minidiario scritto un po’ così di una scappata inglese: due, le privatizzazioni, fine del carbone, big Willy, i fiumi-fiumi

Dopo centoquarantadue anni, chiude l’ultima centrale a carbone nel Regno Unito, a Ratcliffe-on-Soar, tra Derby e Nottingham. Si chiude davvero un’epoca e quale posto migliore in cui essere per questo? Oddio, non che si percepisca, ma se il ragionamento di questi giorni è sull’Inghilterra industriale allora ha senso, come ha senso ricordare lo sciopero dei minatori inglesi contro la Thatcher che durò un anno, prima che dovessero capitolare. A proposito di Thatcher, sempre sia maledetta: tra le altre cose, per la privatizzazione delle ferrovie nazionali. Dalla British railways, una, si è passati a non dodici, non diciotto ma venticinque compagnie, ne dico un po’ che secondo me oggi sono anche di più: Anglia Railways, Chiltern Railways, Arriva Trains Merseyside, Arriva Trains Northern, c2c, Thameslink, Caledonian Sleeper, Wales & West, Central Trains, Connex South Central, Connex South Eastern, First Great Eastern, Elizabeth line e amen gloria. Il che vuol dire, però, che non si sa mai una tratta, che so? Birmingham-Stratford per restare a me oggi, a chi appartenga. Di conseguenza, è molto difficile fare un biglietto online in maniera agevole: tocca capire la tratta di chi sia, scaricare l’app o andare sul sito, registrarsi, comprare. Moltiplicare per otto, dieci, venti app o siti se si gira un po’ il Regno Unito. Se non altro, da un po’ esiste un portale riassuntivo, condivido: National rail, che, almeno, aiuta nel primo passaggio. Spero che, anche per questo, tu sia all’inferno, Thatcher.

Nel mio caso di oggi, si tratta della TransPennine Express e vado in gita a Stratford. Sì, quella Stratford sull’Avon, quella di Shakespeare, amichevolmente big Willy per quelli di lì. Sia chiaro, è un bel paesotto su un bel fiume, l’Avon appunto, come ce ne sono mille nel Regno Unito, piazza con monumento, municipio, cattedrale, qualche edificio medievale conservato e più o meno ricostruito, rive del fiume passeggiabili e verdi, imbarcadero, servizi pubblici e privati, sale da tè, caffè, supermercato, negozio di souvenir e pizzi, sala scommesse. L’ovvia differenza è che gli edifici medievali conservati e più o meno ricostruiti sono la casa natale di Shakespeare, la scuola di Shakespeare, la seconda e terza casa di Shakespeare, il cottage di Anne Hathaway, non l’attrice, la cattedrale ha al suo interno la tomba di Shakespeare e congiunti, oltre ai registri di battesimi e morti con il nome di, appunto, Shakespeare. E i negozi di souvenir vanno moltiplicati per un tot, un bel tot, con negozi dedicati interamente, cui va aggiunta la peculiarità del luogo, un teatro di dimensioni ragguardevoli, dovute ovviamente a Shakespeare. Parliamo di circa due milioni e mezzo, tre, di visitatori all’anno in una cittadina che ne fa, a malapena, trentamila. Ovvio gettarsi nell’economia locale, sia che si possieda un negozio, una casa, un parcheggio.

Uhm, non che io sia un esperto ma alcune cose non mi convincono.
Ci si intenda, la cittadina è gradevolona, in particolare la parte lungo il fiume che mi gusto particolarmente con una lunga camminata tra prati e boschetti davvero piacevoli. Non mi raccapezzo sul fiume, l’Avon, che bello placidone ho già incontrato a Salisbury e a Bristol, possibile sia così lungo? No, infatti, grazie alle comode funzioni di ricerca dell’infosfera giuliniana mi ci raccapezzo e scopro che, solo in Inghilterra, i fiumi Avon sono sette e quelli che io conosco sono i cosiddetti Bristol Avon, Salisbury Avon e questo, detto lo Shakespeare’s Avon. E nessuna intersezione o comune paternità tra loro. Cercando ancora, l’arcano si scioglie, Avon, abona, è la parola che nel protobritannico significava ‘fiume’, quindi il tautologico fiume-fiume ricorre sovente a questo punto senza più sorpresa.

Un altro mistero risolto, potrebbe dire la coppia di investigatori locali della serie tv omonima, Luella Shakespeare e Frank Hathaway e chi coglie, coglie, non è difficile.
Una commossa visita alle sepolture di big Willy e dei suoi parenti nella chiesa, in posizione preminente e sorvegliata da premurosi volontari chiacchierini, e viene l’ora per me di tornare a Birmingham con la bislacca compagnia ferroviaria, tornando così alle mie consuetudini serali locali, ovvero un po’ di tempo al The Old Joint Stock con qualche cibo annesso, due chiacchiere con qualche avventore, una sosta per strada tornando a casa all’Anchor Inn, bella tana per disastrati, una freccetta e via all’unico albergo accessibile in città, un Ibis Budget al di sotto delle centocinquanta sterline per notte, va’ a capire come campi qua la gente. Io per oggi e per questo giretto ho dato. Mi mancherà tutto questo domani.


L’indice di stavolta

uno | due

minidiario scritto un po’ così di una scappata inglese: uno, il seguito dei canali mancuniani, bacon&beers, blobitecture e pies a qualsiasi ora

Mesi fa, mentre leggevo eccitato del nuovo tour dei Jet e del singolo e del disco, mi interrogavo su quale data sarebbe stata più piacevole per tornare a sentirli: le comode Milano e Roma? Bristol? Londra? Belfast, Glasgow, Manchester, Nottingham? Posti in cui sono già stato, a Nottingham ci andrò a dicembre a sentire Paul Heaton – caravanovlooov, per chi sa -, allora opto per l’unica restante: Birmingham. Me l’ero promesso a novembre dell’anno scorso, «Birmingham, un’altra volta». Che poi, se averli sentiti a Manchester nel 2018 aveva completamente senso, Birmingham non è da meno, essendo la città di Spencer Davis Group, Traffic, The Move, The Moody Blues, Judas Priest e Black Sabbath, Robert Plant e John Bonham, ci siamo capiti, Martin Barre, Electric Light Orchestra e Wizzard, Joan Armatrading, Duran Duran, Fine Young Cannibals e Dexys Midnight Runners, grandi, Charlatans, Ocean Colour Scene, Editors. Sì, li volevo dire quasi tutti. E bisognerebbe indagare meglio la relazione tra musica e città industriali, forse evasione?
Poi me ne dimentico.
Poi passano mesi, come accade di solito, viene ottobre e il mio calendario mi ricorda l’appuntamento. Beh, pronti. Nonostante un micidiale ritardo dovuto alle fottute compagnie low cost che non sono più low cost ma che mantengono il servizio low, sei ore e un vago cidispiace molto poco sentito, arrivo a Birmingham e mi preparo all’esplorazione, osservando a tarda notte un bel mural di Peaky Blinders con la facciona di Oppenheimer. Fortuna che mi attende una full english breakfast come si deve davanti alla New Street Station, un millecinquecento calorie per affrontare la giornata con animo sbarazzino, bacon spesso del nord, sausages, fagioli, omelette, fette di pane cotte nel burro e pomodoro e funghetti che danno l’illusione della verdura. Ripetere poi per altri due giorni consecutivi, fatto, anche in caso di allucinazioni e tachicardia. È che mi dicono: «Hi, goodtoseeya» con tono caloroso già dalla prima volta e niente, io rapito da tanta cordialità sconosciuta nel nordest-produttivo-locomotiva-deuropa-seee e quindi poi torno riconoscente.

Va bene, ora le calorie c’è da consumarle. E cosa di meglio del vero motivo per cui sono qui – i concerti sono l’innesco -, ovvero la parte industriale di Birmingham, soprattutto i canali? La zona delle midlands e il nord, quindi Liverpool, Manchester, Birmingham, Leeds, Sheffield furono i centri della rivoluzione industriale, le macchine utensili e le macchine motrici, le industrie tessili e l’industria pesante, metallurgica e meccanica, il carbone, fino a Engels e poi Marx e l’impero e insomma, mica è una guida questa e non devo fare tutto io, qui. Ma il carbone e poi le merci e le materie prime bisognava trasportarle e così la parte centronord del paese fu disseminata di una formidabile rete di canali navigabili che esiste tutt’ora, dal Birmingham Canal, il mio obbiettivo, che si immette e riceve, per dirne alcuni, da Coventry Canal, Grand Union Canal, Staffordshire e Worcestershire Canal, Stourbridge Canal, Worcester Canal e ne ho detti un po’. Il mio personale filo conduttore, quindi, inaugurato a Manchester e la sua poderosa industria, proseguito a Liverpool e i canali artificiali che le collegano, prosegue qui, a Birmingham.
La camminata mattutina lungo i canali e le diramazioni e le isole è davvero strepitosa, ha anche smesso di piovere, si affaccia il sole e non c’è quasi nessuno, io adeguo il respiro al passo, sgombro la mia mente affollata, mi godo la brezza, osservo e ascolto musica, raccolgo stimoli e prendo le strade che più mi ispirano.

Se non è bello questo, non so. Passo sotto al Black Sabbath bridge, sì è per quello, e rientro nella parte della città fatta di strade e di zone meno perfette, la famosa biblioteca postmoderna, la piccola cattedrale, la blobitecture dei magazzini Selfridges – a proposito: c’è una bella serie su questo -, il campus universitario, enorme e verde e accogliente, i centri commerciali del centro a ridosso delle stazioni nel pezzo più disastrato del centro città. Come tutte le città industriali ottocentesche, oggi è piuttosto disarticolata, gli anni sessanta e ottanta hanno rimpiazzato l’esistente senza scrupolo né decenza, i novanta e gli zero hanno scavato solchi e fossati nel tessuto urbano, grattacieli fatti per non durare, oggi un po’ e un po’, qualcosa si recupera. I servizi hanno rimpiazzato le armi, le auto, i gioielli,

Qualcosa però resta e tra ciò una magnifica salona prima biblioteca nel 1862, poi banca e poi, adesso, pub con annesso teatro e, il pub, cucina aperta da mezzogiorno alle nove di sera ininterrottamente. Sebbene l’atto di mangiare sia ampiamente sopravvalutato, poterlo fare a qualsiasi ora ha un che di scandalosamente appropriato, alla faccia dei rigorosi riti mediterranei. E siccome posti così bisogna onorarli e contemplarli con calma e posa, una birra e una pie alle cinque del pomeriggio non me le toglie proprio nessuno.

Anche perché io tra poco scendo in pista, ho il concerto, ho la semirissa con gli amici inglesi, devo essere pronto. Che bella abitudine hanno, tra l’altro, di bere le cose fino a un terzo e poi tirare contenuto e bicchiere dove capita, proprio bella. Ma è così, è un concerto rock, questa è l’attitudine, come dicono loro. Quindi, adeguarsi, dentro nella bolgia sapendo che, comunque, alla fine sono leali, e un sorriso e un abbraccio alla fine degli urti, degli spintoni, dei bicchieri volanti e delle grida, arriva sempre senza bisogno di metter mano al coltello come invece faremmo noi italiani. Oh, look what you’ve done / You’ve made a fool of everyone / Oh, well, it seems like such fun / Until you lose what you had won. E poi questi hanno tutti la mia età, sopra e sotto il palco, lo scontro è pari. Fatevi avanti.


L’indice di stavolta

uno | due

dai dai dai che ci siamo

«Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonche’ la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?». Sì, cazzo, sì.

Manca pochissimo, qui.

Ore 16:26: è fatta. Dai.
(ore 17:03 siamo a 514.431, magnifico). Già sento le lagne sulle cinquecentomila firme che sono poche.

la musica delle stagioni, estate 2024

Finalmente è finita l’estate e con essa la compila estiva, ventisettesima personale parlando di stagioni. I brani sono cinquantasei e la durata tre ore e tredici minuti, ovvero non per il caso il tempo esatto che io ci metto a correre il chilometro lanciato.

Aprire con i Kinks e chiudere con i Simple minds già non è di per niente male, inserendo sia qualche brano di gente che sono andato a sentire quest’estate, Simple minds appunto, Suzanne Vega, Bombino, I hate my village e così via, oltre alle nuove belle scoperte. Non vuol dire necessariamente nomi nuovi, vuol dire canzoni finora sfuggite o riascoltate con sorpresa. A partire dalla prima.

Fermo restando che non ci sia musica migliore dell’elettropop balcanico, preferibilmente jugoslavo, qualche altro pezzo decente qua e là in effetti c’è, magari ci ho preso con qualcuno, Daria Zawiałow o Jain o Laura Marie.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) | primavera 2024 (59 brani, 3,4 ore) | estate 2024 (56 brani, 3,1 ore) |

E l’autunno si preannuncia goloso, come sempre, con Les negresses vertes, Jet, Paul Heaton, Zutons già belli pronti sui piatti per me. E la compila è già partita. Dai che va tutto bene.

59 secondi di… rotonda nel nordest produttivo

La rotonda di Belluno sul Piave nel nord est che produce. Forse non così centrale da poter trarre dati commerciali dalla frequenza di furgoni bianchi.

Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più bustrofedica dell’isolato, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.

Tutti gli altri 59 secondi | pleilista

minidiario scritto un po’ così di un breve giro baltico: tre, relitti, il mare, la costa di là, settembre

Nel 1980, per le olimpiadi di Mosca, tutte le discipline a vela furono svolte a Tallinn. Ha senso, era il mare più vicino a Mosca o quasi, diciamo. Tra le strutture costruite apposta, oggi brilla la Linnahall, un enorme auditorium piazzato proprio sul mare in aggraziato cemento armato com’era uso. Dopo qualche breve momento di celebrità, dopo le olimpiadi intendo, ovvero qualche concerto post indipendenza tipo i Duran Duran, restò lì dove Mosca l’aveva messo e lì sta. Anche perché a questo punto non si sa bene che farne, troppo concreto per farlo saltare, irrestaurabile e lunghissimo e costoso da demolire.

Un bel relitto del passato spiaggiato. Ma non mancava nulla al classico corredo dei paesi socialisti dipendenti da Mosca, per esempio l’enorme e visibile dappertutto torre della televisione, versione ridotta, non di tanto, di quella di Berlino est. Che è a sua volta la versione contemporanea, novecentesca e tecnologica, dell’analogo palazzo dell’informazione, l’incombente grattacielo che domina invece a Varsavia e a Riga, per esempio. Una rappresentazione simbolica di come tutto arrivasse alle onnipresenti orecchie di Mosca e del governo centrale, il concetto oppressivo di ‘informazione’ come quello di ‘amicizia’ nei ponti come quello di Narva.

Piglio le mie carabattole e mi accingo al ritorno, seppur per la via larga. Ovvero traghetto per attraversare il mar Baltico dritto qui davanti e arrivare a Helsinki. Ottanta chilometri, dritto. Una volta c’era l’elicottero da Tallinn, anzi dal suo aeroporto, a Helsinki, sopravvolando il mar Baltico. Dopo l’incidente nel Golfo di Finlandia nel 2005 fu però sospeso e io mi dico peccato che un giro l’avrei fatto volentieri. Come l’elicottero dall’aeroporto JFK al Pan Am building, che bello sarebbe stato, non fosse che anche lì fu un disastro. Traghetto. Che anche l'”Estonia” nel 1994, nzomma.

Vent’anni fa lo presi in direzione contraria e ricordo una cosa specifica, vediamo se è ancora così. Lo è. Sulle banchine del porto di Tallinn sono sparsi parecchi grandi magazzini che vendono alcolici nelle più svariate forme. Ma grossi. Che ci si chiederebbe, non fosse che si capisce subito: frotte di finlandesi con carrellini vengono qui a fare rifornimento. La disparità di prezzo dev’essere tale che il costo del traghetto, poco peraltro, diciannove euro, non influisce sul senso della trasferta. Anche perché la legge finlandese stabilisce sì delle soglie ma, come dire?, piuttosto lasche: settanta litri di birra a persona, novanta di vino, dieci di superalcolici.

Perlamadonna, settanta? Novanta? E io che se bevo due medie di fila faccio voti di castità alcoolica per sempre in nome della medicina moderna? Ci penso talvolta: ma quanti ne avrà salvati internet, nelle province a nord della Scandinavia?

Probabilmente il costo del traghetto per l’auto e le soglie consentite suggeriscono il viaggio a piedi – non so, magari la stiva è piena di auto traboccanti di gin -, considerando che settanta litri di birra sono duecentodieci lattine il trasporto a piedi diventa persino impossibile. Questo per stare a un modesto consumo settimanale, immagino.

Vieni, amore, che per la domenica padre-figlia ti porto a fare una bella gita a Tallinn, che accompagni il papà a prendere una cosa che gli serve.

Bene, accomodato in una delle tante marine di Helsinki mi godo l’aria e il vento del Baltico, il cielo del Baltico, entrambi fenomenali, il sole del dappertutto, le aringhe, marinate e fritte, sempre del Baltico, insomma è il mio mare, anche lato finlacchiese. E la vista delle navi rompighiaccio, che già mi fa fresco. E mi godo gli ultimi scampolini di questa minifuga, ogni occasione è buona e da prendere. E anche l’immancabile insalata a predominanza cetriolo, ma com’è possibile? Può essere nominato la verdura universale? Lo trovavo in cima al Tajikistan come al fondo della Baviera o al centro della Cina o lungo le coste del Sudafrica. Ma cresce ovunque? Con e senza acqua? Può? Il mondo è cetriolo, in certe parti ti danno l’acqua aromatizzata a esso, è in tutti i big Mac dell’universo, li dovrei mettere anche sugli occhi, pickle Rick. Che poi si mangiano due chili di carne stracotta nel vino e panna acida con due litri di birra e quel ruseghino di notte, si, maledizione: è il cetriolo.

E mi godo l’art noveau declinata alla finlandese e, soprattutto, il modernismo del nord, notevole, e qualche Alvar Aaltata, tra cui il bar nella libreria accademica, Akateeminen Kirjakauppa, bella lingua e magnifici libreria e bar, persino le maniglie.

Che poi non conosco molti paesi come la Finlandia che siano passati in pochi anni dall’avere le pezze al culo – gergo economico stretto – alla ricchezza spalmata su tutto e tutti, parlo di Nokia e del benessere diffuso per i cinque milioni di finlacchiesi, e come con la stessa velocità abbiano poi perso parecchio, facendo il percorso contrario. I paesi arabi col petrolio, mi verrebbe da dire, ma le moli sono diverse e la durata pure. Oggi Nokia è un industriona, per carità, e un capolinea del treno, fantasia, ma non più il colosso di una volta. Come avere il novanta per cento del mercato e mancare la svolta fondamentale, il caso viene illustrato nelle università. Abbastanza europeo, direi, come approccio generale.

Per carità, intendiamoci: avevano veramente le pezze decenni fa, con un’autonomia di un secolo e il peso russo a fianco, ora per quanto l’epopea Nokia non sia più florida hanno comunque un pil nominale maggiore del nostro. Sono pochi, certo, questo aiuta.

Il telefono ha ricominciato a squillare, le mail ad arrivare, i messaggi, le proposte dei contratti energetici, è decisamente lunedì ed è decisamente settembre. Se io fossi una persona furba, proprio per questi motivi mi dileguerei ancora più lontano ma tanto furbo non sono, per cui piglio la strada di casa. Ma oh, certo che appena vedo uno spiraglio telo, chiaro, e mi tengo sereno la tariffa del gas peggiore.


L’indice di stavolta

uno | due | tre |

minidiario scritto un po’ così di un breve giro baltico: due, folklore vario prima dei confini veri

Un classico dei paesi dell’est sono le biglietterie dei treni che vendono anche alimentari. Di solito presidiate da donnone arcigne di mezza età la cui espressione massima è il monosillabo gnnghrf che vendono variamente biglietti del treno, patatine e cioccolata, senza sentirsi in apparenza sminuite. Spaccare qualche faccia, magari, quello sì.

In questo caso c’è un supermercatino vero e proprio e un’elegante sala di attesa prospicente. E in questo caso la signora della biglietteria mastica l’inglese, cosa non solo non scontata ma solitamente improbabile. I binari sono a scartamento europeo e non russo, ben più larghi, non credo sia così in tutto il paese. Ma i treni li fanno comunque più larghi, comodi. E a differenza di altri paesi baltici, la Lettonia per esempio, la minoranza russa non è del tutto ostracizzata e a fianco di tutto quanto scritto in alfabeto latino si trova qua e là il cirillico, indicazioni, nomi, alcuni giornali. Alla fine, tra russi, bielorussi e ucraini sono il venticinque per cento della popolazione.

Che è, complessivamente, meno di un milione e mezzo di persone. Niente male. Al momento la stagione offre frutta grandiosa tra cui brillano lamponi e mirtilli, oltre che finferli. Non proprio a buon mercato, come quasi nulla qui – indice internazionale cappuccino: quattro euro, però ne vien via un tolotto – ma son ben spesi, enormi e succosi. Il pentimento poi.

Sul tabellone delle väljumised appare il mio treno, vado. Per l’inevitabile e solitamente umiliante spazio-civiltà, segnalo che sull’espresso su cui viaggio, unica categoria di treni esistente a parte il transbaltico europeo, non solo ci sono spazi per passeggini, biciclette e bagagli, prese elettriche, moquette ben tenuta, ma c’è anche la macchinetta, oltre che per valideeri il biglietto, per comprarlo proprio. Sul treno. E devo dirlo? Manco un telefono che suona, mai. Qualcuno che parla, raro e a bassa voce, ma suonare mai. MAI.

Signore, perché ci mescoli così male? Fuori piove, ci sono tredici gradi e le mie due ore di treno a guardare il paese fuori dal finestrino sono veramente un’ottima idea. In generale, oggi ancor di più. Bosco, bosco, Tapa, bosco, gruppo di case nel bosco, Rakvere, bosco, lago, bosco, Kiviöli, bosco. Mi torna la ricorrente tentazione di una casetta georgiana in legno in un villaggio baltico, tra la pineta e la spiaggia. Betulleta. Magari un mese, prima o poi. Fine del pezzo di costume.

Il treno ferma e non c’è un dove, oltre. La Narva, un bel fiumone, secondo nel golfo di Helsinki dopo la leggendaria Neva ghiacciata, scorre tra due alte rive e rupi e divide due imponenti fortezze, Narva e Ivangorod. Esse si fronteggiano da secoli, a partire dal dodicesimo secolo, quando il re danese ne fece il confine delle proprie conquiste, rispetto a ciò che vi era di là, un pericolo oscuro e costante, fossero russi o, in quel momento, l’Orda d’oro mongola. Poi furono l’ordine teutonico, gli svedesi, Nevskij e la Livonia, fu costruita anche l’altra fortezza e da allora si guardano per rive opposte quando la Russia o la Svezia recedevano. Lo storico ponte che univa le due sponde fu distrutto nella seconda guerra mondiale nella battaglia di Narva, una delle più terribili, che distrusse la città stessa, una volta famosa per il barocco tipico e chiamata ‘la perla del Baltico’. Niente più perle, niente più barocco. Dall’indipendenza, le due fortezze si guardano da Russia ed Estonia e il ponte che le unisce, chiamato con il tipico sarcasmo sovietico ‘dell’amicizia’, oggi fa da terra di nessuno. Come quello tra Uzbekistan e Afghanistan poco tempo fa, stesso nome e stesso tipo di amicizia.

L’amicizia oggi si percorre solo a piedi e dopo innumerevoli controlli. Se Istanbul è uno dei varchi aerei per la Russia, questo è uno di quelli pedonali, ancora un confine a piedi, coincidenze. Una galleria fatta di rete e filo spinato passa sul ponte e porta di qua e di là. Non essendo belligeranti UE e Russia, il confine non è chiuso. Una lunga fila di persone aspetta di entrare in Russia, la maggior parte ha l’aria di persone venute di qua con un trolley per riempirlo di cose. Ma non è detto, alcuni sembrano proprio turisti. E anche in uscita, in effetti.

È pur sempre una frontiera, non è che ci sia molto da far domande anche se una ragazza orientale mi dice sbrigativamente di essere in effetti una turista in uscita, andandosene prima che io menzioni la guerra. Mentre da un bastione osservo la fortezza di là, scorgo chiaramente un gruppo di visitatori su un mastio, hanno ombrelli e stanno ascoltando la spiegazione di una guida. Stanno certamente ascoltando le stesse cose che io ho appena letto, da prospettiva diversa, animati dal desiderio di sapere. Lo stesso mio desiderio, cosa che ci lega. Ma io di qua non posso andare di là e viceversa, io non posso visitare la loro fortezza e loro la mia, l’assurdità definitiva di un confine.

A seguito dell’indipendenza dell’Estonia nel 1920, al crollo dell’impero russo, e del trattato di Tartu, secondo l’articolo 122 della Costituzione estone il territorio di Ivangorod apparterrebbe ancora all’Estonia, visti però i rapporti tesi tra i due paesi la frontiera non è stata ancora riconosciuta dai russi. Stranamente. A parte le zone limitrofe al ponte, il resto del confine non è cintato, a parte i punti sensibili come la centrale elettrica, si può quindi nuotare o imbarchettarsi e andare di là. Però i cartelli multilingue parlano chiaro: quindici anni se si viene beccati di là senza visto. Ma poi chi andrebbe di là solo per vedere? Sano di mente, intendo, quindi non io, che scruto la riva facendo piani e sono venuto fin qui apposta per vedere di persona.

Un tizio pascola il gatto al guinzaglio e io è meglio mi trovi un caffè dove farmi asciugare e aspettare qualche ora il tardo treno per tornare a Tallinn, che il buio e il freschino e la pioggia incalzano.


L’indice di stavolta

uno | due | tre |

minidiario scritto un po’ così di un breve giro baltico: uno, ancora?, questa cosa irrisolvibile dei confini, l’aria di questo mare

Sto contemplando la fortezza di Ivangorod, al di là del fiume Narva. Il fiume fa da confine da non molto, sono trent’anni, lo era stato prima, per la breve indipendenza degli anni Venti, con la Svezia ancor prima, per secoli è stato solo un fiume da valicare, ora però è un punto molto caldo. Perché di là è Russia e di qua no.

Vado con ordine, ricomincio dall’inizio. Colgo la palla al balzo di un piccolo appuntamento per dare al me stesso del presente ancora qualche giorno di vagabondismo, che il rientro si preannuncia intenso. Tornato dal Tajikistan, qualche giorno di lavoro fatto, sbrigata un’incombenza fastidiosa, attaccate le calamite al frigo, lavato tutto, dai che tre giorni ci stanno ancora. E siccome da parecchio vorrei vedere il confine di cui dicevo, e qualche giorno al fresco lo passerei volentieri, anche in prigione, rimollo gli ormeggi e organizzo il girino.

Tallinn per cominciare. Estonia, la repubblica baltica più a nord, anch’essa sul mar Baltico che chissà perché tanto mi attrae. Che aria, qui. Sfogliando la guida, mi porto qualche libro da scorrere, alla ricerca di qualche notizia utile: il fresco-fresco The Baltic revolution: Estonia, Latvia, Lithuania and the path to independence di Anatol Lieven, fresco nel senso che è del 1993, fresco di indipendenza; l’interessante Remains of the Soviet Past in Estonia: An Anthropology of Forgetting, Repair and Urban Traces di Francisco Martinez, che non deve aver vissuto direttamente le vicende, a occhio. Tralascio i trattati sui castelli dell’Ordine teutonico nei paesi baltici, magari più avanti, e altrettanto avanti il tremendo Bang Estonia: How to Sleep with Estonian Women in Estonia di tal Roosh V – specialista nel tema con altri saggi come Game: How To Meet, Attract, And Date Women e Day Bang: How To Casually Pick Up Girls During The Day – in cui sono incappato per caso, e resterò con il dubbio sul capitolo: Why Estonia’s entry into the Euro zone has made your seduction mission harder che, chiaramente, non leggerò. Chissà perché, comunque.

Chiaro che qui la questione russa è all’ordine del giorno da secoli, mica da ora. Per lungo tempo questa è stata Russia, URSS, zarista e bolscevica, in tutte le declinazioni. San Pietroburgo è lì, in fondo al golfo, aguzzare lo sguardo, in tempi normali pullman e traghetti partivano ogni mezz’ora. E io no, dai, ci sarà occasione, pensando le cose immutabili in Europa. Bravo, furbo.

Russa come svedese come danese come d’ordine teutonico come prussiana, le questioni qui sono state tante, più facile continuare a pestarsi i piedi in un mare chiuso come il Baltico o il Mediterraneo, la lega anseatica resta invece un modello irraggiunto di organizzazione e coabitazione. Certo, ogni tanto ci si radeva la città al suolo vicendevolmente ma il tenore generale era di commercio cordiale. In Estonia le città devono avere per legge nomi di cinque lettere, Tartu, Narva, Pärnu, Valga, Keila, infatti Tallinn è capitale perché ne ha sette. Tartu tra l’altro è in fibrillazione perché quest’anno è capitale europea della cultura, ne dicevo tempo fa perché ormai questa cosa pare la promozione europea di paesoni senza troppe prerogative. E infatti qualche giorno fa, per cultura, hanno inaugurato il festival del bacio. Dell’analoga norvegese non so ma non credo faccia faville.

Tallinn vent’anni fa era una città abbastanza conservata, al centro medievale anseatica con aspetto generale tedescheggiante, attorno russa per porto, magazzini, fabbriche. Complessivamente abbastanza dirupata. Oggi è una città turistica che ha beneficiato grandemente dell’entrata in Europa – nessuno è più europeista delle repubbliche baltiche, che non sono russi, non sono tedeschi, non sono polacchi, non sono finlandesi o scandinavi, sono appunto baltici e temono tutto l’attorno -, gradevole da girare e in cui trascorrere un po’ di tempo. Meno fascinosa di Riga, più di Vilnius. Ha degli scorci belli.

Per quanto riguarda il recupero delle fatiscenze industriali, aggiungiamo una tappa obbligatoria alla deportazione dei nostri assessori all’urbanistica, dopo Lodz, Kaunas, Poznan, Varsavia, così che vedano come fanno qua fuori.

Non dico debba piacere ma, qui, non radono al suolo per costruire centri commerciali affetti da infantilismo, già vecchi e dalla vita breve, recuperano bensì a borgo, con gli edifici della fabbrica che sono di volta in volta uffici, alberghi, negozi, cinema e così via. Un altro piccolo centro città che si gira come lo giravano gli operai e gli impiegati. Dico solo di venire a vedere, prima. Le notti migliori in Europa le ho sempre fatte in alberghi dentro ex fabbriche, che ho scelto apposta perché sono più belli, non necessariamente di lusso. Da noi no, fabbriche brutte, inventarsi passato nobile e secondo tradizione.


L’indice di stavolta

uno | due | tre |