habemus papam

Ecco la prima immagine del nuovo papa, Leone quattuordecimo:

Che con quel cognome, Prevost, era evidentemente predestinato alla carriera. Registro la ripresa degli abiti cerimoniali – la vezzetta, il diliquano e i pendagliumi – dopo il bianco sacrale di papa Francesco.
Tra i giornali, i più significativi sono quelli italiani, perché più coinvolti e avvezzi, Domani fa la citazione cinematografica:

Il Manifesto gigioneggia come al solito, non irresisitibile:

Il Riformista cita la serie di Sorrentino, non improprio perché americano:

Infine la più elegante, ovviamente:

A me non piacciono molto i nomi papali con alto numero di serie, preferisco quelli originali con due o tre al massimo.

crenatura papale

Sepolto il papa a Santa Maria maggiore, ottima scelta, a fianco di Bernini e del vigliacco Junio Valerio Borghese, in molti come me hanno apprezzato la sobrietà della tomba ma si sono interrogati sull’epigrafe. Chiarisco. Partendo dalle foto, ecco:

Il nome, esattamente come scritto, è dunque:

Ciò che salta all’occhio anche dei non addetti è la crenatura, o spaziatura a dirla più comprensibile anche se meno corretta, ovvero lo spazio tra una lettera e l’altra, o tra gruppi di lettere. Ora: lo spazio tra le lettere di una qualunque scritta non è mai regolare, viene bensì adattato dai grafici e dai tipografi perché risulti più appagante per l’occhio, quindi attorno a certe lettere si riduce, attorno ad altre si aumenta. Tutto leggermente, niente di drastico, ma è un lavoro necessario perché la spaziatura regolare e precisa non viene apprezzata alla vista.
In questo caso, appare tutto un po’ strano, provo a dare le distanze:

Le prime tre sono regolari anche se eccessivamente distanziate, poi la ‘N’ eccede prima per invece appiccicarsi al gruppo ‘CIS’ che si restringe drasticamente, torna quasi alla normalità per terzultima e penultima per poi stringere di nuovo. Le differenze sono sostanziali, non è un impercettibile aggiustamento, tant’è che anche alla vista appare un accrocchio di gruppi separati, tipo: F R A NCISC V S.
Ecco come sarebbe se fosse sistemata, seppur troppo ravvicinata per i canoni papali:

Ora: è ovvio che la cosa sia voluta, non c’è dubbio, sfuggono però le ragioni. Che sono sicuramente molteplici, dalle consuetudini secolari al contesto in cui è stata collocata la tomba al manuale di grafica pontificia che, magari, risale a Marco Aurelio, va’ a sapere. L’unica certezza è che stride, sia alla vista sia in relazione alla sobrietà, come detto, e semplicità del sepolcro. Inutile aspettarsi chiarimenti, in questo la Chiesa è saggia e non parla, al massimo tra due secoli manderà un onesto artigianino che zitto zitto acconcerà la cosa. Per ora, andrò a vederla di persona non appena il flusso sarà scemato e cerco di sedare il pensiero di quegli spazi messi lì così.

minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: sei, ‘taliani brava gente

Secondo me questi sono spari. Altro che fuochi d’artificio, son raffiche di fucile d’assalto, troppo regolari. Per carità, ciascuno festeggia come vuole e si sa che in certi paesi la gioia è talmente irrefrenabile che si può sfogare solo sparando in aria, meglio un caricatore intero. È notte e il Mediterraneo è agitato, fa certi tonfi quando si schianta sulla costa che sarebbe difficile attraccare con un traghetto, non solo con una nave oliaria greca. Come in tutti i paesi autoritari nel caos tutti i luoghi sensibili sono illuminati, banchina, caserma, parcheggio delle camionette, e nelle case delle persone manco una luce, dentro come topolini. Io guardo da un balcone e dopo un po’, osservando la ruggine, mi chiedo se tenga, ‘sto coso. Il generale mi osserva da un ritrattino giù, nel mezzo di un cantiere.

Ora bisogna tornare a Tripoli e sarebbe meglio non tornare a Bengasi, sono più di duecento chilometri di stradaccia e considerati i dissuasori, le buche, i posti di blocco e i ponti crollati, significherebbe almeno quattro ore. E poi comunque il golfo della Sirte sono mille chilometri. Andiamo in un aeroporto nel mezzo del nulla, ma nulla nulla, vicino a una certa Beda Littoria, una pista e una stanza per controlli, arrivi e partenze. Adel, il nostro contatto locale, ci spiega che è meglio essere lì almeno quattro ore prima perché, spiega, l’aeroporto è in mano a una banda locale e se gli serve ci potrebbero portare via i posti. D’accordo, vada per l’anticipo, anche se tra me e me penso che i posti ce li porterebbero via comunque, anticipo o meno, se ne avessero desiderio. L’aeroporto si chiama Al Abraq, è internazionale perché vola a Tripoli, e sembra in tutto e per tutto un aeroporto di Narcos. E siccome sono pirla, ho fatto pure delle foto, eccone una dell’esterno:

Labbanda non arriva e abbiamo i nostri posti, saliamo su un sigarotto stretto e piccolo da due posti per fila e io penso che i voli interni non mi piacciono. Ma la ferrovia coloniale, qui come in Tunisia e in tutto il Nordafrica a parte l’Egitto, l’hanno tolta. Quindi, sigarotto. C’è persino la carta di imbarco, inaspettata, le perquisizioni serie mentre nello zaino ho due litri d’acqua che non interessano a nessuno, e potrei avere nove chili di semtex tranquillo. Ho di fianco un uomo maturo e serio in cappottone fino ai polpacci che, chissà perché, mi fa pensare a Terracini o Calamandrei, mah. Forse interpreto una dissidenza nei suoi abiti e modi.

A Tripoli conosciamo un gruppo di italiani nati in Libia prima e durante la guerra, tornati per rivedere i luoghi dell’infanzia. So a memoria che anche Claudio Gentile è nato qui, potere degli album Panini. Sono un’associazione italiana, ci dicono, di amici della Libia e quando hanno chiesto alla Farnesina i visti per la partenza il Ministero li ha caldamente sconsigliati. Ma loro sono partiti lo stesso, e pure noi, penso. Con loro c’è la direttrice italiana degli scavi di Sabratha e non avrà vita facile, immagino. Facile imbattersi qua e là in qualche compatriota nostalgico di Balbo e dell’italico ordine in Libia, Graziani no, lui no, era proprio esagerato. Montanelli che comprava la moglie dodicenne no? Eh, ma si poteva fare. Una testata, vi dò, babbei. È proprio vero che i ricordi dell’infanzia sono i migliori.

Girolando per la Tripoli coloniale mi imbatto in un cinema dell’epoca, ha la classica forma, pensilina e finestroni verticali compresi, sembra l’Impero di Asmara, uguale all’omonimo di Tor Pignattara. Il viale è quello che porta al palazzo del governatore, sono quasi tutti edifici di epoca coloniale e sono ricoperti di impalcature: a un occhio non esperto, il mio, non per ristrutturare ma per fare tutt’altro, a giudicare dai forati aggiunti apparentemente senza costrutto. In tutta la faccenda, prima di Balbo, fu coinvolto quel gran porcaccione del conte Volpi di Misurata, che nell’Italia repubblicana si ritroverà proprietario della SADE nella faccenda della diga del Vajont, supportato dal punto di vista militare dall’orrendo Graziani. E ancora oggi a Venezia danno la coppa Volpi, madonna che nervoso. Il palazzo del governatore è un assurdo architettonico misto tra razionalismo e architettura araba e per prominenza della posizione dà l’idea della dominazione, poi fu la dimora di Balbo e poi di re Idris. Gheddafi no, lui dormiva nelle caserme e le cambiava spesso, guardarsi le spalle.

Nella dechirichiana – o escheriana, se fosse più intelligente – chiesa di san Francesco fu celebrato il funerale di Balbo in gran pompa, tirato giù lo ricordo da fuoco amico. Bravi. Dentro incontro un gruppone di suorine di Calcutta, cioè dell’ordine di madre teresa (scritto minuscolo, non apprezzo per nulla), chissà che connessioni ci sono. Girolando ancora, trovo un tesoro: una piccola libreria, polverosa perché la sabbia entra dappertutto, gestita da un uomo cordiale il cui ruolo di libraio in Libia dev’essere tutt’altro che facile, come sventolare una bandiera bianca in mezzo a due linee di fronte. Tra le storie di Balbo, alcune anche in italiano, e di Saddam, trovo i sonetti di Shakespeare in arabo con testo a fronte, l’Orwell di 1984, un Vonnegut indecifrabile, un piccolo Principe nell’identica edizione italiana solo in arabo.

Pur volendo, non riesco a comprare nulla ma due parole le facciamo, sorridendoci a vicenda. Quella che ora è via Indipendenza era una volta via Vittorio Emanuele terzo, altro porcaccione imbelle. Sento la necessità di avere vicino Del Boca, grande merito a lui. Arrivo alla galleria Aurora, altro grave lascito del colonialismo italiano e qui finisco anche le galleriette di immagini, per dare conto qui a chi ne avesse curiosità.

E a questo punto mi congedo, senza trarre alcuna conclusione specifica. Che non sarebbe stato un viaggio facile lo sapevo ancor prima di partire e così è stato, porto a casa con me consapevolezza, rapporti umani significativi, ricordi belli e qualcuno meno, qualche incubo nuovo. Ora starà a me mettere a frutto quando visto e detto e se possibile trasmetterlo nella maniera più efficace possibile. Il mondo che conosco si è allargato e ristretto insieme, con questo viaggio, come l’ottimismo sulle sorti umane e del mondo, mica posso andare solo a Siena tutte le volte per farmi scaldare da forme e modi amichevoli e conosciute. Vedrò la prossima volta che strada piglio. Grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: cinque, segui l’oracolo

Dalla Tripolitania alla Cirenaica è cambiato anche il poliziotto che ci accompagna. Questo è lo Starsky di Cirene e fa video in continuazione, probabilmente per mostrare chi siamo e che facciamo. Amichevolmente. Da quel che spiega, lui è responsabile della nostra incolumità, non si capisce però se sia un modo per tenerci uniti in vista o ne risponda per davvero. Comunque, non è che ci sia da andare chissà dove.

Un albergo ad Apollonia che oltre a essere appena rinnovato è anche l’unico. L’idea del rinnovamento dipende chiaramente dal punto di partenza: questo dev’essere partito parecchio indietro. È tassativamente vietato uscire ma non è che venga tutta questa tentazione, tranne guardare un po’ quel mare che schiuma regolare contro le rovine della città antica e moderna. Vedi poi i casi della vita? Qui conosco – nell’unico albergo – un noto ex politico italiano, a lungo presidente del consiglio comunale di una grande città del nord, poi senatore, ed è la prima volta che incontro un piduista. Ma guarda te, venire in Cirenaica per fare di questi incontri, se c’è un significato giuro che non riesco, al momento, ad afferrarlo. Se c’è un Caso, esso si diverte.

La mattina dopo, e sono piuttosto emozionato, finalmente la capitale della pentapoli Cirene (Shahat). Vigliacco se in un ciclo scolastico qualsiasi qualche insegnante si fosse preso la briga di mostrarci sulla mappa dove fosse, macché, sempre un nome sospeso nell’aria e nel vuoto. La città è colossale, sterminata per l’epoca, poteva senz’altro rivaleggiare con Roma e Atene, basti dire che aveva cinque dico cinque teatri. La sola area sacra richiede alcune ore, il ginnasio è talmente esteso che smetto di contare le colonne, tutte doriche in queste città di origine greca in terra d’Africa, la vista sulla pianura sopra la necropoli rimanda a storie di millenni fa. Eratostene, vado a memoria perché quando non ci sono connessioni tocca farlo, era di qui e misurò le dimensioni della terra con precisione contemporanea, alla faccia di qualsiasi terrapiattista. Secondo Erodoto, Cirene fu fondata da coloni di Thera, Santorini, nel VII secolo a.C. che, su consiglio dell’oracolo di Delfi, per sfuggire a une terribile siccità partirono alla ricerca di nuove terre. La città legò il suo nome alla ninfa Cirene che sguazzava in una fonte sacra poi inserita nel
santuario di Apollo. Per quanto mi riguarda, nella mia personale collezione sta a fianco di Cartagine, Tebe, Petra, Leptis magna, Sabratha, el Jem, Thugga, per dirne alcune restando all’antico. Il suo tempio di Zeus è più grande del Partenone. Bum!

Da Cirene, appollaiata su un altopiano a ridosso del mare, si scende ad Apollonia (Marsa Susa), il suo porto. A dirla giusta, a Susa, la città bizantina, perché quella greca si trova in buona parte in mare, dopo il terremoto del IV secolo, come Alessandria. Un teatro greco magnifico scavato nelle rocce rosse oggi è a pochi metri dal mare, bellissimo ma senza senso poiché non si sentirebbe niente degli attori in scena. Sembra Red rocks. D’accordo, eccolo:

Non c’è nessuno. Già è difficile arrivare fin qui, poi non c’è turismo, non è raro che le persone ci chiedano di fare delle fotografie insieme, sorridenti e amichevoli. Le ragazze ci fotografano facendo finta di niente, impossibile chiedere. I bambini, più sfacciati, spesso mi circondano e una volta saputo il nome lo ripetono in corteo standomi attorno, un momento alibumaié, emozionante.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: quattro, dall’altra parte

Nel 2011 uno dei fedeli colonnelli del Colonnello, Khalifa Belqasim Haftar, Haftar per brevità, guidò non da solo e con il sostegno russo la rivolta contro il capo e scatenò la reazione delle forze lealiste che bombardarono lungamente Bengasi. La quale era stata già bombardata nel 1986 dagli Stati Uniti e attraverso due guerre civili, l’attentato di Al Qaeda all’ambasciata americana del 1992, le proteste all’ambasciata italiana dopo le provocazioni di Calderoli, è giunta così a essere un vero disastro.

Però c’è uno stadio nuovo e grande. Bengasi è la capitale del secondo stato, la Cirenaica, la parte est del paese, sotto il controllo del secondo presidente, il militare Haftar, come da cartelloni sparsi ovunque. La terza, il deserto interno, la terza regione, il Fezzan, chissà. Il volo da Tripoli a Bengasi, al netto delle altre ore all’aeroporto, è abbastanza tranquillo, sebbene io non ami per nulla i voli interni. Arriviamo col buio al centro di Bengasi e la distruzione non si percepisce, la mattina è un risveglio che definirei somaliano. Interi quartieri della città sono recintati perché distrutti o crivellati e le stesse recinzioni sono cadenti. Le strade occupate da catorci, non c’è un’auto sana, nessuna struttura riconoscibile come scuole, uffici, ospedali, polizia. Qualche rara farmacia, al massimo. A volte mi chiedo perché io non sia in Lettonia, in questo momento. Saperlo. La città storica era la nota Berenice, inutile cercare qualche traccia, ed era una delle cinque città della pentapoli cirenaica, ovvero le città fondate dai greci, anche tolemaidi di provenienza egizia, che fronteggiavano le città puniche sull’altro lato del golfo della Sirte.

Ci leviamo da Bengasi abbastanza rapidamente, essendo le attrattive ridottine, tagliando un pezzo all’interno verso un’altra città della pentapoli, Tolemaide, lo storico porto di Barca, oggi Al Marj. Molte di queste città furono abbandonate perché devastate dopo il tremendo terremoto del 365 dopo cristo, quello per capirci che fece crollare il faro di Alessandria. Alcune di esse ebbero poi una qualche fortuna sotto i bizantini e, temporaneamente, sotto Giustiniano. Tolemaide è una città abbandonata che fu grande, oltre trentamila abitanti al culmine, oggi ricoperta di terra ed eucalipti, capre e qualche ragazzino che vive chissà dove che continua a chiedermi uoziorneim?. Un enorme palazzo, chiamato delle colonne, dà mostra di sé e realizzo che ho visto finora migliaia di colonne integre, cosa che da noi non accade perché nei secoli altri se le accaparrarono. Qui no, sono ancora lì, a parte le seicentotrenta che Luigi XIV fece portare alla costruenda Versailles da Leptis magna.

Pochi anni fa Haftar mosse i suoi miliziani verso Tripoli e giunse quasi là a colpi di mitraglia, iniziando a bombardare. Poi si fermò e non è tutt’ora chiaro cosa intervenne. Il panorama della Cirenaica cambia pian piano e diventa sempre più verde, le sterpaglie diventano cespugli e appaiono alcuni pini a fianco degli eucalipti. Complessivamente diventa un territorio verde con una bella terra rossa e una certa quantità di acqua. Due anni fa si formò un uragano vero e proprio, lo chiamarono Daniel se non ricordo male, e fece crollare una diga in terrapieno causando una quantità tremenda di morti. I corsi asciutti dei torrenti suggeriscono che in certi momenti l’acqua sia davvero molta e irruenta. Un museetto che è più che altro un magazzino mostra l’alta qualità dei reperti, statue, mosaici, vasellame, chi lavora qui come archeologo ha dell’eroico. Attualmente una spedizione polacca collabora al recupero, va’ a sapere le dinamiche. Ogni tanto emerge sul mare o nei campi una commovente basilichina bizantina, in una di queste un magnifico mosaico mostra l’unica rappresentazione nota del faro di Alessandria, in molte altre appare una fede raccolta, modesta e orgogliosa.

Quella che integralisti, che per semplicità chiamerò Isis, non possono proprio sopportare e che devono, per forza, devastare, smontando e saltandoci sopra.

Un pastore di capre con il mitra, il pastore non le capre, macchia mediterranea, un tentativo chiaramente fallito di sviluppo turistico lungo il mare, che è oggettivamente splendido, strade costellate di dissuasori e buchi, qualche casa qua e là di cemento a vista e non finita, è già molto che ci sia un albergo aperto, qui, e che sia possibile starci. Un mercato con frutta, albicocche, arance, banane e mele, e frutta bella, zucchine, cipolle, zucche, pomodori, patate e molte molte molte scarpe. Sebbene ripetitivo, il cibo è semplice e buono, non fosse per il sempre maledetto pollo che compare dappertutto e che io non posso mangiare. Restano agnello e, in generale, delle ottime orate, solitamente accompagnate da riso o più raramente cous cous. A volte capita qualche tipo di variazione di hummus, stranamente nessuna oliva, si apre sempre con ottime zuppe di lenticchie o di carne, detta libica e un po’ piccante, o pesce.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: tre, legati a doppio filo

Dice Tahar Ben Jelloun che «La Libia non va realmente d’accordo con nessuno Stato» perché «il problema è che la Libia non è uno Stato, ma un coacervo di tribù, con due governi, di cui solo uno è riconosciuto dalle Nazioni Unite». Ecco il titolo. Tra i due governi nemmeno si riconoscono la moneta ma uno senza l’altro non avrebbe petrolio, gas e banche. Andiamo verso ovest, verso il confine tunisino, ad Az Zawiyah, una città al centro del traffico di droga, di esseri umani, di armi. Gli edifici sono crivellati di proiettili, mancano le strutture minime di una città, i negozi essenziali come le farmacie, ci sono solo ricambi per auto, parabrezza ammonticchiati. In giro per le strade un buon grado di mondezzaio e la sensazione chiara di essere controllati a vista. Da qui partono i barconi, per lo meno per la gran parte, e i centri di detenzione, dopo quelli nel deserto, sono qui attorno. E chi, chi gestisce tutto questo? La risposta dopo la foto.

Usāma al-Maṣrī Nağīm, conosciuto come Al Masri, prontamente liberato dal governo Meloni quando purtroppo hanno avuto la sfortuna di trovarsi la patata bollente tra le mani mentre, bel bello, lui usciva dallo Juventus stadium. Criminale internazionale, difficile dire quanti capi di imputazione gli siano riconducibili, non nego che arrestarlo e detenerlo possa essere una rogna ma anche sbarazzarsene al primo colpo di tosse è un pessimo modo. La giustizia e la dirittura morale, personale e collettiva, sono proprio un’altra cosa. Sarà forse perché lo paghiamo, come Stato, per trattenere i migranti nei centri e seviziarli? Sarà perché siamo sotto scacco? Proseguiamo qualche chilometro e sulla costa di Sabratha il gasdotto che va in Italia si immerge nel mare. Ecco. Dopo le sanzioni alla Russia e l’acquisto di gas ed energia differenziato, siamo noi a dipendere da loro. Altrimenti non si spiega.

La parte di Libia a ovest del golfo della Sirte, ovvero la Tripolitania, è nelle mani di cinque milizie in lotta tra loro, un caos significativo. Il presidente è un palazzinaro che sotto Gheddafi divenne molto ricco, riuscendo a prendere il potere con la corruzione alla caduta del colonnello. In Cirenaica, l’altra parte del paese, c’è un altro governo, al cui capo c’è un militare che tiene il controllo sulle milizie, un’altra capitale, Bengasi, un’altra moneta. L’accordo tra i due governi regge perché a Tripoli ci sono le strutture e le banche e il gas, a Bengasi il petrolio. C’è un parlamento unico che, evidentemente, non conta nulla. A Bengasi è molto forte l’influenza russa e le premesse di equilibrio non paiono solide, lo stesso capo del governo cirenaico ha provato di recente a esautorare il rivale. Bombardandolo.

Sabratha fu una delle tre città storiche della Tripolitania, anch’essa con una storia simile a Leptis magna: prima  insediamento commerciale fenicio, poi con Leptis Magna e Oea parte dell’impero di Cartagine e città romana nel 46 a.C. con la creazione della provincia d’Africa. Se Leptis magna di città imperiale, Sabratha fu uno dei poli commerciali per la sua posizione, connessa con l’interno dell’Africa e la costa mediterranea. Di fatto, la stessa che condiziona la situazione attuale e offre la via per il traffico di esseri umani da sud a nord. Vedere ‘Io capitano’, per questo. I resti sono sontuosi, enormi, anche qui gli ultimi scavi furono italiani e tutto è lasciato a sé stesso e, ciò nonostante, i colori, la posizione e la grandiosità della strutture hanno la meglio su incuria, malaffare e rifiuti.

Forse anche meglio di Leptis magna, da molti punti di vista. A questo punto, è necessario tornare rapidamente indietro, a Tripoli, che c’è da prendere un aereo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: due, magna mica per caso, comunisti

Il piano per quanto possibile è di girare un po’, per vedere l’effetto che fa. E se di Tripolitania si tratta, allora bisogna vedere almeno le tre città: la prima, Oea, oggi Tripoli, un po’ s’è dato, ci sarà tempo alla fine; la seconda, Leptis magna, la città imperiale di Settimio Severo, è la metà di oggi. Così possiamo vedere i centoquaranta chilometri di paese che la separano a est da Tripoli. Per carità, ci si vuole andare, ci mancherebbe, ma la destinazione turistica è anche una buona scusa per snasare in giro. Domani ancor più. La strada litoranea, la strada degli italiani, la Balbea che da Tripoli va fino a Tobruk dall’altra parte, è una camionabile a due corsie per percorrenza punteggiata di dissuasori alti così, una vera passione in Nordafrica. Alla corriera non entra la prima fin dalla prima periferia e a nulla servono le doppiette dell’autista; la leva del cambio sarà lunga sessanta centimetri, minimo, e questo pullmino avrà visto il re Idris se non il governatore italiano. Non meno dei dissuasori, i posti di blocco e i blindati al ciglio della strada. Il più delle volte nemmeno fermano ai blocchi, talvolta salgono in due, spesso uno in divisa, li preferisco, mi sembra che almeno due regole le abbiano, e uno in borghese, maglietta e scarpe da ginnastica, scrutano e guardano tra i sedili, poi scendono spesso senza una parola. Capire ogni volta di che banda siano immagino sia difficile anche per un libico.

“Comunisti”, dice Adel, il libico che ci accompagna, “Prima erano tutti comunisti, con quel comunista di Gheddafi”, si scalda. I comunisti, lo spauracchio di tutto il pianeta, ma ce ne fossero, almeno. Vero che il regime di Gheddafi, come spesso accade, qualche elemento socialista almeno di facciata nella prima parte dei Settanta, erano anni così, l’aveva. E sosteneva l’OLP di Arafat. Ma da qui al comunismo, ciao, Adel. E poi parte una filippica sull’attuale situazione per cui mi chiedo come mai i barconi non vadano nella direzione opposta, dall’Italia alla Libia: stipendi sontuosi per insegnanti e chi abbia voglia di fare, cicli scolastici tutti gratis, lavoro per tutti, automobili nuove e, come disse quello là, ristoranti pieni. E strade nuove costruite dai tedeschi, alberghi, grande ripresa lanciati verso la guida del mondo arabo. Quando arriva a dire che adesso adesso il presidente – non uno dei due, IL – indirà nuove elezioni perché il popolo stabilisca liberamente la forma di governo che desidera avere (dice monarchia, repubblica, anarchia) mi vien da ridere e smetto di ascoltare. Pubblicità di mattoni forati lungo la strada, il 20×40, il 24×36 e il 20×30, probabilmente il migliore. Ho appreso da poco che il piede greco era 29,6 centimetri e la coincidenza con l’A4 mi commuove.

Leptis magna è una città romana imperiale formidabile, enorme, prima punica e poi cartaginese. Ebbe oltre centomila abitanti sotto Settimio Severo, nato in città, fu all’altezza di Atene e Roma. Le rovine sono molto integre, grazie alla sabbia e all’abbandono, non vi furono costruite città sopra. Gli ultimi scavi, come praticamente ovunque in Libia, furono italiani durante il ventennio, si vedono ancora i binari con i carrelli per i lavori. Anche i musei, ovviamente chiusi, sono razionalisti o, al massimo, inizio modernisti. Gli scavi non solo non procedono ma sono fermi a percentuali minori, forse la metà della superficie della città. E fin qui le informazioni. Sicuro non si vedono stranieri da tempo, qui, il sito non è recintato, non c’è una vera biglietteria, nessun pannello esplicativo, i bidoni dei rifiuti traboccanti, volessi portarmi a casa un capitellone, non fosse per il peso, potrei. Impressionanti le dimensioni, il foro con tempio in testa e basilica in fondo è colossale, l’anfiteatro enorme e, con colpo di genio, prima cava e poi spazio pubblico, l’arco di SS con frontone tagliato un ardimento architettonico clamoroso, pura fantascienza contemporanea. Mio padre c’era venuto vent’anni fa, con tanto di libretto verde, mi riportò osservazioni analoghe, mi era rimasto il desiderio. La città, come l’altra della triade della Tripolitania, fu abbandonata alla caduta dell’impero d’Occidente perché, soprattutto, il porto si insabbiò. Mai nessuno che ascolti Vitruvio. La guida locale parla un italiano perfetto con proprietà e competenza, qui tutti qualche parola la sanno, i vecchiotti parlano.

Al ritorno è una sequela di posti di blocco, non sono avvezzi agli europei e stranieri in generale, per alcune generazioni di bimbi siamo sicuramente tra i primi, è solo da gennaio di quest’anno che hanno riaperto i voli. Mi inquieto un po’ quando salgono due armati, vestiti completamente di nero con passamontagna e tuta protettiva, a metà tra black block e swat. Non lo colloco, difficile farlo, le attrezzature e l’auto sono nuovi e costosi. Si limitano come gli altri a guardare tra i sedili, cercando immagino persone nascoste. Mentre aspetto e sbircio di sottecchi, ripasso la storia coloniale italiana in Libia: l’inizio è liberale, con Giolitti, il cui governo intraprese una guerra che di fatto fu combattuta prima contro la resistenza anti-coloniale turco-libica e poi solo libica. Con il trattato di Ouchy, nell’ottobre 1912, Costantinopoli si impegnò a ritirare i propri ufficiali e la Libia poté essere annessa all’Italia. Se durante la prima guerra mondiale la presenza italiana fu respinta in poche zone lungo la costa, dal 1922 con il fascismo fu intrapresa una lunga campagna di conquista per la repressione dei ribelli e dei civili libici durante la cosiddetta “riconquista della Libia”. Nel 1934 Cirenaica e Tripolitania furono unificate nel governatorato generale della Libia italiana. Cioè Balbo. Nel frattempo, i tizi neri neri scendono e se ne vanno. Bene. Poi il pullmino si rompe, quelle marce lo dicevano da un bel po’. Ma siamo a cinque chilometri da Tripoli, giù e si può fare a piedi.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: uno, primo assaggio

Sorvolo un mare azzurro, bellissimo, piatto e tranquillo. Da sempre ho immaginato traffici e scambi, anfore di olio e vino, grano, marmi rossi egiziani, legnami, persino obelischi sdraiati, merci e mercanti. Oggi no, guardo giù e penso ai barconi, ormai per antonomasia, strabordanti di migranti e lì è notte, fa freddo, il mare è agitato, vanno in direzione inversa alla mia e, soprattutto, sono in acqua. Non come oggi che tutto riluccica e suggerisce solo benessere.

All’aeroporto di Tripoli Mitiga, dopo aver zigzagato tra relitti di aerei di fusoliera sovietica, ci vogliono quattro ore per il controllo dei passaporti e dei visti. Il contatto locale sta al telefono e non pare sereno, il pacchetto di documenti è stato preso da uno con una gran barba e portato via. Pare che il direttore dell’aeroporto voglia un elenco delle nostre generalità ma non come quello che abbiamo consegnato, più bello, più in ordine alfabetico, più discendente. Niente di nuovo, sono piccoli esercizi di potere locale e miserabile, almeno a differenza del Tajikistan non ci sono quarantasette gradi e siamo al coperto. Sei mesi fa qui si sono sparati con gli AK47 e le camionette con sopra i fucili da assalto che si vedono a lato di ogni strada principale per il controllo dell’aeroporto, quindi direi tutto bene, ora. Ci hanno già affibbiato un militare, anzi un poliziotto. Ma non normale, uno della polizia politica e, attaccatosi come una patella, dovrà seguirci ovunque. E non potremo girare senza di lui, quando è stanco e vorrà andare a casa, noi pure. Non a casa sua.

Tutta questa attesa per avere un timbro sul passaporto che, scopro ora, mi impedirà d’ora in poi di chiedere il permesso di entrata negli Stati Uniti, se non previo colloquio al consolato americano di Roma. Vabbè, una cosa alla volta. Ho il timbro, il passaporto, il visto è sparito, il poliziotto c’è, ci salutiamo pure, è ora di fare altre operazioni preliminari. Il contatto libico arriva con una bustona di carta piena di dinari in banconote da dieci, il cambio è uno a cinque, dice che se vogliamo cercarci un cambio a otto nella città vecchia, liberi. Va bene cinque. Carte di credito non se ne parla, non ne prendono da nessuna parte, vogliono la valuta buona. Oggi è un prefestivo, domani è venerdì, lungo la strada lungo la costa, la Balbea al tempo, edifici in stile calabrese, coi ferri a vista, si snodano verso l’interno. Sulla spiaggia macerie di stabilimenti balneari chiaramente spianati con le ruspe, qua e là enormi edifici abbandonati, mostri scheletrici di cemento armato, fermi dal 2011, dalla caduta di Gheddafi. Da allora, due guerre civili e l’attuale divisione del paese in due, con il caos o quasi a ovest, in Tripolitania.

Agli angoli della Tripoli vecchia le colonne romane di risulta della vecchia Oea sono incastonate negli intonaci, i vicoli e il suq richiamano Tunisi, vicinissima in linea d’aria, la zona attorno all’arco di Marco Aurelio mantiene un certo fascino nonostante tutto. È piccola, fino alla piazza dei Martiri una volta Verde ai tempi di Gheddafi, il verde era il suo colore fin dal libretto, passando davanti al palazzetto della Banca di Roma, utilizzato proprio ai tempi dello scandalo. Ciò che rende tutto più piacevole sono i colori, il mare verde e blu, il cielo senza una nuvola, pare di essere a Bari. Appena superato il confine della città vecchia, poca, alcuni edifici della città razionalista dell’Italia liberale prima e poi di quella fascista coloniale e poi una sterminata pianura di case a un piano e mezzo o condomini fatte di forati e cemento armato. Nessuna finita. Sotto il Castello Rosso – il museo archeologico nazionale è chiuso dal 2011 come tutti i musei, comincia a diventare una data spartiacque – un enorme assembramento di persone compresse al cui centro ci sono alcune mani levate che fanno numeri è il luogo delle contrattazioni. Di che? chiedo, Di tutto, mi rispondono evasivi e ci invitano a girarci attorno. Due giovani uomini si dividono sul sellino di una motoretta un mazzo di euro in banconote che sarà come minimo il mio stipendio di un anno. In una fila di garage con adesivi di cambio e invio di moneta persone gestiscono quantità significative di carta moneta, molti dollari. Qualche baracchino vende il tè e una bevanda strepitosa: limonata con menta, eccellente, d’estate dev’essere il meglio del meglio.


zero | uno | due | tre | quattro | cinque | sei

minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: zero, ci giro attorno senza dire dove

Ci sono viaggi che uno – cioè, io – fa per andare nei posti belli, che so?, Patagonia, e altri per andare nei posti complicati, dico per esempio Giordania, per capirci un po’ di più. E, magari magari, fare qualcosa di utile, da non buttar via almeno. Questo è uno di quelli, dei secondi.

Le premesse non sono piane, diciamo, a partire dall’unica guida che ho, una guida in inglese del 2008; non sarebbe nemmeno grave se andassi in un paese stabile, l’Australia che è così dal paleozoico, gli Stati Uniti, per ora, qualche nome, qualche informazione e bon, capirai. No, qui tra il 2008 e oggi è successo di tutto, due guerre civili, non c’è nemmeno la stessa forma di governo, a riuscire a capire quale sia l’attuale è una bella scommessa, credo un governo di unità nazionale. Anzi no, dal 2022 il governo si chiama di stabilità, Government of National Stability. Anzi no, ancora, coesistono, il paese è diviso e le ultime elezioni sono del 2014. Fuori dalla portata della mia guida, comunque.
Se la situazione politica non è lineare, non lo sono nemmeno le infrastrutture: faccio una ricerca priva di speranze di un’esim e così è, vana. Mi imbatto in un sito di una compagnia telefonica che le promette in inglese e, cliccando, mi manda su queste due pagine inaggirabili se non riesco a capire nemmeno cosa stia acquistando:

Anche la compatibilità generale delle strutture di base è bassina, per esempio mi chiedo questa cosa diavolo è?

Una presa, certo, codifica internazionale D. Mai vista. Anche il voltaggio è balengo e tocca verificarlo, 127 e 230 V, a seconda, dichiarato instabile. Vabbè, ma che problema c’è? Mica siam qui a lamentarci, più è variegato e più è bello. Ma no, ma no, io non sono qui per il bello, non son qui per fare il turista, non son qui per svago: sono qui per dare un contorno a ciò che leggo, che sento, per cui provo pena e dolore, per capire qualcosa, qualcosina di più. Son qui per capire qualcosa di più anche, se ve ne sarà occasione, delle zone coloniali e delle zone archeologiche, quelle che sarà possibile vedere o intravedere. Ma lo scopo vero del viaggio è stabilire relazioni con i contatti che abbiamo, creare canali di comunicazione e di supporto, incontrare persone che raccontino il proprio punto di vista sulla situazione attuale, critica mica poco sulla terra e in quel mare che ci sta davanti.
Se dalla Giordania, per capire qualcosa di Gaza e Israele oggi, sono tornato sconsolato e rassegnato per l’evidente impossibilità di risolvere stabilmente la situazione se non con tregue di compromesso, la cosa è chiara persino a me, posso immaginare che tornerò con lo stesso sentimento da qui, data la complessità degli interessi che si intersecano. Tornerò con qualche incubo nuovo, in più, sicuro. Però, come là, tornerò con maggiore consapevolezza del mondo che abito, un poco di più, non voglio né rifiutare ciò che è sotto i nostri occhi né, scioccamente, fare tour dell’orrore, per il piacere morboso di esserci stato o di correre qualche rischio inutile. Voglio dare un contorno, farmi spiegare direttamente, dare quel che posso in loco e tornare sapendo che, forse, qualcosa posso fare. E, magari chissà, farlo.


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