minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: cinque, scampagnata in collina, corse per la benzina, la città santa

Aderisco prontamente a un’escursione locale alle pendici dell’Atlante, per vedere una piccola oasi incastonata nelle rocce e fare una camminata un po’ in su. L’autista del fuoristrada mette subito le cose in chiaro con la radio, un movimiento secsi, eeamacarena, alè e via a novanta all’ora su una strada ricoperta di sabbia, con Hello Kitty che dondola dallo specchietto. Sono numerosi i letti dei fiumi in secca, non capisco se facciano parte di un’epoca ormai finita o se siano a carattere stagionale, vedendo i villaggi abbandonati a fianco temo sia la prima che ho detto. Dopo una breve salita a piedi sulle rocce, dopo una quarantina di minuti arriviamo alla sorgente e vedere come con l’acqua, anche poca, la vita fiorisca persino nei posti più inospitali è commovente.

Al punto di partenza è pieno di bancarelle che vendono paccottiglia, rose del deserto e fossili a niente, bicchieroni di succo di dattero da iperglicemia istantanea. Seguendo il rigagnolo verso i laghi salati arrivo persino a una cascatella, ‘la grande cascata’ delle guide locali.

Addirittura alcuni vendono la palma, a mazzetti di due, maschio e femmina, piccoli bulbi con lunghi getti. Assicurano la vitalità fino alla piantumazione in Italia. Eeelagasolina e giù a rotta di collo, passando per Nefta verso Tozeur. In un albergo a dir poco sontuoso cerco di contenere le mie abluzioni allo stretto necessario ma la vasca che vedo in camera tradisce altre consuetudini. La piscina fuori pure, qualcuno mi parla anche di un campo da golf negli anni Ottanta. Bravi, davvero, tutto ampiamente tramontato.

Parto presto per Sbeitla, l’antica Sufetula, città romana nel deserto caratteristica per il capitolium a tre templi invece che tre sale e per i santuari bizantini sorti poi nei templi della città stessa. Il passaggio non fu traumatico, dicono gli archeologi, avenme quando i templi erano ormai abbandonati. Esattamente come le strutture artigianali dei vandali si installarono tra le mura di edifici romani ormai lasciati a sé stessi. Non è raro, dunque, vedere battisteri e fonti battesimali all’interno di templi ed è sicuramente più facile comprendere il passaggio dalla basilica romana alla basilica cristiana e persino alle prime forne di moschee, che tutte condividono lo stesso impianto architettonico. Il luogo, nelle cosiddette ‘steppe alte’, zona poverissima oggi un po’ recuperata alla produzione di olio d’oliva, è al centro di molti crocevia, fu infatti teatro di un’importante battaglia tra arabi e bizantini per dominio del nordafrica, fino ad americani e tedeschi pochi decenni fa.

Lungo la strada rischiamo un incidente con un’auto senza targa che compie una manovra del tutto azzardata. Sono i contrabbandieri di benzina, mi spiegano, in questo caso dall’Algeria. Là costa meno, riempiono l’auto di taniche e la portano di qua. Ancor più conveniente, ma più pericoloso, con la Libia. Queste auto senza targa sono disposte a tutto pur di non fermarsi, non conviene litigarci, la manovraccia che ci hanno fatto non è solo aggressiva bensì dimostrativa. Uno spasso fare un incidente con un’auto piena di benzina. A un certo punto, il progetto di unione tra Libia e Tunisia arrivò talmente a buon punto che mancavano solo pochi giorni alla firma nell’isola di Gerbah nel 1974. Aveva anche senso per molti motivi, data la somiglianza tra i due paesi per molti aspetti. Alla fine, Bourguiba temette – a ragione, probabilmente – la stretta mortale di Gheddafi, che avrebbe tenuto per sé il comando militare, e si tirò indietro.

Vado a Kairouan, la città santa, prima città araba fondata in nordafrica, nel 670. A pianta circolare, come poi sarà Baghdad, fondata dopo, riprendendo il modello dai persiani e di impianto militare. La città è affascinante, la medina è ricca e varia, la giro con piacere, ed è dominata dalla Grande Moschea, il più grande campionario esistente di colonne romane, bizantine, arabe e di risulta. Il minareto, come la moschea tra i più antichi essendo anch’esso del VII secolo, ha ancora la forma del faro di Alessandria, come il termine stesso, ‘minareto’, manār, lett. ‘faro’, suggerisce. Essendo la scuola tunisina molto rigida, non si può entrare mai nella sala di preghiera, a differenza per esempio delle moschee turche o iraniane. Tutta la città è di fondazione aghlabita e uno dei lasciti più impressionanti sono le due gigantesche cisterne, essendo la città in zona desertica e sorta per scopi militari. Faccio fatica a calcolare il diametro di quella grande, direi almeno cento metri, forse di più. Un lago.

Il resto alla prossima.

minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: quattro, tramontismo, geotermia, sale e treni

Attraverso ormai il vero e proprio deserto, arrivo a sera a Douz, la cosiddetta ‘porta del deserto’. Infatti, nei primi margini della città si alternano persone in contemplazione delle dune, carovane di turisti alle prese con l’esperienza dondolante del dromedario, file di motociclisti cui piace sentir scodinzolare la moto sulla sabbia e pirla coi quad. Basta però, come sempre, allontanarsi di poco per ritrovarsi soli tra le dune fatte di una sabbia finissima giallo-rosa, a seconda dell’inclinazione della luce. Appurato che con gli scorpioni non si muore, vagolo fino al tramonto.

Svuotate le scarpe e le calze dalla sabbia e subito riempite di nuovo – l’uso delle ciabatte nei paesi desertici ha un suo proprio senso -, riparto la mattina dopo in direzione ovest, verso la meta più meridionale e interna del mio viaggio, a pochi chilometri dal confine algerino e alle pendici dell’Atlante. Non c’è un vero e proprio trasporto pubblico in queste zone, tocca appoggiarsi o a piccole compagnie turistiche, spesso familiari, o a tassisti o possessori di auto e concordare un trasporto. Le strade sono abbastanza percorribili e costellate dai classici dissuasori ogni poco che ho visto dal Marocco all’Egitto. Il pullmino fa una sosta in una località imprecisata in cui una scassata e incrostata costruzione di cemento armato un po’ inquietante consente il pompaggio e la fuoriuscita di acqua bollente dal sottosuolo. Pozzi profondi fino a cinquecento metri pescano acqua a più di cinquanta gradi nel deserto e la depositano in labirinti concentrici di cemento allo scopo, deduco, e di raffreddarla e di far depositare lo zolfo così da poterla utilizzare per l’irrigazione di qualche piccolo campo vicino. Un signore tranquillo si sta lavando in una delle vasche di decantazione e posso immaginare sia un’esperienza piacevole, almeno fino al nostro arrivo.

Mi impressiona il fatto che non ci sia un orizzonte, la pianura prosegue fino al cielo senza che si possa distinguere una fine, un confine. In Europa, a parte forse certe pianure in Ungheria o Polonia o Bielorussia, ma mai veramente così, c’è sempre una montagna, collina, qualcosa che fa da limite. Questa è la zona del limes romano, fortificato da castra e controllato dai soldati per contrastare le incursioni dei predoni e delle popolazioni nomadi dal sud del deserto. Proseguendo nel nulla, attraversiamo la zona dei grandi laghi salati, quattromila chilometri quadrati di sale, tipo Utah per capirci. Sono detti laghi perché lo erano e sotto c’è ancora certamente acqua e quando piove ne resta in superficie per alcuni giorni ma a vederli in condizioni normali sono distese biancastre illimitate in cui non c’è alcuna forma di vita, tranne tizi di passaggio.

Parte del sale dei laghi viene estratto ed esportato al nord, Canada, paesi scandinavi, nord Europa, per essere sparso sulle strade in caso di neve e ghiaccio. Te pensa. Comunque non manca alcun comfort.

E finalmente nel primo pomeriggio arrivo alla meta, Tozeur, epperinistante ritorna lavogliadivivere aunaltravelocità, limite oltre il quale certe zone potrebbero diventare pericolose. Con i suoi tipici mattoncini d’argilla, la città, al confine tra i laghi salati, la sua oasi ed enorme palmeto – si dice partissero mille cammelli al giorno carichi di datteri nei tempi gloriosi – e le propaggini dell’Atlante, ha conosciuto grande turismo e frequentazione alcuni decenni fa, Battiato fu forse uno di quelli. Oggi, dopo gli attentati del 2015 e il covid, sono moltissimi gli enormi alberghi abbandonati e fatiscenti, simbolo di un’epoca noncurante. Il centro della città è ancora molto affascinante, le case, i portali e i vicoli invitano a passeggiare. Ma la vera domanda, ovviamente, è: passano ancora lenti i treni per Tozeur?

La risposta è che non solo non passano lenti ma non passano proprio, una parte della rete ferroviaria coloniale è stata del tutto dismessa. Tant’è che staziono per un po’ in mezzo ai binari senza temere di essere travolto da un treno, per quanto lento. Tua madre mi vede, si ricorda di me, delle mie abitudini. Più lenti di così.

minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: tre, verso l’interno, su un altro pianeta, un popolo diffuso

Che in certi paesi il maiale, porello, sia del tutto bandito non è una novità. Cioè, buon per lui chiaramente. Nei paesi privi di maiale e privi di pascoli, esso viene sostituito dall’agnello, raramente, e soprattutto dal maledetto pollo. Maledetto perché io non lo posso mangiare. Se se ne stesse lì, visibile, identificabile, sarebbe facile: lui è lì, io lo vedo, lo evito e amici come prima. Ma no, spappolato e frullato e disciolto sta dappertutto, il fottuto pollo. Ed è così che sono caduto su quella che pareva un’innocente zuppa di pesce. Amen, quante insidie nascondono i viaggi.

Inutile piangere sul pollo versato, qui c’è da trottare verso sud, verso il deserto, verso la vita a un’altra velocità, verso le corriere se e quando partono. Solita manciata di datteri in tasca, che così si incolla tutto, e pezzettone di pane, che è ottimo e devono avere appreso dai francesi. Senza l’uso dell’ascella. Prima tappa, la città più ricca e grande della romanità in Tunisia e, probabilmente, del Maghreb: El Jem. Ma dovrei andare in Libia per esserne certo. Città con non uno, non due ma ben tre anfiteatri, di cui uno talmente colossale da essere un Colosseo – anfiteatro flavio – con tre posti in meno, il terzo dopo Roma, appunto, e Capua.

A sud dell’anfiteatro, è stato scavato un quartiere di ville nobiliari che ha restituito un tesoro di mosaici di altissima qualità e spesso di grandi dimensioni. I mosaici tunisini sono rinomati per essere tra i più belli e sofisticati del mondo romano, il museo del Bardo a Tunisi ne è la raccolta più importante. Anche il museo di El Jem, una decina di sale le cui pareti sono tutte ricoperte da enormi mosaici pavimentali, è strepitoso, le soluzioni artistiche sono di grande rilievo. Resto a bocca parecchio aperta.

Mi tocca andare a Sfax, una città industriale la cui la produzione chimica di fosfati ha rovinato gran parte della costa, dormirci per poi andare agevolmente a Gabes, porto fenicio di grande ricchezza citato da Plinio il vecchio, poi declinato lungo il medioevo per rinascere sotto la donastia ottomana dei Morabiti nel sedicesimo secolo. Oggi è nota per il mercato delle spezie, dei melograni e dei cappelli, sono esposti grandi cumuli di polvere verde che mi spiegano essere hennè. Notevoli le ceste di bucce di melograno e arancio, utili per produrre le acque con cui aromatizzare tè, bevande, cibi, per esempio le fragole, e lavarsi mani e faccia.

Ora comincia la parte più avventurosa e meno comoda del viaggio, verso il deserto. Mi serve una mappa dettagliata per affrontare tutto al meglio, una mappa con indicazioni puntuali e aggiornate. Per fortuna la trovo, posso partire.

La strada si inoltra verso l’interno, pian piano le poche piante spariscono, sostituite da cespugliotti e ovviamente sabbia. Prima sassosa e poi, anche qui gradatamente, diventa farinosa. Il territorio in cui sto andando è quello storicamente dei berberi. Che, esattamente come i barbari e per esattamente le stesse motivazioni, non andrebbero chiamati così, giusto. Il nome corretto è amazigh, uomini liberi, e in tutto il Maghreb sono circa trentasei milioni, farei conto. Man mano che il deserto diventa più deserto io guardo fuori e ho tempo per scrivere un paio di cose sui berb… amazigh. Con l’adesione di gran parte degli amazigh all’Islam si creò una religione islamica sincretista rispetto a quella ortodossa di Baghdad. Non tutte le tribù però si convertirono e lo scontro tra i convertiti e non, ovvero tra tribù e tribù, è durato fino al colonialismo francese. I territori che attraverso, dunque, sono riferibili a tribù differenti in epoche diverse e, come detto, persino di convinzioni religiose diverse. Mentre mi dirigo a Matmata, riporto le due cose che so sulla zona – niente rete e connessione, mai, avanti con le opinioni e ol tono convinto. La località più nota in zona è Tataouin, e ora che l’ho scritta so che qualcuno avrà già pensato a qualcosa di specifico. È così. Tataouin era chiamata ‘l’inferno’ perché è dove i francesi condannavano ai lavori forzati, a spaccar pietre nel deserto, chi ritenessero.

L’immagine credo renda abbastanza, l’ho scattata dal tetto di una stanzetta da tè in un villaggio amazigh mentre il vecchio gestore parla in lingua e mi mostra l’alfabeto, particolarissimo. Matmata, che è poco distante, è nota per le case sotterranee, scavate nella terra argillosa andando giù fino allo strato di roccia, così insieme da nascondersi e avere frescura. Allora i taluni chiamati Romanes non hanno inventato nulla a Bulla regia. Esatto. Tra le numerose case sotterranee ce n’è una che è stata poi il set di un film molto famoso, chi lo sa ha già intuito. Sì, Guerre stellari, l’episodio in qui l’Enterprise arriva… D’accordo.

Ovviamente il posto, che oggi è un albergo, è tutto pieno di spostati. Direi che Lucas e sceneggiatori abbiano pescato parecchio da qui dell’estetica e topografia del ciclo cinematografico. Queste case, furbe da ogni punto di visita, sono state battezzate dai francesi ‘trogloditiche’, nulla di più lontano. Oltre a suggerire una certa qual primitiva funzione, e così non è perché sono circa dall’anno mille in poi, si direbbero prive di ingegno e altrettanto non è, visto anzi che si tratta di una serie di soluzioni strepitose. Una signora, evidentemente esasperata dalle visite dei turisti, si è costruita una casa tradizionale, villetta in cemento armato col primo piano costruito a metà, a fianco della casa sotterranea e ci guarda da lì, turisti deficienti.

Lo stile calabresizzante è dovuto anche qui a ragioni di tasse, finché la casa non è finita non si paga. E indovina? Esatto. Nella foto qui sopra un particolare: i tipici mattoni cotti tradizionali della zona sono obbligatori, oggi, per ricoprire ogni costruzione, a patto ovviamente che sia finita.

minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: due, lo spiegone iniziale, un caffè, grazie, tanto non ho né soldi né documenti

Uhm, qui tocca pigliare il sacco in cima e fare un po’ di ordine per sommissimi capi sulla conquista degli arabi musulmani del nordafrica, altrimenti non mi ci raccapezzo. Milleduecento anni in un soffio.

Tutta al presente, saltare i prossimi due paragrafi in caso. Poco dopo la morte del profeta Maometto e la divisione tra sunniti e sciiti, il califfo Omar, due generazioni dopo, espande il califfato verso la Persia e verso occidente, Siria, Palestina, Egitto, nel biennio 641-42, il Maghreb, che in arabo significa ‘il luogo in cui cala il sole’, fino al Marocco alla fine del settimo secolo. E poi l’Andalusia, che è quel pezzettino di storia che conosciamo sommariamente. L’espansione procede per fondazioni di campi fortificati, simili ai castra romani e chi non aderisce alla fede islamica paga la protezione per mantenere le proprie abitudini. Adesso la taglio male e grossa, sicuro al quarantotto per cento di quel che vado dicendo: il Maghreb, occupato a quell’epoca da cristiani, romani, berbero-punici, in parte si converte all’Islam sunnita e in parte si forma una posizione terza, i kharigiti, cioè i fuoriusciti. L’eresia islamica del kharigismo si diffonde nelle zone isolate del nordafrica, molti berberi si convertono a essa. Essi però contestano l’autorità dei califfi, per cui da Damasco, ormai capitale, e poi con le dinastie successive da Baghdad, vengono inviati generali per reprimere i ribelli e nominato un governatore di tutta la zona del nordafrica, Aglab, dal quale ha inizio una dinastia di emiri che governerà la regione per un secolo. E che conquisterà la Sicilia nel nono secolo e qui qualche eco risuona. Califfo là, emiri qua.

All’inizio del decimo secolo gli aglabiti vengono attaccati dai fatimiti, una fazione di sciiti che seguiva un altro Imam, cioè la guida spirituale, con riferimento a Fatima, figlia di Maometto. Sono detti anche ismailiti, dal nome dell’Imam. Il proselitismo dei fatimiti si caratterizza per la presenza di missionari che si recano in tutto il califfato, per convertire gli sciiti ortodossi con il messaggio del ritorno del Mahdi, il profeta. I berberi aderisono in massa, formando di fatto un grande esercito con il quale i fatimiti conquistano tutto il nordafrica. Ecco, qui dovevo arrivare perché quelli che noi chiamiamo ‘gli arabi’ in questo caso sono i fatimiti, che danno forma e impronta alla dominazione araba sul Maghreb. In Tunisia essi, i fatimiti, fondano Mahdyya, la città santa, che farà da modello a molte altre città tra cui il Cairo, fondata sempre da loro nel decimo secolo. Di fatto, dunque, essi fondano un altro califfato nel decimo secolo, ed esso durerà per due secoli, fino a Saladino. La conquista andalusa, invece, di carattere prettamente berbero, costituirà il terzo califfato, rispetto a quello ortodosso di Baghdad.

Uff, questi sono baratri, voragini che mi si spalancano sotto i piedi, anche solo riassumere in poche righe quel che cerco di intuire non rende minimamente la complessità di questi mondi sovrapposti e affiancati. Ho tralasciato decine e decine di -ismi e sette e popoli e varianti che non ho mica capito dove stiano. E vorrei sottolineare come tutta ‘sta cosa mi tocchi spiegarla senza rete, non essendoci alcuna connessione, voglio dire. Comunque, spiegone fatto e almeno qualche punto l’ho messo. Passo la mattinata a Monastir, l’antica Ruspina, sulla costa nel Sahel. È una località marittima e turistica rinomata, oggi c’è vento e il mare ha uno splendido colore, complici le onde. Il mausoleo di Bourguiba, il primo presidente dall’indipendenza e padre della patria, racconta questa figura di innovatore laico e moderno, paragonato ad Ataturk per il progetto di progresso del paese. Vedo le scarpe, il telefono, l’agenda, il cappello di Bourguiba. Molto più interessante il Ribat, costruzione religioso-militare islamica medievale, una specie di convento fortificato come alcuni dei nostri, abitata da monaci guerrieri. In teoria la Sicilia dovrebbe esserne stata piena, al tempo della conquista.

Proseguo lungo la costa per Mahdyya, la capitale del regno della dinastia dei fatimidi. Costruita su una penisola rocciosa che mi ricorda subito l’Ortigia, si caratterizza per la medina fortificata al centro, il forte ottomano verso il mare e l’impressionante porto punico, anzi i porti, quello militare e quello commerciale. Secondo i cartelli, il primo poteva contenere fino a quarantacinque navi da guerra.

Nel museo, grandi esempi di architettura e arte fatimita, tra cui molta Palermo, quella che noi chiamiamo con grande precisione ‘araba’. Il duomo di Monreale, per esempio, o la cappella palatina, da non confondersi invece com l’architettura di committenza normanna, Federico II, con manovalanza fatimida, ovviamente posteriore alla  riconquista. Tutta tutta un’altra cosa. Mahdia, scritta semplice, è proprio bella, verrebbe da fermarsi qui per un po’ a bere caffè sotto le piante, ho già trovato il posto.

Ma no, proseguire. Registro un intoppo minimo, ossia ho dimenticato passaporto e soldi-euro a Tunisi, nell’accidenti di cassaforte dell’albergo. E me lo dico sempre di non usarle, che poi non ci penso. Poco male, comunque, la carta di credito ce l’ho, quella di identità pure, recupererò tutto alla fine, quando tornerò a Tunisi. La preoccupazione maggiore sarebbero le difficoltà in questura in Italia per il rilascio, mica qui. Figuriamoci. Il resto prossima parte, che per oggi ho cosato abbastanza.

minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: uno, verde e più verde, città cedute e prese, case con sotto case

La conversazione con Habib scivola sugli ultini decenni di governo tunisino, in particolare gli anni dopo la primavera araba del 2011, la più riuscita di tutto il nordafrica. La Tunisia, infatti, è senz’altro il paese più laico e democratico di tutta la regione, il presidente finalmente eletto con libere elezioni, la parità di genere maggiore che negli altri paesi, la libertà d’espressione non sono ancora in grado di valutarla, nemmeno superficialmente. Faccio presente ad Habib come la svolta dal 2020, post covid, sia stata letta in senso reazionario in Europa e non a caso Meloni è qui giorno sì giorno sì. Ribatte, lui, che il presidente si sia trovato in conflitto con un apparato statale profondamente corrotto, e non stento a crederlo, e che le leggi speciali servano a rimuovere uomini e settori resistenti al cambiamento. È preparato, Habib, non è, non sembra, allineato né timoroso di esprimersi, e anche quando sostengo che la liquidazione del parlamento mi paia un pessimo segnale in senso oppressivo mantiene la sua linea. Troppo presto per capirci qualcosa compiutamente, è un fatto però che le ragazze e le donne senza velo siano la maggioranza e che sia di fatto ormai una questione culturale e familiare.

Il pullmino corre verso nord-ovest tra colline molto più verdi e coltivate di quanto mi aspettassi. Certo, Sallustio me l’aveva detto, terre fertili, il granaio dell’impero, ma io pensavo meno. Gran campi di grano, uliveti a non finire – il piano governativo di raggiungere i cento milioni di piante, otto per ogni tunisino, è a buon punto -, qualche pineta di conifere appena si sale, papaveri, fondi qua e là e fattorie a presidiare il territorio. Non molti alberi, quello potrebbe già dipendere dalla pesante modifica che taluni chiamati Romanes imponevano ai territori occupati. Mucche multicolore, molte pecore, qualche paesello in lontananza. Uno straniero può acquistare una casa in Tunisia ma non la terra, quella la deve prendere in affitto.

In questa zona si raggruppano i bacini artificiali del paese per la conservazione dell’acqua, essendo il resto più a sud fondamentalmente desertico. Nonostante le forti piogge d’aprile, alcune abbastanza disastrose, il livello delle acque resta al trenta per cento della capacità complessiva e si prevede, anche qui e anche quest’anno, un’estate di siccità. Come gli altri anni, è facile prevederne il razionamento: dalle sei di sera alla mattina ciccia. Chissà che qualcuno da noi ne deduca qualcosa.

Salendo sulle colline dell’interno, quasi fino a seicento metri, in posizione preminente che domina tutto il territorio, uno di quei posti in cui uno punta il dito e dice: qui, arrivo a Dougga, l’antica Thugga. È certamente oggi la città romana meglio conservata e completa in Tunisia, grande e ricca, dominata dal tempio dedicato alla divinizzazione di Alessandro Severo e ovviamente dal grande foro. Città punica prima, da cui il nome, poi fortezza bizantina: il tempio è oggi circondato da un enorme muraglia costruita accumulando pietre delle abitazioni e monumenti romani. Non avendo terre argillose o comunque non manodopera esperta, la città è di pietra e non di mattoni, anche se usata alla maniera del mattone. Il colore giallo della pietra, il terreno, il verde degli ulivi e l’azzurro del cielo si combinano mirabilmente. Insieme, essendo il 21 è festa, non tanto per la fondazione di Roma quanto per la giornata internazionale del patrimonio, l’accesso è gratuito e la città romana è quindi popolata di persone che visitano, fanno picnic, suonano e cantano. Si sente spesso quel vocalizzo acuto e ripetuto che fanno le donne in oriente per far festa. La città è sontuosa e ci vuole qualche ora per percorrerla in buona parte, un mausoleo misto punico, romano, orientale, berbero domina la valle.

Oggi è giornata di città prima puniche e poi romane, quindi risalgo su un piccolo pullman e vado a Bulla Regia. Alle pendici di una splendida rupe rossastra, Bulla – anche qui nome punico integrato dai Romani – è una città ricchissima e splendidamente lasciata sotto campi di papaveri e, dove scavata, per nulla protetta. Se camminare su magnifici mosaici di duemila anni fa per qualcuno potrebbe essere un’esperienza, sicuramente dal punto di vista della conservazione è un disastro. E a me mette più a disagio che ad agio. Bulla, città di ricchi mercanti, è ricolma di splendide ville di grandi proporzioni, con tutti gli armamentari del caso, colonnati, fontane e magnifici mosaici, e ce ne sarebbe per decenni di campagne di scavo.

La prerogativa della città è che le grandi ville hanno una parte corrispondente, sale da pranzo, da riposo, per triclinii, fontane sotto terra, per ragioni di fresco. Sotto, dunque, alcuni ambienti colonnati con apertura per la luce sono ricoperti di mosaici che adornavano le sale da pranzo, per pigri e piacevoli pranzi e pomeriggi estivi, immagino. Aggiungere uve, olive, fichi d’india, formaggi, il gorgoglio dell’acqua, forse un po’ di musica, mi sta già venendo sonno, quello placido da estate di cicale sul Mediterraneo.

Che meraviglia. Non c’è nulla che supporti un turista, a parte un bagno e un negozietto, c’è un enorme generale militare che sotto un ulivo mangia una bric, una specie di omelette ripiegata, e non ci sono nemmeno turisti. Mangio un piatto di piatto tipico della zona, uno spezzatone di cinghiale – dovremo cominciare a mangiarli anche noi, insieme alle nutrie -, bevo un caffè dal cui fondo potrei trarre auspici per anni e ripiglio le mie carabattole e torno a Tunisi, che domani voglio andare sulla costa.

minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: zero, un salto di là, fragole in Numidia, tutti tranne me. Finora.

E per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità. Se quest’altra velocità lo sia effettivamente, e ancora, è tutto da vedere e l’unico modo, banalmente, è vederlo. Però io ci arrivo bello veloce, sorvolando un mediterraneo azzurro estivo, spumeggiante per il vento ed è impossibile non pensare ai fenici di allora e ai barconi di oggi, a Ulisse, all’Achille Lauro e a tutto ciò che c’è stato in mezzo e attorno. Se sulla metà settentrionale del gran mare vado forte, quella inferiore la sto completando, piano piano. Ed è per quello che sto atterrando in un posto che tutto si potrebbe dire tranne l’aeroporto: Cartagine. Delendo è ‘sto aeroporto, attenti voi.

Un’ora di volo ed è Africa, Maghreb, Tunisia, Tunisi, dal grande al piccolo, ed è luogo di relazione stretta con l’Italia da sempre, luogo di nascita di tanti, Claudia Cardinale la mia preferita, e luogo di fuga di pregiudicati italiani. Stranamente preferisco Annibale, i Barca, i fenici, Didone e tutto quello che scoprirò nei prossimi giorni. Eh, son fatto così.

Berberi, considerati autoctoni ma che qualcuno, forse Erodoto, faceva provenire dall’oriente, Numidii e Libii, poi i fenici, sempre proiettati nella fondazione di nuove basi commerciali nel Mediterraneo, i cosiddetti fenicio-punici, poi, ovvero la commistione con le popolazioni locali, per arrivare alla grande epoca di Cartagine, dal nono secolo avanti cristo, fino ai secoli di accordo con Roma e poi la fase del conflitto, sfociato in sei secoli di dominazione romana; a essa, senza soluzione di continuità, di fatto, seguì l’invasione vandala, porelli, e la riconquista di Giustiniano, di Bisanzio dunque, e poi quella araba, alternata poi ad avanzate e recessioni andaluso-spagnole, esistono ancora villaggi andalusi in cui si suona la musica tipica, il malouf; l’impero ottomano per arrivare in seguito al colonialismo francese dei giorni nostri che segna la nascita della Tunisia odierna, stato inesistente fino al 1811. Insomma, tutti o quasi sono passati e restati e andati in questo pezzo di nordafrica, unito a Libia e Algeria in una stessa macroregione storica, il che fa di queste zone uno dei luoghi da visitare. Eccomi qua, infatti: come sono incredibilmente più interessanti le zone di confine, di sovrapposizione, di mescolamento, come l’Europa dell’est, la Spagna, la Turchia, la Siria, l’Egitto e tutto il Mediterraneo. orientale. Per restare in zona.

Arrivo a Tunisi il sabato sera, domenica di fatto per i musulmani, si aggiunge una partita della coppa tipo Champions League d’Africa in cui gioca una squadra tunisina contro una, forse, del Niger, tira una certa arietta fresca per cui non è che per le strade non si cammini. Un pescetto alla brace, una zuppetta con qualche cereale, una salsina piccantosa immersa in olio, qualche dattero fresco, due fragole nei baracchini – cose che non bisognerebbe fare secondo la guida del turista debole di intestino – e via, domani sono pronto a muovermi verso l’interno, la Numidia di Sallustio, Giugurta, Massinissa e Sant’Agostino.

I ragazzi, intanto, guardano la partita.

eh, nothing nothing

Brucia la Børsen di Copenhagen e la memoria corre ovviamente a Notre Dame.

Sia per l’incendio sia, chiaro, per la guglia, il richiamo è forte. Tra l’altro, la guglia danese, del Seicento, era decorata dalle code intrecciate di quattro dragoni appollaiati sul tetto, estrosa mica poco. Colpisce anche nella similitudine il fatto che fosse in ristrutturazione e la cosa, impalcature e impianti volanti, non è certo casuale, dalla Fenice in qua, anche in assenza di dolo.
Visivamente, insieme al rogo, attira la mia attenzione la pubblicità sulle impalcature che invita a non avere paura di nulla, quel fear nothing che con le fiamme dietro pare un’invocazione quanto meno fuori luogo.

Fear un sacco, altro che nothing.