Un paio di anni fa ho scritto qualcosa sull’argomento, riflettendo giocosamente su come si accalchi un’enorme folla per la Gioconda e volti allo stesso tempo le spalle alle Nozze di Cana di Veronese, un enorme quadro pregevolissimo. Come il primo sia piccolino e legittimamente in Francia, ma se ne richieda la restituzione ai francesi come l’avessero rubato, e come il secondo, questo sì rubato e illegittimamente là, invece sia sostanzialmente ignorato. Come il primo sia un magnifico quadro ma, insomma, d’occasione e senza spunti storici particolari e come il secondo abbia invece una storia poderosa e un’origine strepitosa, concepito apposta dall’artista per il refettorio palladiano di San Giorgio Maggiore a Venezia, in connubio spalla a spalla tra i due.
Non ho granché di nuovo da aggiungere ma ho un paio di foto migliori, ora (di bulfu): la vista lato-Gioconda, con fotografie che per carità lo zoom degli attuali smartphones ma siamo al limite del particolare, con calca paragonabile alla Fontana di Trevi.
E, molto più interessante, l’altro lato, direzione Veronese, con i volti dei giocondi, peraltro in buona parte sorridenti. L’immagine, lo notavo l’altra volta, è ancor più bella perché le persone paiono uscire direttamente dalle Nozze e rovesciarsi verso l’osservatore.
Sul fondo, mi pare ci sia uno girato verso Veronese, se colgo correttamente la chierica. Complimenti, signore.
Questa canzone fu il singolo di punta di un album di debutto e venne sparata immediatamente alla numero uno della classifica inglese delle vendite, battendo un certo record degli Oasis. La band aveva ascendenze nobili, Frischmann e Welch avevano partecipato alla fondazione degli Suede, poi lasciati nel 1991, ed ebbe qualche anno formidabile come i loro pezzi: rapidi, sintetici, scarni. L’album lo ascolto ancora oggi, magari senza consumarlo come allora, ma il rapimento emotivo per Frischmann perdura. Coetanei, stesso brodo di coltura. Il video ufficiale di ‘Connection’ faceva e fa veramente schifo ma quello è, roba da casa discografica.
Certo, poi c’era la faccenda che il riff era proprio quello di ‘Three Girl Rhumba’ dei Wire, abbassato appena appena, e che avrebbero dovuto menzionare la faccenda nei crediti, vabbè, ma noi siamo punk e giovani e ce ne impippiamo, era un omaggio e se lo sai lo sai. Poi, com’era ovvio, ci misero una vita a fare il secondo album, in cui la canzone più rilevante fu la cover di ‘Da da da’, poi litigarono per il terzo e bon, storia finita, lei a fare l’artista visuale in Colorado. Ma il primo album, quello omonimo, favoloso: avrei potuto mettere ‘Vaseline’, esemplificativa anche dello spirito, quando sei attaccato con la colla, vaselina, un minuto e venti, o ‘Stutter’ o ‘Car song’ o ‘Line up’, ma vabbè, meglio il singolone.
Mentre noi viaggiatori siamo spanciati da qualche parte a far passare il tempo, nel resto dell’aeroporto è tutto un fervore di tempi, traiettorie, consegne da rispettare. Che si traducono quasi sempre in percorsi da seguire e precedenze da dare e da prendere, dal furgoncino all’aereo.
Fifty-nine seconds of anything, whether or not it has any intrinsic meaning and something to immortalize. Preferably with the smallest means possible.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più levigata del gattile, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.
Bon, qui ho finito. Cioè, ne avrei ancora molto ma è ora di tornare, ho già sfidato la sorte troppo a lungo, alla fine sono in giro dal due, non posso lamentarmi. Né lo vorrei fare. E, in realtà, avrei anche potuto concludere il minidiario alla sesta pagina, visto che Potsdam (pronuncia: pòt-sdam, enfasi sulla ‘t’, altrimenti mia madre viene lì e vi corregge) è l’ultima tappa della mia coda di viaggio e un po’ l’ho raccontata. Ci sono però alcune cose che ho dimenticato di menzionare o che non entravano nel senso dei racconti, cose serie e meno, molto meno, per cui colgo lo spunto e raccolgo qui, a conclusione. In ordine con il viaggio.
A Francoforte un sacco di gente per strada, le due mummie sulle panchine nella foto. La cosa stride ancor di più visti i palazzoni della finanza europea e mondiale, la BCE più di tutti.
A Fulda, come in Baviera gli orsetti, sul cuscino ho trovato le pecorelle gommose, per poterle contare e addormentarmi. Bel pensiero, ovviamente mangiate tutte ancor prima di mettere giù lo zaino.
A Fulda, in prossimità dell’abbazia, l’attraversamento pedonale è in tema:
A Erfurt il ring ha ancora l’odonomastica della DDR, felice me, ed è intitolato all’immortale Gagarin.
La casa di Cranach Vecchio a Gotha – si stava dove il principe committente stava – è un chiaro esempio di pareidolia: tra il pagliaccio triste e sorpreso.
Gotha, odio i musei che invece di attaccare i cartellini con le informazioni sui dipinti fanno il pannello centrale riassuntivo, che poi non si guarda nulla. Almeno il foglio che si tiene in mano, almeno.
Alcuni dei poster per la festa della Bauhaus del 1923 a Weimar. Festa che comprendeva, oltre a mille manifestazioni varie tra cui spiccava il teatro, anche una gara di aquiloni. Aquiloni, capito? Disegnati e inventati in mille modi, che bello spirito c’era.
Libertà e giustizia per chi, a Jena? Chissà perché qualcuno l’ha cancellato, spero siano sopraggiunte giustizia e, quindi, libertà.
Sempre a Jena, ho visto la Love Machine, stupenda. Chissà la storia, non c’era nessuno.
La stazione di Dessau ha un mosaico murale Bauhaus che dice subito tutto, notevole. Sotto, due donne che spiegano la bibbia, scappato.
Ho raccontato delle case dei professori della Bauhaus nella parte cinque, meravigliose, Klee abitava davanti a Kandinsky. Le case erano però in queste condizioni sotto la DDR, fino al 1992, momento in cui qualcuno sveglio le avrà comprate per un tozzo di pane e ora ci abita.
Basti questa bacinella disegnata dalla Bauhaus di Dessau per dire quanto moderni fossero. Non sfigurerebbe tra le novità di questo momento.
Una buffa foto di Gorbaciov nella piazza centrale di Dessau, sia perché molto magro – e così lo shaming l’ho fatto – sia perché immortalato con un improbabile piumino peraltro di quelli ora in vendita da decathlon, sottili come si fanno solo ora, stivaletto e un pantalone attillato che mette in evidenza il pacco, bel pleiboi, lui.
L’Hundertwasser di Magdeburgo. Mah, io non lo capisco, forse non c’è nulla da capire, mi pare sia solo confusione e voglia di aggiungere, mi sfugge il messaggio se non quello generale, che non c’è messaggio, solo emozione. Ecco, quello non mi soddisfa.
«Scusi dove posso trovare Mocca-Fix?», «Fuori commercio». Proprio di Magdeburgo, marchio della Röstfein, a fine Ottocento diede inizio alla torrefazione del caffè in Germania. Poi ci fu la famosa crisi del caffè della Repubblica Democratica Tedesca, per cui con l’inflazione galoppante il governo decise di iniziare scambi commerciali con i Paesi del terzo mondo barattando armi e mezzi pesanti in cambio di caffè ed energia e poi, degenerando comunque la situazione, a trovare soluzioni più economiche, come miscele di metà caffè e metà farina di piselli o ceci o soluzioni strane, il popolo rifiutò, spesso si intasavano pure le macchinette. Ora è nel museo di Magdeburgo.
Sempre nello stesso museo, che poi è quello dell’Unicorno e quindi mostrano non poco spirito, nella parte didattica dedicata agli anfibi hanno messo, per rendere chiaro il concetto, il manichino di un pescatore tipico tedesco, sigaro e Adidas, non manca nulla:
A Potsdam si fa campagna elettorale per le elezioni del sindaco e da destra, come sempre, premono sull’aumento dei costi e la diminuzione del potere di acquisto:
Un menu in un ristorante di Potsdam con le prescrizioni mediche, attenersi:
Un raro resto della DDR a Potsdam, una serie di mosaici in pieno stile con frase di Karl Marx, ormai pare non ci sia più alcun modello alternativo e anche queste cose spariranno tutte a breve:
Sempre Potsdam, se non hai l’obelisco egizio originale, fattelo su tu, inventando, che problema c’è?
Nel Neue Palais di Potsdam, dopo le vicende della guerra, hanno per fortuna conservato una scritta originale dei soldati russi, durante la battaglia di liberazione di Berlino, che dice: “Morte agli occupanti tedeschi”, ancora si bombardava e il palazzo era ricovero delle truppe sovietiche e dei civili tedeschi.
Nel parco dei palazzi, ho visto l’edera più grande io abbia mai visto. Almeno trenta centimetri di dimensione artistica per diametro, l’albero è un bel colosso.
Con tutte queste cose ci avrei campato settimane di post qui, vabbè, all’anima della generosità. Chiudo con una cosa bellissima, la torre Einstein nel centro geofisico di Potsdam, una collina con osservatori astronomici, acceleratori, centri per lo studio del cambiamento climatico. Essa non ha alcun rapporto diretto con Einstein ma il costruttore ne fece un piccolo osservatorio per verificare le teorie sulla relatività del fisico. È un pezzo modernista notevolissimo, mi son salito la collina dopocena apposta.
Bene, anche qui abbiamo finito. Non c’è morale né insegnamento, era un giro di recupero e piacevolezza e così è stato. Tra qualche giorno rimpiangerò, anzi lo sto facendo proprio ora che scrivo a cose concluse e che sono ricominciate le più noiose. Alla prossima, grazie a chi ha seguito.
C’è un motivo preciso, uno solo, per cui salgo ancora un po’ e vado a Magdeburgo: l’Unicorno. È una delle mie storie preferite, l’avevo già raccontata per esteso qui. Nel 1663, epoca totalmente a digiuno non dico di paleontologia ma addirittura di qualsiasi cosa antecedente alla bibbia, figuriamoci, a Magdeburgo scoprirono una caverna piena di ossa di animali antichi. Chiamarono quello che ne sapeva di più sull’argomento, il naturalista Otto von Guericke, che fece una ricostruzione di un ipotetico animale, eccolo:
Ecco, me la faccio addosso solo a guardarlo. Corri, bello, corri libero. Naturalmente nessuno aveva supposto che in quella caverna ci fossero ossa di animali diversi, tantomeno il von Guericke, un po’ perché era difficile farlo – nel 1663 nemmeno il rinoceronte era ancora stato descritto nella letteratura scientifica – e perché era una situazione davvero improbabile – in quella caverna si trovavano animali diversissimi, acquatici e terrestri, e di epoche molto distanti, va’ a sapere per quale combinazione di fattori. Fu così che von Guericke assemblò l’animale più armonioso e bello e funzionale della storia, unendo un cranio di rinoceronte, le gambe di un mammut primigenio e il corno di un narvalo.
Al Museum für Naturkunde di Magdeburgo, che sono persone di mondo ricche di spirito, l’hanno ricostruito e lo tengono in esposizione vicino ai fossili veri, li ammiro. Ed è corretto, perché alla fine il museo è museo anche dell’evoluzione della scienza, degli svarioni presi nel tempo, delle intuizione corrette e meno. Me lo chiedevo allora e ancor di più oggi: quanti Unicorni sono esposti nei nostri musei e si riveleranno solo in futuro? Sono deluso solo del fatto che al negozio del museo non ci sia un modellino della star del museo da comprare e tenere sulla scrivania a perenne monito di ciò che oggi ancora non so. Museo? Che resto del museo? Magdeburgo fu senz’altro una città formidabile e ricca nel medioevo, nel rinascimento e nei secoli successivi, una delle roccaforti della riforma protestante, la sua posizione sull’Elba e i resti delle mura lo dicono chiaramente, fu grande e prosperosa. L’infilata, poi, come tante città, di nazionalsocialismo, bombardamenti, dopoguerra, DDR, dissoluzione dell’URSS, non ha portato bene: città disconnessa, con ampi spazi vuoti poi riempiti da qualche condominione di ispirazione vagamente socialista e, peggio ancora, da centri commerciali negli anni Novanta, a far da scenografia alle vie principali o alla piazza del municipio e il famoso palazzo imperiale di Ottone perso chissà dove. La cosa più memorabile, a parte l’Unicorno vero fulcro di tutto, è la posizione della città, un enorme duomo testimone di altre epoche, l’ultimo progetto di Hundertwasser, di fatto la città ha perso sessantamila abitanti negli ultimi vent’anni e si vede. Lo vedo anch’io e ripiglio il treno, l’Unicorno l’ho visto e per questo sono già felice.
Un’ora di treno e sono a Potsdam. Degnissima conclusione del viaggio e comoda, strategicamente per loro e anche per me ora, per la vicinanza a Berlino. Potsdam, infatti, come tanti paeselli sui laghi in prossimità della capitale, fu luogo di vacanza e ricreazione della nobiltà prussiana e più di tutti di Federico il Grande, der Große. Boschi, laghi, cieli ormai più simili al Baltico che al Mediterraneo, aria fresca, cervi immagino allora, lepri, volpi e cose da cacciare, cose da mangiare, che poi viene natale. Ovvio, abbastanza, fare casa qui. Federico II, che non era detto il Grande per caso, volle una residenza di piacere e non di lavoro, di sollievo e non un fardello: un piano solo, piccola il giusto, armonica, in mezzo al verde e alla bellezza: Sans souci, senza preoccupazioni. Pensava a sé come a un filosofo e se anche non lo fu o non fu dei più brillanti, lo fu certamente in reazione all’odiato padre soldato e a ciò che i tempi volevano. C’è un libro molto bello di Alessandro Barbero, Federico il Grande, perché sintetico e ben scritto, anche un bel podcast per Alle otto della sera, su Rai play sound, vale la pena per farsi un’idea del Grande di Prussia.
Dentro, la solita rottura di balle di salottini vellutati polverosi, di quanti divanetti avranno mai avuto necessità? Ma fuori molto bello, le piante ornamentali anche, con delle apposite serre a finestra, belle. Un enorme palazzo in lontananza – è mezz’ora che cammino nel bosco e non sono ancora arrivato, lo vedo là come fosse il Kilimangiaro che non si capisce se ci vogliano tre ore o tre giorni – costruito per gli ospiti, lui preferiva il palazzo piccolo a quello Nuovo. Tra l’altro, quello nuovo, imponente senz’altro, ha delle cosette davvero orrende, dentro. Sono certo che nella salona di rappresentanza al pian terreno le pietre e le conchiglie siano di grande valore ma non riesco a non avere una vaga sensazione di nausea.
Son cose che piacciono se sei ducaconte o nazista in cerca di sale di rappresentanza – così fu per parecchie volte, qui -, altrimenti insomma. Il parco è bellissimo, ci cammino per ore, piove, mangio un panino davanti a un pubblico di capre, incontro talvolta una coppia con ombrellino che si gode l’ambiente, è una splendida fine agosto. Vado a pensare.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. Vado a Jena, sulla scorta della sua famosa università – basti citare la triade Fichte, Schelling e Hegel – più che per informazioni attuali. A volte è meglio andare a vedere di persona. Fu a Jena nel 1806 che Hegel vide sfilare Napoleone e lo definì, è noto, “anima del mondo”, concentrato in quel punto esatto, in quel momento, mentre andava a cogliere una delle vittorie più clamorose delle sue campagne, dissolse in sostanza l’esercito prussiano, ormai lontano dalla disciplina e abilità di Federico il Grande. E andiamola, ‘sta Jena.
Era l’università di Heidelberg, forse di Jena, cantava il grande Ricky Gianco in Fango, ma in programma c’erano i cubi, purtroppo. Gran canzone. A Jena trovo pochetto, lo sospettavo dalle scarse notizie, un bell’osservatorio dovuto a Carl Zeiss, il migliore fornitore di lenti mai avuto, e poco altro, il centro è sconnesso, i dintorni graziosi ma residenziali, l’università imponente e ancora prestigiosa. Capita di esaurire le visite in poco, piglio la via delle colline per vedere meglio e sgranchirmi ma ci metto comunque poco a capire che non varrebbe la pena fermarmi qui un giorno. Stazione, treno, prossima tappa: Dessau.
Quando nel 1925 la neoamministrazione destrorsa di Weimar diede lo sfratto alla Bauhaus, parecchie città si offrirono di accogliere la scuola. Per posizione, offerta, connessione industriale la spuntò Dessau. Ed eccomi qui. C’è una zona a nord della città, verso l’Elba, in cui la scuola, le case dei docenti, le strutture per gli studenti, le abitazioni costruite da Bauhaus per le aziende della città, le vie, le zone di espansione, tutte parlano la lingua della Bauhaus.
I balconi della scuola, ancora quelli ed evidentemente solidi, in alcune fotografie d’epoca raccontano anni di gioia, comunanza ed esplosione creativa, nonostante alcune nubi che già si percepivano.
Perché l’esperienza della scuola, soprattutto nei primi anni di Weimar, era un’esperienza totale: non solo principi di progettazione tecnica, di architettura, di scienza dei materiali ma, insieme, scenografia, disegno di costumi, progettazione dei font e di tutta la grafica, organizzazione dell’annuale festival Bauhaus con tanto di gara di aquiloni. Era il posto giusto in cui essere, avendo un minimo di fantasia e aspirazione. Vicino alla scuola, all’inizio del bosco, quattro case – ovviamente in stile Bauhaus – dedicate agli alloggi degli insegnanti. In una di esse, la doppia ai civici sei e sette della via, abitarono a un certo punto porta a porta Klee e Kandinsky. Buongiorno Paul, tutto bene? Non me ne parlare, Vasilij, oggi ho quattro ore e la correzione dei compiti.
All’inizio degli anni Novanta, alla caduta della DDR, erano in condizioni disastrose, qualcuno allora potendo le comprò e oggi ci vive. Con qualche vincolo, immagino, ma non dev’essere malaccio, immagino osservando la donna che fuma da una delle finestre.
Tutta la città doveva essere in condizioni miserevoli sotto la DDR, immagino osservandola com’è ora. Si dev’essere presa una bella dose di bombe alleate, data l’industria e la vicinanza al fiumone, deve aver subito una ricostruzione al minimo con i classici spazi vuoti e condomini corvialoni infilati negli spazi, poi dopo il novantuno, come sempre, centri commerciali nei vuoti e tutto sommato un’aria disarticolata ancora oggi. In piazza, una buffa statua di Gorbaciov magrissimo con indosso un piumino di quelli di oggi, sottili e a quadratini. Va’ a sapere lo scultore. Bello il museo dedicato alla Bauhaus, non molto differente da quello di Weimar, sono le strutture però che meritano una visita. Ora, le riflessioni di fine giornata, domani spostamento ancora un po’ più a nord.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. Dopo dodici minuti di treno da Erfurt sono, di nuovo, a Weimar. Di nuovo perché ci fui nel maggio 2008 (undici), rimando ad allora per descrizioni più piane e complete. Di Weimar dico che è la Gardaland della cultura, nel senso che è tutto talmente fitto che basta scegliere le attrazioni che si preferiscono: la casa di Goethe? Basta attraversare la strada e c’è quella di Schiller. E Bach? Là dietro, due vie più in là c’è casa e la chiesa dove suonava. Ne dico un po’: Cranach, Lutero, Bach, Wieland, Herder, Wagner, Liszt, Strauss, Nietzsche, Mann, Goethe, Schiller, Heine, Puhskin, Klee, Gropius, Kandinsky, i principi di Turingia, forse Shakespeare, Schweitzer, sono solo alcuni, quelli che conosco io, di coloro che vissero o passarono da Weimar. E poi la Repubblica, la fondazione del Bauhaus, Buchenwald è la dietro il bosco di faggi, appunto. Il tutto in un paesotto che è più piccolo di Colgate al Piano. Se uno, me, ha proprio voglia di camminare, si fa tutto il parco del palazzo del principe e in fondo in fondo entra nella cappella dove è sepolta la dinastia e Goethe e Schiller lo sono fianco a fianco. Difficile di più.
C’è un libro ben riuscito che parla di questo, del decennio favoloso in cui le intelligenze tedesche si ritrovarono nello stesso quartierino e inventarono l'”io”: è Andrea Wulf, Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’Io, è un libro molto piacevole, come il suo precedente su von Humboldt. La concentrazione è pazzesca, nemmeno il Brasile del 1970 aveva così tanti fuoriclasse in formazione, impossibile dimenticare lo sketch dei Monty python in cui la nazionale tedesca dei filosofi stracciava quella greca antica. E qui non c’era Marx.
Nel 2008 il museo sulla Bauhaus era un museino ospitato temporaneamente nella sede della Repubblica, oggi è un museo e in apposita sede architettonicamente coerente per cui vado senz’altro. Forse non tutti sanno che la Bauhaus sia nata a Weimar e non altrove. Forse non tutti sanno che sia la Bauhaus, come ho appena appurato al telefono e davo scioccamente per scontato, ma a quello non sta a me mettere una toppa qui. Lamentavo nel 2008 come non avessero del merchandise appropriato al bookshop, visto che Bauhaus di fatto e già merchandise pronto, almeno parlando di tazze e oggettistica varia. Oggi hanno recepito, bravi, e il negozio è grande tanto quanto il museo. Bauhaus fu una scuola di arti applicate, in relazione alla nascente produzione industriale e allo sviluppo tecnologico dei materiali, e fu una fucina di innovazione clamorosa, sempre attenta all’aspetto umano. La necessità della produzione in serie, soprattutto in ambito abitativo per rispondere alla grande domanda di case dopo la prima guerra mondiale e in momento di iperinflazione, di fatto nascendo da propositi umanissimi e progressisti in realtà offrì una sponda effettiva al nascente nazionalsocialismo e alla massificazione del popolo. Gropius, che fu direttore e mente della Bauhaus, disegnò il maggiolone che poi, vedi tu, diventò l’auto dei nazisti, per fare un esempio piccolo e sciocco. Due nomi tra gli insegnanti alla Bauhaus? Intendo quelli che ti entrano in classe e ti spiegano le cose dalla cattedra, sì: Klee e Kandinsky. Capito che roba?
Tanta cultura servì poi a evitare derive reazionarie? Ovviamente no. Non appena fu eletta un’amministrazione più a destra a Weimar già nel 1925 ci mise pochissimo a tagliare i fondi alla Bauhaus e a farla sloggiare. Tutti i Goethe del mondo non bastarono, o probabilmente fu proprio per quello, e a pochi chilometri dalla città fu aperto il campo di concentramento di Buchenwald, maggio 2008 (dodici), ne scrissi pagine che considero decentemente ispirate. Nel 2008 là feci un giuramento, a fianco di quelli che lo fecero l’11 aprile 1945, bene ricordarmelo – perché non è che io stia facendo granché – e rinnovarlo ancor più di questi tempi in cui il settantanove per cento degli israeliani si dichiara ‘non turbato’ dalla situazione umanitaria a Gaza. Mica è solo Netanyahu, eddai.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. La mia tappa successiva del concatenamento di città medie tedesche della Turingia e Assia è Erfurt. La città è graziosa, con tutte le cose giuste al proprio posto, la via Regia che l’attraversa e il famoso ponte medievale.
Su un canaletto derivato dal fiume Gera per dotare il centro città di una via d’acqua, che a dirla onesta sarà profonda al massimo otto centimetri nelle zone delle rapide tumultuose, sorge il Krämerbrücke, il ponte dei bottegai. Bello, cinque arcate di pietra e case addossate ai lati che pare di essere in una via normale, quando nei pannelli lo storico dell’amministrazione locale lo promuove come ‘unico al mondo’ verrebbe da aggiungere Firenze e aggiungo io, che un paio di ponti con le botteghe li ho visti, il Pulteney bridge a Bath. In piazza, la pizzeria Pavarotti fronteggia spavalda il ristorante Fellini e io non potrei proprio essere più orgoglioso dei miei connazionali. Ho una storia su Erfurt, mi è tornata in mente, e, prima di raccontarla che è difficile, vorrei celebrare ancora una volta i supermercati tedeschi, in cui si può pigliare una ciotola, media o grande, riempirla delle verdure che si prediligono, condirle, pesarla, prendere posate e quanto serva gratuitamente, pagare e andare felici a consumarla ove si preferisca.
Ci fosse in Italia, ci pranzerei e cenerei ogni giorno.
Ecco la storia. La ditta J.A. Topf und Söhne di Erfurt, fondata a fine Ottocento e che produceva prodotti per il riscaldamento, colse una certa opportunità commerciale con l’avvento del nazionalsocialismo, anzi in particolare con una certa politica nazista di eliminazione delle persone. Perché non fare confluire le competenze dell’azienda nella costruzione di forni crematori e camere a gas? Un successone, commesse per i campi di Auschwitz, Birkenau, Mauthausen, Dachau, Gusen, Buchenwald e così via, maggiori e minori. D’altronde non solo la competenza era di alto livello ma anche la dedizione dell’azienda con cui si applicava nel trovare soluzioni tecniche ai problemi dovuti a un numero sempre crescente di persone da liquidare era davvero straordinaria. Trovarne di fornitori così. Innovativi sistemi di ventilazione dei forni e delle camere a gas, così che gli operatori, per carità, non corressero alcun rischio; la felice intuizione di accostare le camere ai forni così da utilizzare il calore di questi per innescare la sublimazione dei cristalli di gas alla giusta temperatura; qualora questo non fosse possibile, comode tabelle per sapere quante persone andassero stipate per metro quadro nelle camere a gas per scaldare a sufficienza i cristalli e innescare la reazione a gratis, che convenienza. Tanta e tale bravura fu premiata, la divisione aziendale che si occupava di forni divenne leader di mercato e l’azienda nel 1942 depositò l’innovativo progetto di “un forno di cremazione di massa e continua di corpi”. Così tante teste dedicate a così tante innovazioni. Capito come si fa a non vedere? Basta mettere le banconote sugli occhi. La prima difesa dei fratelli e figli Topf ad aprile 1945 fu sostenere che non sapessero a cosa sarebbero poi serviti i forni, poi, constatata l’insensatezza delle parole e delle tesi, a fine maggio, fu tirarsi un colpo in testa un Topf e fuggire l’altro. Erfurt rimase in Germania est e i sovietici, i cattivi, chiusero tutta la fabbrica e processarono fino all’ultimo dei dirigenti, a ovest, dove c’erano i buoni che per carità i lavoratori, fu permesso a un paio di Topf scappati di là di reimpiantare l’azienda, forni per pizza?, fallita poi nel 1996 per mancanza di liquidità. I nipoti chiedono ancora la restituzione di ville e soldi ma per fortuna qualche bravo giudice dice ancora di no e spiega loro il giusto senso delle cose.
Erfurt ha un’enorme cittadella fortificata che la domina e che deve aver ospitato guarnigioni e guarnigioni alla bisogna, raramente ne ho viste di così grandi. E sì, ha un ascensore per arrivarci, per chi non se la sentisse di farla a piedi, questo lo dico per chi vivesse in città in cui si discuta dell’argomento. Anche il centro è grazioso e come già dicevo ha tutto al posto giusto. Ma la cosa più bella del giorno è una giovane mamma che si toglie uno zaino gigantesco dalle spalle, peserà almeno venticinque chili, si toglie gli scarponi ed entra nell’acqua del canale per rinfrescare i piedi. Attorno, tipo anatroccoli, tre ragazzini ciascuno con il proprio zainetto colorato, con dentro chissà quali cose utili, probabilmente la dotazione minima cappello-panino-acqua, che le girano attorno e tentennano sul discorso piedi-nell’acqua. Se, come presumibile, lei si sta portando i tre giovani virgulti in vacanza a piedi in giro per la via Regia o quella barocca o comunque per queste zone, beh, ha tutta la mia sconfinata e sincera ammirazione. Donne coraggiose e ricche di iniziativa, quante ce ne servono. La sua presenza mi rimette anche un po’ a posto il magone per i Topf e quel genere di umanità lì. Grazie. Ora vado a pensarci come faccio ogni sera.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Proseguo il concatenamento di città tedesche dell’Assia e della Turingia e da Fulda vado a Gotha, saltando Eisenach. Forse un errore.
Gotha, anche nelle sue varianti di Gotham e Golgota, per Gugol e assessori alla cultura improvvisati, è proverbiale proprio perché a metà Settecento qui si compilò e si continuò a stampare l’almanacco della nobiltà europea ed era fondamentale essere menzionati. Essere nel Gotha, dunque, ovvero essere nell’empireo di qualcosa, nel gruppo ristretto, significa avercela fatta, in qualche maniera e se ovviamente uno ci tiene.
Io no, non desidero far parte di alcun gruppo ristretto, anzi preferisco annacquarmi nei gruppi e nelle categorie più ampie possibile, tant’è che per dire scrivo queste cosette in forma anonima da una vita. Quindi non sono qui per controllare l’almanacco ma per completare una visita di quattro anni fa a Coburgo: poiché il Casato è di Sassonia-Coburgo e Gotha, ovvero i discendenti dei Wettin che regnano tutt’ora su Belgio e Inghilterra, per via dell’Alberto di Vittoria, volevo vedere l’altra parte. Per chiarire, se io devo guardare alla nobiltà, direi che il mio punto di vista sia quello di un bolscevico davanti ai Romanov, ancora sono grato a Napoleone per aver spazzato via l’aristocrazia europea polverosa e resa ancor più demente da matrimoni tra consanguinei. Però avevano palazzi, raccolte d’arte, giardini e tenute, impossibile prescindere, vengo a vedere.
Gotha, come Coburgo, è un paesone sorto attorno al palazzo, anzi a un castello, il Castello Friedenstein, sorto nelle forme più aggraziate su una precedente fortezza, alla fine della guerra dei Trent’anni. Com’è giusto è su una collina che domina gli attorni, a sud un bel parco con lago che a un certo punto utilizzerò con soddisfazione, a nord il paese che, obbediente, circonda la casa del signore. In venti minuti ho percorso tutto il reticolo delle vie del centro e ho preso anche un caffè. Ma non sono qui per il paesello, sono qui per la raccolta d’arte di Ernesto II dei Duchi di Sassonia-Gotha, dalle antichità egizie e greco-romane all’arte giapponese. C’è una stanza piena di soli Cranach, ma qui tra Turingia e Sassonia non è infrequente, un Frans Hals bellissimo, buffi ritratti ottocenteschi di Voltaire e Rousseau. Non esattamente la ressa per entrare.
Non mi stupisce che nel 1979 siano entrati e bel belli si siano portati via cinque quadri notevoli, poi spariti del tutto e riapparsi in modo non chiaro quarant’anni dopo. Potrei portarne fuori uno io ora senza avere grossi problemi. Ora vado a riflettere al parco.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Lo so, sembra da stronzi dirlo, e forse lo è, ma quei tre paesi là mi hanno tenuto in tensione, per capire, per apprendere, per non sbagliare. Ora avrei bisogno di qualche giorno tranquillo e, visto l’atterraggio a Francoforte, ho finto di essere lavorativamente morto e, come quelle capre che si irrigidiscono e cascano al pericolo, provo a strappare ancora qualche giorno. Rispondo vagamente e in modo confuso a chi mi chiede quanto torni. Per vedere cose che non fatico a capire, per dormire, per camminare, leggere, scrivere, bere, non proprio in quest’ordine.
Desideravo questo concatenamento di città medio-piccole tedesche una vicino all’altra da molti anni, l’ho desiderato moltissimo nel 2020 durante la pandemia, lo sognavo di notte da prigioniero in casa – ecco la prova -, ora ci sono. Atterrato a Francoforte da Yerevan alle sette del mattino, vado a piedi a vedere la sede dell’università che, oltre a essere bellissima, racchiude una storia dentro di sé.
L’edificio fu progettato da Hans Poelzig in puro stile modernista d’epoca Weimar nel 1929-31 ed è bellissimo ed è strano come un’architettura progressista e umanista per quanto industriale nel giro di pochi anni sia diventata l’espressione dell’architettura reazionaria e oppressiva del nazionalsocialismo, l’aeroporto di Berlino-Tempelhof di Ernst Sagebiel riprende senz’altro questo progetto, l’avete notato tutti, no? Comunque, quella che oggi è l’università in realtà nasce come sede dell’I.G. Farben, un agglomeratone di industrie chimiche che negli anni Trenta riunì colossi della chimica come Bayer, BASF, Agfa, Sanofi, per dire quelle note ancora oggi, per resistere alla concorrenza europea e americana. ‘Farben’ significa vernici, tinture. Con l’avvento del nazionalsocialismo, il gigante non si fece sfuggire l’occasione e utilizzò più di tutti la manodopera gratuita degli schiavi deportati, costruendo spudoratamente una fabbrica a Monowitz, il blocco industriale di Auschwitz, lo stesso Primo Levi lo racconta. Ma non bastava, il colosso della chimica sviluppò prodotti per la crescente richiesta del governo nazista, prodotti per la guerra e prodotti per l’eliminazione delle persone, il famigerato zyklon B, il gas per i campi di sterminio. Chimici e scienziati al lavoro per migliorare l’efficacia del prodotto, questo è. Qualcuno oggi direbbe che è un prodotto, uno strumento, dipende poi da come lo si usa. Certo.
Francoforte fa schifino, lo sapevo già. Della città di Goethe resta niente, c’è un attorno di belle ville primo Novecento, un bel fiumone, poi il resto stride, tra il centro finanziario dell’UE e una quantità spropositata di persone che vive di scarti. Nella prima mezz’ora assisto a una retata con sei automezzi della polizia tedesca, un gentiluomo quasi mi vomita addosso sotto il simbolone dell’euro, le strade tra la stazione e il centro sono belle luride. Vero che è domenica presto e ancora, forse, non hanno pulito ma la cosa balza agli occhi. Io, vista l’università e il fiume sarei anche a posto, ricordo qui un magnifico doppio concerto Sharon Jones & the Dap-Kings e Maxïmo Park nel 2012 se non sbaglio, e questo mi basta. Iddio ti benedica e ti tenga compagnia, SJ. Inizio il concatenamento.
Vado a Fulda, un paesone a poco meno di un’ora a nord-est nonostante gli ormai ordinari ritardi di Deutsche Bahn. A pochi chilometri da qui correva la cortina di ferro e secondo gli strateghi della NATO il patto di Varsavia, qualora avesse deciso di invadere, l’avrebbe fatto qui. Per questo fino al 1994 nei pressi di Fulda stanziò un grosso contingente di soldati americani, in attesa dei Tartari. Io sono qui per la leggendaria abbazia, lo scriptorium più importante dell’alto medioevo e dell’impero carolingio, con ben seicento monaci copisti e miniaturisti e un patrimonio di ben più di duemila manoscritti, dall’ottavo secolo in poi. Poggio Bracciolini, che era uno bravo davvero, venne qui a pascolare tra i testi e vi ritrovò, per dire, il De rerum natura di Lucrezio che, se non fosse stato per i fuldani e per Poggio, ce lo scordavamo e buona notte. Arrivo carico di aspettative a Fulda e sbatto contro l’abbazia.
Mapporc, che è? Questo è barocco, dov’è l’alto medioevo? Dov’è Poggio? E i manoscritti? E i copisti? Nisba, ciao, puff. Il principino d’Assia, un Augusto qualsiasi, stufo dei vetera e dei vetusta, disgraziato, pensò bene di tirar giù tutto e di rifare in forme moderne di suo gusto. Disgraziato. Mapporc. E la statua e il bollone lapideo lo celebrano pure. Certo, ora ci passa la strada del barocco, che bello, ma che coioni il barocco, facculo il barocco, come la controriforma, ma che cazzo. E intanto, ciao Fulda. Perché a quello gli piacevano le cose contemporanee, ma dico io. Dentro, peggio che andar di notte.
Una chiesotta per le cene in bianco. Disgraziato. Sulla scorta degli eccezionali manoscritti armeni visto qualche giorno fa, sognavo già collezioni clamorose di testi carolingi e la riscoperta di qualche testo perduto di Aristotele. Nel museino, quattro capitelli e tre statue mozziche, tocca fare galoppare la fantasia, l’abbazia ricordava la vecchia basilica costantiniana di san Pietro a Roma, Sant’Ambrogio di Milano, per capirci, e noi ci tocca questa. Grazie, Augusto. Bravo davvero.
Qualcosa però c’è. Per fortuna, a fianco della chiesa in bianco c’è una chiesina dedicata a San Michele, del nono secolo, sopravvissuta alla rigenerazione barocca.
La rotonda ha sotto una criptina retta da una sola colonna tozza che ha del commovente e, oltre a dare un’idea di cosa potesse essere l’abbazia nel complesso, aumenta il rammarico per la perdita. E ora, come si conviene, è tempo di andare a riflettere sui fatti della giornata al biergarten.
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