minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: quattro, dall’altra parte

Nel 2011 uno dei fedeli colonnelli del Colonnello, Khalifa Belqasim Haftar, Haftar per brevità, guidò non da solo e con il sostegno russo la rivolta contro il capo e scatenò la reazione delle forze lealiste che bombardarono lungamente Bengasi. La quale era stata già bombardata nel 1986 dagli Stati Uniti e attraverso due guerre civili, l’attentato di Al Qaeda all’ambasciata americana del 1992, le proteste all’ambasciata italiana dopo le provocazioni di Calderoli, è giunta così a essere un vero disastro.

Però c’è uno stadio nuovo e grande. Bengasi è la capitale del secondo stato, la Cirenaica, la parte est del paese, sotto il controllo del secondo presidente, il militare Haftar, come da cartelloni sparsi ovunque. La terza, il deserto interno, la terza regione, il Fezzan, chissà. Il volo da Tripoli a Bengasi, al netto delle altre ore all’aeroporto, è abbastanza tranquillo, sebbene io non ami per nulla i voli interni. Arriviamo col buio al centro di Bengasi e la distruzione non si percepisce, la mattina è un risveglio che definirei somaliano. Interi quartieri della città sono recintati perché distrutti o crivellati e le stesse recinzioni sono cadenti. Le strade occupate da catorci, non c’è un’auto sana, nessuna struttura riconoscibile come scuole, uffici, ospedali, polizia. Qualche rara farmacia, al massimo. A volte mi chiedo perché io non sia in Lettonia, in questo momento. Saperlo. La città storica era la nota Berenice, inutile cercare qualche traccia, ed era una delle cinque città della pentapoli cirenaica, ovvero le città fondate dai greci, anche tolemaidi di provenienza egizia, che fronteggiavano le città puniche sull’altro lato del golfo della Sirte.

Ci leviamo da Bengasi abbastanza rapidamente, essendo le attrattive ridottine, tagliando un pezzo all’interno verso un’altra città della pentapoli, Tolemaide, lo storico porto di Barca, oggi Al Marj. Molte di queste città furono abbandonate perché devastate dopo il tremendo terremoto del 365 dopo cristo, quello per capirci che fece crollare il faro di Alessandria. Alcune di esse ebbero poi una qualche fortuna sotto i bizantini e, temporaneamente, sotto Giustiniano. Tolemaide è una città abbandonata che fu grande, oltre trentamila abitanti al culmine, oggi ricoperta di terra ed eucalipti, capre e qualche ragazzino che vive chissà dove che continua a chiedermi uoziorneim?. Un enorme palazzo, chiamato delle colonne, dà mostra di sé e realizzo che ho visto finora migliaia di colonne integre, cosa che da noi non accade perché nei secoli altri se le accaparrarono. Qui no, sono ancora lì, a parte le seicentotrenta che Luigi XIV fece portare alla costruenda Versailles da Leptis magna.

Pochi anni fa Haftar mosse i suoi miliziani verso Tripoli e giunse quasi là a colpi di mitraglia, iniziando a bombardare. Poi si fermò e non è tutt’ora chiaro cosa intervenne. Il panorama della Cirenaica cambia pian piano e diventa sempre più verde, le sterpaglie diventano cespugli e appaiono alcuni pini a fianco degli eucalipti. Complessivamente diventa un territorio verde con una bella terra rossa e una certa quantità di acqua. Due anni fa si formò un uragano vero e proprio, lo chiamarono Daniel se non ricordo male, e fece crollare una diga in terrapieno causando una quantità tremenda di morti. I corsi asciutti dei torrenti suggeriscono che in certi momenti l’acqua sia davvero molta e irruenta. Un museetto che è più che altro un magazzino mostra l’alta qualità dei reperti, statue, mosaici, vasellame, chi lavora qui come archeologo ha dell’eroico. Attualmente una spedizione polacca collabora al recupero, va’ a sapere le dinamiche. Ogni tanto emerge sul mare o nei campi una commovente basilichina bizantina, in una di queste un magnifico mosaico mostra l’unica rappresentazione nota del faro di Alessandria, in molte altre appare una fede raccolta, modesta e orgogliosa.

Quella che integralisti, che per semplicità chiamerò Isis, non possono proprio sopportare e che devono, per forza, devastare, smontando e saltandoci sopra.

Un pastore di capre con il mitra, il pastore non le capre, macchia mediterranea, un tentativo chiaramente fallito di sviluppo turistico lungo il mare, che è oggettivamente splendido, strade costellate di dissuasori e buchi, qualche casa qua e là di cemento a vista e non finita, è già molto che ci sia un albergo aperto, qui, e che sia possibile starci. Un mercato con frutta, albicocche, arance, banane e mele, e frutta bella, zucchine, cipolle, zucche, pomodori, patate e molte molte molte scarpe. Sebbene ripetitivo, il cibo è semplice e buono, non fosse per il sempre maledetto pollo che compare dappertutto e che io non posso mangiare. Restano agnello e, in generale, delle ottime orate, solitamente accompagnate da riso o più raramente cous cous. A volte capita qualche tipo di variazione di hummus, stranamente nessuna oliva, si apre sempre con ottime zuppe di lenticchie o di carne, detta libica e un po’ piccante, o pesce.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: tre, legati a doppio filo

Dice Tahar Ben Jelloun che «La Libia non va realmente d’accordo con nessuno Stato» perché «il problema è che la Libia non è uno Stato, ma un coacervo di tribù, con due governi, di cui solo uno è riconosciuto dalle Nazioni Unite». Ecco il titolo. Tra i due governi nemmeno si riconoscono la moneta ma uno senza l’altro non avrebbe petrolio, gas e banche. Andiamo verso ovest, verso il confine tunisino, ad Az Zawiyah, una città al centro del traffico di droga, di esseri umani, di armi. Gli edifici sono crivellati di proiettili, mancano le strutture minime di una città, i negozi essenziali come le farmacie, ci sono solo ricambi per auto, parabrezza ammonticchiati. In giro per le strade un buon grado di mondezzaio e la sensazione chiara di essere controllati a vista. Da qui partono i barconi, per lo meno per la gran parte, e i centri di detenzione, dopo quelli nel deserto, sono qui attorno. E chi, chi gestisce tutto questo? La risposta dopo la foto.

Usāma al-Maṣrī Nağīm, conosciuto come Al Masri, prontamente liberato dal governo Meloni quando purtroppo hanno avuto la sfortuna di trovarsi la patata bollente tra le mani mentre, bel bello, lui usciva dallo Juventus stadium. Criminale internazionale, difficile dire quanti capi di imputazione gli siano riconducibili, non nego che arrestarlo e detenerlo possa essere una rogna ma anche sbarazzarsene al primo colpo di tosse è un pessimo modo. La giustizia e la dirittura morale, personale e collettiva, sono proprio un’altra cosa. Sarà forse perché lo paghiamo, come Stato, per trattenere i migranti nei centri e seviziarli? Sarà perché siamo sotto scacco? Proseguiamo qualche chilometro e sulla costa di Sabratha il gasdotto che va in Italia si immerge nel mare. Ecco. Dopo le sanzioni alla Russia e l’acquisto di gas ed energia differenziato, siamo noi a dipendere da loro. Altrimenti non si spiega.

La parte di Libia a ovest del golfo della Sirte, ovvero la Tripolitania, è nelle mani di cinque milizie in lotta tra loro, un caos significativo. Il presidente è un palazzinaro che sotto Gheddafi divenne molto ricco, riuscendo a prendere il potere con la corruzione alla caduta del colonnello. In Cirenaica, l’altra parte del paese, c’è un altro governo, al cui capo c’è un militare che tiene il controllo sulle milizie, un’altra capitale, Bengasi, un’altra moneta. L’accordo tra i due governi regge perché a Tripoli ci sono le strutture e le banche e il gas, a Bengasi il petrolio. C’è un parlamento unico che, evidentemente, non conta nulla. A Bengasi è molto forte l’influenza russa e le premesse di equilibrio non paiono solide, lo stesso capo del governo cirenaico ha provato di recente a esautorare il rivale. Bombardandolo.

Sabratha fu una delle tre città storiche della Tripolitania, anch’essa con una storia simile a Leptis magna: prima  insediamento commerciale fenicio, poi con Leptis Magna e Oea parte dell’impero di Cartagine e città romana nel 46 a.C. con la creazione della provincia d’Africa. Se Leptis magna di città imperiale, Sabratha fu uno dei poli commerciali per la sua posizione, connessa con l’interno dell’Africa e la costa mediterranea. Di fatto, la stessa che condiziona la situazione attuale e offre la via per il traffico di esseri umani da sud a nord. Vedere ‘Io capitano’, per questo. I resti sono sontuosi, enormi, anche qui gli ultimi scavi furono italiani e tutto è lasciato a sé stesso e, ciò nonostante, i colori, la posizione e la grandiosità della strutture hanno la meglio su incuria, malaffare e rifiuti.

Forse anche meglio di Leptis magna, da molti punti di vista. A questo punto, è necessario tornare rapidamente indietro, a Tripoli, che c’è da prendere un aereo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: due, magna mica per caso, comunisti

Il piano per quanto possibile è di girare un po’, per vedere l’effetto che fa. E se di Tripolitania si tratta, allora bisogna vedere almeno le tre città: la prima, Oea, oggi Tripoli, un po’ s’è dato, ci sarà tempo alla fine; la seconda, Leptis magna, la città imperiale di Settimio Severo, è la metà di oggi. Così possiamo vedere i centoquaranta chilometri di paese che la separano a est da Tripoli. Per carità, ci si vuole andare, ci mancherebbe, ma la destinazione turistica è anche una buona scusa per snasare in giro. Domani ancor più. La strada litoranea, la strada degli italiani, la Balbea che da Tripoli va fino a Tobruk dall’altra parte, è una camionabile a due corsie per percorrenza punteggiata di dissuasori alti così, una vera passione in Nordafrica. Alla corriera non entra la prima fin dalla prima periferia e a nulla servono le doppiette dell’autista; la leva del cambio sarà lunga sessanta centimetri, minimo, e questo pullmino avrà visto il re Idris se non il governatore italiano. Non meno dei dissuasori, i posti di blocco e i blindati al ciglio della strada. Il più delle volte nemmeno fermano ai blocchi, talvolta salgono in due, spesso uno in divisa, li preferisco, mi sembra che almeno due regole le abbiano, e uno in borghese, maglietta e scarpe da ginnastica, scrutano e guardano tra i sedili, poi scendono spesso senza una parola. Capire ogni volta di che banda siano immagino sia difficile anche per un libico.

“Comunisti”, dice Adel, il libico che ci accompagna, “Prima erano tutti comunisti, con quel comunista di Gheddafi”, si scalda. I comunisti, lo spauracchio di tutto il pianeta, ma ce ne fossero, almeno. Vero che il regime di Gheddafi, come spesso accade, qualche elemento socialista almeno di facciata nella prima parte dei Settanta, erano anni così, l’aveva. E sosteneva l’OLP di Arafat. Ma da qui al comunismo, ciao, Adel. E poi parte una filippica sull’attuale situazione per cui mi chiedo come mai i barconi non vadano nella direzione opposta, dall’Italia alla Libia: stipendi sontuosi per insegnanti e chi abbia voglia di fare, cicli scolastici tutti gratis, lavoro per tutti, automobili nuove e, come disse quello là, ristoranti pieni. E strade nuove costruite dai tedeschi, alberghi, grande ripresa lanciati verso la guida del mondo arabo. Quando arriva a dire che adesso adesso il presidente – non uno dei due, IL – indirà nuove elezioni perché il popolo stabilisca liberamente la forma di governo che desidera avere (dice monarchia, repubblica, anarchia) mi vien da ridere e smetto di ascoltare. Pubblicità di mattoni forati lungo la strada, il 20×40, il 24×36 e il 20×30, probabilmente il migliore. Ho appreso da poco che il piede greco era 29,6 centimetri e la coincidenza con l’A4 mi commuove.

Leptis magna è una città romana imperiale formidabile, enorme, prima punica e poi cartaginese. Ebbe oltre centomila abitanti sotto Settimio Severo, nato in città, fu all’altezza di Atene e Roma. Le rovine sono molto integre, grazie alla sabbia e all’abbandono, non vi furono costruite città sopra. Gli ultimi scavi, come praticamente ovunque in Libia, furono italiani durante il ventennio, si vedono ancora i binari con i carrelli per i lavori. Anche i musei, ovviamente chiusi, sono razionalisti o, al massimo, inizio modernisti. Gli scavi non solo non procedono ma sono fermi a percentuali minori, forse la metà della superficie della città. E fin qui le informazioni. Sicuro non si vedono stranieri da tempo, qui, il sito non è recintato, non c’è una vera biglietteria, nessun pannello esplicativo, i bidoni dei rifiuti traboccanti, volessi portarmi a casa un capitellone, non fosse per il peso, potrei. Impressionanti le dimensioni, il foro con tempio in testa e basilica in fondo è colossale, l’anfiteatro enorme e, con colpo di genio, prima cava e poi spazio pubblico, l’arco di SS con frontone tagliato un ardimento architettonico clamoroso, pura fantascienza contemporanea. Mio padre c’era venuto vent’anni fa, con tanto di libretto verde, mi riportò osservazioni analoghe, mi era rimasto il desiderio. La città, come l’altra della triade della Tripolitania, fu abbandonata alla caduta dell’impero d’Occidente perché, soprattutto, il porto si insabbiò. Mai nessuno che ascolti Vitruvio. La guida locale parla un italiano perfetto con proprietà e competenza, qui tutti qualche parola la sanno, i vecchiotti parlano.

Al ritorno è una sequela di posti di blocco, non sono avvezzi agli europei e stranieri in generale, per alcune generazioni di bimbi siamo sicuramente tra i primi, è solo da gennaio di quest’anno che hanno riaperto i voli. Mi inquieto un po’ quando salgono due armati, vestiti completamente di nero con passamontagna e tuta protettiva, a metà tra black block e swat. Non lo colloco, difficile farlo, le attrezzature e l’auto sono nuovi e costosi. Si limitano come gli altri a guardare tra i sedili, cercando immagino persone nascoste. Mentre aspetto e sbircio di sottecchi, ripasso la storia coloniale italiana in Libia: l’inizio è liberale, con Giolitti, il cui governo intraprese una guerra che di fatto fu combattuta prima contro la resistenza anti-coloniale turco-libica e poi solo libica. Con il trattato di Ouchy, nell’ottobre 1912, Costantinopoli si impegnò a ritirare i propri ufficiali e la Libia poté essere annessa all’Italia. Se durante la prima guerra mondiale la presenza italiana fu respinta in poche zone lungo la costa, dal 1922 con il fascismo fu intrapresa una lunga campagna di conquista per la repressione dei ribelli e dei civili libici durante la cosiddetta “riconquista della Libia”. Nel 1934 Cirenaica e Tripolitania furono unificate nel governatorato generale della Libia italiana. Cioè Balbo. Nel frattempo, i tizi neri neri scendono e se ne vanno. Bene. Poi il pullmino si rompe, quelle marce lo dicevano da un bel po’. Ma siamo a cinque chilometri da Tripoli, giù e si può fare a piedi.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: uno, primo assaggio

Sorvolo un mare azzurro, bellissimo, piatto e tranquillo. Da sempre ho immaginato traffici e scambi, anfore di olio e vino, grano, marmi rossi egiziani, legnami, persino obelischi sdraiati, merci e mercanti. Oggi no, guardo giù e penso ai barconi, ormai per antonomasia, strabordanti di migranti e lì è notte, fa freddo, il mare è agitato, vanno in direzione inversa alla mia e, soprattutto, sono in acqua. Non come oggi che tutto riluccica e suggerisce solo benessere.

All’aeroporto di Tripoli Mitiga, dopo aver zigzagato tra relitti di aerei di fusoliera sovietica, ci vogliono quattro ore per il controllo dei passaporti e dei visti. Il contatto locale sta al telefono e non pare sereno, il pacchetto di documenti è stato preso da uno con una gran barba e portato via. Pare che il direttore dell’aeroporto voglia un elenco delle nostre generalità ma non come quello che abbiamo consegnato, più bello, più in ordine alfabetico, più discendente. Niente di nuovo, sono piccoli esercizi di potere locale e miserabile, almeno a differenza del Tajikistan non ci sono quarantasette gradi e siamo al coperto. Sei mesi fa qui si sono sparati con gli AK47 e le camionette con sopra i fucili da assalto che si vedono a lato di ogni strada principale per il controllo dell’aeroporto, quindi direi tutto bene, ora. Ci hanno già affibbiato un militare, anzi un poliziotto. Ma non normale, uno della polizia politica e, attaccatosi come una patella, dovrà seguirci ovunque. E non potremo girare senza di lui, quando è stanco e vorrà andare a casa, noi pure. Non a casa sua.

Tutta questa attesa per avere un timbro sul passaporto che, scopro ora, mi impedirà d’ora in poi di chiedere il permesso di entrata negli Stati Uniti, se non previo colloquio al consolato americano di Roma. Vabbè, una cosa alla volta. Ho il timbro, il passaporto, il visto è sparito, il poliziotto c’è, ci salutiamo pure, è ora di fare altre operazioni preliminari. Il contatto libico arriva con una bustona di carta piena di dinari in banconote da dieci, il cambio è uno a cinque, dice che se vogliamo cercarci un cambio a otto nella città vecchia, liberi. Va bene cinque. Carte di credito non se ne parla, non ne prendono da nessuna parte, vogliono la valuta buona. Oggi è un prefestivo, domani è venerdì, lungo la strada lungo la costa, la Balbea al tempo, edifici in stile calabrese, coi ferri a vista, si snodano verso l’interno. Sulla spiaggia macerie di stabilimenti balneari chiaramente spianati con le ruspe, qua e là enormi edifici abbandonati, mostri scheletrici di cemento armato, fermi dal 2011, dalla caduta di Gheddafi. Da allora, due guerre civili e l’attuale divisione del paese in due, con il caos o quasi a ovest, in Tripolitania.

Agli angoli della Tripoli vecchia le colonne romane di risulta della vecchia Oea sono incastonate negli intonaci, i vicoli e il suq richiamano Tunisi, vicinissima in linea d’aria, la zona attorno all’arco di Marco Aurelio mantiene un certo fascino nonostante tutto. È piccola, fino alla piazza dei Martiri una volta Verde ai tempi di Gheddafi, il verde era il suo colore fin dal libretto, passando davanti al palazzetto della Banca di Roma, utilizzato proprio ai tempi dello scandalo. Ciò che rende tutto più piacevole sono i colori, il mare verde e blu, il cielo senza una nuvola, pare di essere a Bari. Appena superato il confine della città vecchia, poca, alcuni edifici della città razionalista dell’Italia liberale prima e poi di quella fascista coloniale e poi una sterminata pianura di case a un piano e mezzo o condomini fatte di forati e cemento armato. Nessuna finita. Sotto il Castello Rosso – il museo archeologico nazionale è chiuso dal 2011 come tutti i musei, comincia a diventare una data spartiacque – un enorme assembramento di persone compresse al cui centro ci sono alcune mani levate che fanno numeri è il luogo delle contrattazioni. Di che? chiedo, Di tutto, mi rispondono evasivi e ci invitano a girarci attorno. Due giovani uomini si dividono sul sellino di una motoretta un mazzo di euro in banconote che sarà come minimo il mio stipendio di un anno. In una fila di garage con adesivi di cambio e invio di moneta persone gestiscono quantità significative di carta moneta, molti dollari. Qualche baracchino vende il tè e una bevanda strepitosa: limonata con menta, eccellente, d’estate dev’essere il meglio del meglio.


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minidiario scritto un po’ così di un giro nel paese che non va d’accordo con nessuno: zero, ci giro attorno senza dire dove

Ci sono viaggi che uno – cioè, io – fa per andare nei posti belli, che so?, Patagonia, e altri per andare nei posti complicati, dico per esempio Giordania, per capirci un po’ di più. E, magari magari, fare qualcosa di utile, da non buttar via almeno. Questo è uno di quelli, dei secondi.

Le premesse non sono piane, diciamo, a partire dall’unica guida che ho, una guida in inglese del 2008; non sarebbe nemmeno grave se andassi in un paese stabile, l’Australia che è così dal paleozoico, gli Stati Uniti, per ora, qualche nome, qualche informazione e bon, capirai. No, qui tra il 2008 e oggi è successo di tutto, due guerre civili, non c’è nemmeno la stessa forma di governo, a riuscire a capire quale sia l’attuale è una bella scommessa, credo un governo di unità nazionale. Anzi no, dal 2022 il governo si chiama di stabilità, Government of National Stability. Anzi no, ancora, coesistono, il paese è diviso e le ultime elezioni sono del 2014. Fuori dalla portata della mia guida, comunque.
Se la situazione politica non è lineare, non lo sono nemmeno le infrastrutture: faccio una ricerca priva di speranze di un’esim e così è, vana. Mi imbatto in un sito di una compagnia telefonica che le promette in inglese e, cliccando, mi manda su queste due pagine inaggirabili se non riesco a capire nemmeno cosa stia acquistando:

Anche la compatibilità generale delle strutture di base è bassina, per esempio mi chiedo questa cosa diavolo è?

Una presa, certo, codifica internazionale D. Mai vista. Anche il voltaggio è balengo e tocca verificarlo, 127 e 230 V, a seconda, dichiarato instabile. Vabbè, ma che problema c’è? Mica siam qui a lamentarci, più è variegato e più è bello. Ma no, ma no, io non sono qui per il bello, non son qui per fare il turista, non son qui per svago: sono qui per dare un contorno a ciò che leggo, che sento, per cui provo pena e dolore, per capire qualcosa, qualcosina di più. Son qui per capire qualcosa di più anche, se ve ne sarà occasione, delle zone coloniali e delle zone archeologiche, quelle che sarà possibile vedere o intravedere. Ma lo scopo vero del viaggio è stabilire relazioni con i contatti che abbiamo, creare canali di comunicazione e di supporto, incontrare persone che raccontino il proprio punto di vista sulla situazione attuale, critica mica poco sulla terra e in quel mare che ci sta davanti.
Se dalla Giordania, per capire qualcosa di Gaza e Israele oggi, sono tornato sconsolato e rassegnato per l’evidente impossibilità di risolvere stabilmente la situazione se non con tregue di compromesso, la cosa è chiara persino a me, posso immaginare che tornerò con lo stesso sentimento da qui, data la complessità degli interessi che si intersecano. Tornerò con qualche incubo nuovo, in più, sicuro. Però, come là, tornerò con maggiore consapevolezza del mondo che abito, un poco di più, non voglio né rifiutare ciò che è sotto i nostri occhi né, scioccamente, fare tour dell’orrore, per il piacere morboso di esserci stato o di correre qualche rischio inutile. Voglio dare un contorno, farmi spiegare direttamente, dare quel che posso in loco e tornare sapendo che, forse, qualcosa posso fare. E, magari chissà, farlo.


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oggi qui si festeggiano i cosmonauti

Oggi è il giorno del cosmonauta ed è giorno di festa, qui. Ricordo che non basta fare il corso per essere cosmonauti, bisogna proprio esserci stati. E Yuri ci fu, perdio, eccome, il 12 aprile 1961, come annuncia festante il Daily Worker del giorno dopo.

E allora per far festa, su subito Gagarin dei Public Service Broadcasting, che ascolto a volume alto e il cui video mi fa ridere parecchio:

Evviva i cosmonauti, evviva il comunismo, evviva chi si è sposato oggi e pace per tutte le donne e gli uomini della terra.

la felicità è un diritto di tutti

Oppure: perché usare il cavo FG17 al posto del FG17? O ancora: è giusto cambiare un Differenziale di Tipo AC o Tipo A con uno di Tipo F? Eh, sì, no, chissà. Saperlo. Siccome, però, c’è un sogno per ogni persona, una storia per ogni individuo, c’è anche un podcast per ogni crapa: ‘elettricista felice‘ di Alessandro Bari è il podcast “di idee, novità e cazzeggio per elettricisti felici”.

Sottotitolo: “Che guardi su YouTube ed ascolti su Spotify mentre guidi il furgone”, ovviamente bianco. A un centimetro dal mio baule a centoquaranta all’ora, ci scommetto.

minidiario scritto un po’ così di un breve giro yorkshiriano: quattro, è possibile nutrirsi in maniera più equilibrata e sensata?

Presente quei musei in cui all’inizio della parete c’è un disegnino che riproduce le posizioni dei quadri numerati e che riporta tutte le didascalie insieme? Io li trovo di una scomodità estrema anche se, in effetti, mi costringono a guardare le opere come dovrei fare sempre, disinteressandomi della notorietà dell’autore e valutandole per il loro valore intrinseco. Comunque, la Graves gallery di Sheffield è organizzata così e trattandosi della collezione del signor Graves, ricco mecenate che, caso raro a Sheffield, fece fortuna non con l’acciaio ma con la posta, c’è di tutto, accostato senza remore cronologiche.

Mi accorgo di una cosa, finisco con calma il mio giro mentre organizzo mentalmente la complessa spiegazione e poi avvicino l’impiegata alla porta: salve, stavo osservando le due stampe di Dürer e mi sono accorto che sono invertSaynomore, mi dice allargandosi in un sorriso di soddisfazione, lo sa e da tempo ha segnalato la cosa. Si alza e mi stringe con convinzione la mano e, non placata, chiama la direttrice, anch’essa prodiga di pubbliche manifestazioni di affetto, contenta forse che qualcuno abbia guardato la loro collezione con un minimo di attenzione. Le due xilografie di Dürer sono invertite rispetto allo schemino delle didascalie, io che sono cresciuto nel brodo primordiale del cattolicesimo romano ben distinguo un Noli me tangere da una cacciata di Adamo ed Eva, non che serva molto. Lo sanno, evidentemente stanno attendendo il Royal Switcher da Londra, il solo autorizzato e competente per togliere una cornice da un chiodo e appenderla all’altro, rifacendo l’operazione in senso opposto. Mi viene voglia di chiedere da quanto tempo l’incresciosa situazione permanga ma l’insinuazione si farebbe esplicita e potrebbero non apprezzare. Saluto cordialmente e mi allontano da eroe culturale del giorno, indietreggiando lentamente facendo cenni con la mano. Fare il gesto del podio, con le mani unite a destra e sinistra della testa sarebbe forse eccessivo.

Bene, ora che sono le quattro passate da poco e che ho raccontato il sapido aneddoto – e ho cercato di farlo alla maniera del DFWallace di Una cosa divertente come mio divertismento – è ora di spiegare in dettaglio il mio piano nutritivo cui accennavo qualche giorno fa: il monopasto estemporaneo.

L’immagine è esemplificativa e riguarda la dieta inglese che sto facendo io in questi giorni e che non raccomando a nessuno sano di mente. Ecco invece la mia teoria nutritiva che tanto bene porterebbe all’umanità se divulgata: una sobria colazione, caffè o tè, yogurt o frutto, e poi un unico pasto da consumarsi all’ora del giorno che si predilige, senza farsi frenare da trite convenzioni. In esso, è lecito mescolare elementi nutritivi e culturali del mattino, pranzo, sera e dopocena senza remore e senza ordine: cappuccino, bistecca, gin, insalata, pesce, minestre, torta pastiera, anche come rivolta verso le convenzioni e le abitudini. Per esempio, io a una colazione prima delle otto faccio seguire il monopasto verso le quattro, ovvero circa otto ore dopo, così da avere poi tempo dopo per andarmene a spasso, scrivere, leggere abbondantemente prima della notte. Il fatto di non consumare nulla tra questo monopasto e la colazione del mattino successivo è un elemento che concorda anche con le attuali raccomandazioni all’intermittenza. Si tratta, dunque, di formalizzare per il turbamento delle nostre madri un Unico Fuoripasto, se possibile da consumare senza ripetere un orario ma facendolo slittare ogni giorno un po’ in avanti o indietro, a seconda. Il pasto stesso deve esulare da ogni forma di ripetizione: sostanzioso se la fame è molta, poco punto se lo stomaco non chiede. La sola difficoltà dell’Unico Fuoripasto sono le abitudini alimentari e culturali: più facile nei paesi nordici dove le cucine sono aperte quasi tutto il giorno, più complesso nei paesi in cui, come l’Italia, si attribuisce a orari e abitudini una certa sacralità culturale che è proprio quella che io, con la mia teoria nutrizionale, voglio abbattere. Gli elementi di contrasto con l’attività lavorativa – scusa sto mangiando a un’ora qualsiasi – e con la rete relazionale – venite a cena da noi alle tre e mezza, stavolta? – troveranno poi spontanea sistemazione una volta che l’Unico Fuoripasto diventerà sistema.

Lascio Sheffield, le sue industrie e la sua scena musicale – alcuni nomi: Def Leppard, Joe Cocker, Arctic monkeys, the Human League, Heaven 17, Thompson twins, Pulp, Cabaret Voltaire, tutti nomi datatini ma così lo sono io – e mi dirigo a Lincoln, città distante poco più di un’ora di treno e al centro, appunto, del Lincolnshire. Ogni ascendenza da qui su città, presidenti, auto americane è reale. C’è anche una Boston a poca distanza da qui. Lincoln è città romana e celtica ancor prima, è nota per essere una gradevole città media con una cattedrale normanna colossale e impressionante. Nonostante sia difficilmente fotografabile, causa dimensioni e vicinanza delle case, provo a cadaunarne una foto, perché una facciata così proprio mai mai vista:

Narrano alcune cronache che la guglia centrale, alta centosessanta metri, sia stata per un paio di secoli l’edificio più alto del mondo dall’epoca delle piramidi prima di rovinare a terra a metà Cinquecento. Ma va detto che non ci sono prove inconfutabili di questa cosa, a parte qualche testimonianza sporadica. La cattedrale, protetta da una porta e una cinta di mura proprie, spavalda a fronte del castello, è talmente enorme e ricca e slanciata da causarmi una piccola sindrome di Stendhal, per cui mi rendo conto che tutta l’archeologia industriale degli ultimi tre giorni non basta, almeno a me, a colmare le necessità e le aspirazioni estetiche ed emotive. Il numero di elementi e di dettagli di interesse è talmente sovrumano che richiederebbe una guida apposita e, siccome esistono, è a quelle che rimando.

Dopo qualche muro romano resto di basilica, due righe di Tennyson che veniva da queste parti, una torre dell’acquedotto in stile, una discesa ardita, me ne vado a camminare, come ormai d’abitudine, sul bacino locale, il Brayford Pool, e lungo il canale principale, il Foss Dyke. Il canale, oltre alla ragione industriale come gli altri visti finora, avrebbe ragion d’essere nell’unire i fiumi Trent e Witham e per questo motivo sarebbe molto molto più antico, risalendo a certi chiamati Romanes che quando qui vestivano ancora le pelli di pecora scavavano canali e costruivano ponti e strade. Il che farebbe del Foss Dyke il canale ancora in uso più antico d’Inghilterra, condizionale perché anche qui gli studi e le fonti non concordano. Per quanto riguarda me, figuriamoci se non ci vado a camminare.

Il sistema di cose ha senso, il canale romano incontra a Lincoln la strada romana, la Fosse Way, che parte a Exeter e passando da Bath arriva fin qui. La strada non si scosta mai più di sei miglia dalla precisa linea retta e se non è romano questo, non so. Anche il canale è davvero rettilineo, la cattedrale si staglia là in fondo, bella visibile da lontano.

Ecco, ho scelto l’unica foto da cui si vede che curva. Immagino quante volte nella storia un mercante, pellegrino, chierico vagante, barcarolo si sarà sentito dire di proseguire dritto finché non avesse visto le torri della cattedrale emergere dalla piana. E così è anche per me. Per vedere quella dopo, intendo di cattedrale, bisogna andare a Durham, più su, uno dei miei prossimi obbiettivi. Mi raccontano la bella storia di William Ross Hendry che condusse la sua barca, la Mary Gordon, per migliaia di volte lungo il Foss Dyke tra Lincoln e Saxilby, portando turisti, cittadini che andavano per il mercato o una bella bevuta lungo il canale al Pyewipe Inn, scolari. Hendry, un vecchio marinaio già naufragato due volte, sulla sua Mary Gordon faceva sempre suonare e cantare, di giorno e di notte, descrivendo la sua attività come la più bella di tutte. E dicendo fino alla fine: “Come non siamo mai andati a sbattere o affondati non lo saprei proprio dire”. Che bello spirito.

In onore di Hendry, della sua barca e del suo atteggiamento verso la vita e gli altri ma, anche, verso il canale, i Romanes, la cattedrale, i normanni e i lavoratori dell’acciaio, i vescovoni, i contadini e chiunque mi venga in mente, vado all’Horse & Groom, come si conviene, e dopo un certo tempo consumare il mio quotidiano Unico Fuoripasto. Domani, poi, un treno con destinazione Cardiff per scendere prima, a Birmingham, un breve giro sui canali se il tempo lo concede, un ascolto a British steel dei Judas Priest, tutto locale, e bon, si torna. C’è una morale, un insegnamento, un consiglio, alla fine di questi giorni? No, non c’è. È stata una scampagnata, bella, come spero ce ne saranno molte altre, in giro per quel sacco di mondo là fuori che merita di essere visto. Beh, però, a parte l’unico vero fondato sano e valido suggerimento: la pratica dell’Unico Fuoripasto. Quello sì.


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una cosa tra te e me (XXI)

Il presunto autoritratto di Van Eyck è di certo una cosa che apprezzavi o potresti aver. Secondo me la prima, che le Fiandre le avevi approfondite. Lo sguardo dell’uomo è diretto, potente, uno dei pochi che possa competere con Antonello da Messina. E quel misterioso turbantone che ogni domanda rende lecita è un elemento che avremmo, senz’altro anche questo, apprezzato entrambi.