Dopo il tempo dell’emergenza, le prime settimane, in cui gli unici pensieri erano rivolti a contenere l’onda d’urto, adesso cominciano a farsi largo i ragionamenti e qualche, seppur timida, conclusione sulla situazione e su come essa sia stata gestita finora. Perché i dati – e su quelli già c’è un enorme dibattito perché non si capisce come siano raccolti e non sono per nulla omogenei tra loro – sono molto differenti, per esempio tra Lombardia e Veneto, i due epicentri, le cose paiono molto diverse. E tra Lombardia e resto d’Italia, tra l’altro, in particolare con l’Emilia, zona che oltre a essere confinante è simile per tessuto produttivo e concentrazione di persone. Ora, assumendo che in Veneto non la raccontino giusta, questa è la conclusione più diffusa al momento, colpisce la diversità dei contagiati e dei morti in Lombardia rispetto a tutte le altre zone. Motivi? Qualcuno dice inquinamento, qualcuno dice perché fuori mentono, qualcuno invece parla di errori. E tra coloro c’è anche Harvard, che ha commissionato uno studio dettagliato sulla gestione lombarda della pandemia e ne ha considerato numerosi errori: l’ospedalizzazione spinta della crisi, lo scarso tracciamento, i pochi test non determinanti, l’attenzione rivolta principalmente ai pazienti sintomatici, il poco tempismo nel prendere provvedimenti e così via. La conclusione, in sostanza, è che è possibile commettere errori, specie in situazioni che non hanno riferimenti in precedenza, ma non bisognerebbe perseverare, cosa che la Lombardia avrebbe fatto, a danno di malati e morti. Difficile valutare la cosa per me, nella mia stanzetta ancora più angusta di prima, di sicuro posso aggiungere per esperienza diretta che è costume della regione e degli abitanti anteporre il fatturato alle questioni di salute e così, a parer mio, anche stavolta è successo: molte aziende riconvertono una parte della produzione per produrre materiale sanitario non perché sia nobile ma perché quell’unico codice ATECO consentito permette di tenere aperto tutto. Fino ai controlli che, comunque, non arriveranno. Qui attorno e mentre sono in giro per le spese, vedo molta gente che lavora e non dovrebbe. Non che questa sia una spiegazione sufficiente, ma va ad aggiungersi a quella che è, senza dubbio, una situazione di crisi dovuta a molti fattori concomitanti, tra i quali il virus è la causa scatenante. Per fare un esempio emerso in queste ore, la Regione Lombardia ha (aveva, a questo punto) un piano pronto per affrontare un’ipotetica pandemia e, tra le altre cose, questo prevedeva un fabbisogno di ottantamila mascherine per tutta la regione. Al mese. In questa crisi, la richiesta è di trecentomila mascherine. Al giorno. Quindi? È arrivata una pandemia cattivissima impossibile da prevedere o, forse, i conti sono stati fatti con una certa leggerezza? Forse alla prossima stretta mi faccio trovare in Trentino.
O, forse, la soluzione potrebbe essere quella del Turkmenistan (che infatti dichiara zero contagi): abolire la parola «coronavirus». A posto, fatto, bastava pensarci. La parola proibita sarà sostituita da, mmm, «bellezza». A causa della ‘bellezza’ non è possibile uscire di casa. Signora, non so come dirlo, ma lei ha preso la ‘bellezza’. Meglio? Molto.
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