi regge perché a Tripoli ci sono le strutture e le banche e il gas, a Bengasi il petrolio. C’è un parlamento unico che, evidentemente, non conta nulla. A Bengasi è molto forte l’influenza russa e le premesse di equilibrio non paiono solide, lo stesso capo del governo cirenaico ha provato di recente a esautorare il rivale. Bombardandolo.

Sabratha fu una delle tre città storiche della Tripolitania, anch’essa con una storia simile a Leptis magna: prima  insediamento commerciale fenicio, poi con Leptis Magna e Oea parte dell’impero di Cartagine e città romana nel 46 a.C. con la creazione della provincia d’Africa. Se Leptis magna di città imperiale, Sabratha fu uno dei poli commerciali per la sua posizione, connessa con l’interno dell’Africa e la costa mediterranea. Di fatto, la stessa che condiziona la situazione attuale e offre la via per il traffico di esseri umani da sud a nord. Vedere ‘Io capitano’, per questo. I resti sono sontuosi, enormi, anche qui gli ultimi scavi furono italiani e tutto è lasciato a sé stesso e, ciò nonostante, i colori, la posizione e la grandiosità della strutture hanno la meglio su incuria, malaffare e rifiuti.

Forse anche meglio di Leptis magna, da molti punti di vista. A questo punto, è necessario tornare rapidamente indietro, a Tripoli, che c’è da prendere un aereo.


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