minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: sette, capodanno a Rio

Volevi l’avventura? Servita. Ha piovuto tutta la notte e piove ora, la sveglia è improvvisa verso le cinque e mezza, bisogna uscire dalla valle. Ora o non si esce. Avvertiamo la polizia che ci muoviamo per tornare alla ruta 40, perché è asfaltata, chi ha il 4×4 si è già mosso, noi col pullmino ci dobbiamo muovere in fretta, dobbiamo fare i settanta chilometri di sterrato. Alla prima salita media le ruote slittano, scende acqua dappertutto a lato e nei solchi di chi è passato prima. Un metro avanti e due indietro, non bene. Ci spostiamo tutti in fondo al pullmino, sulle due ruote motrici, e cominciamo a saltare, cercando di farlo tutti insieme. L’autista prova e riprova, avanziamo un poco e poi no, tocca lasciarlo andare indietro fino a un pezzetto più solido, perdiamo terreno invece che guadagnarne. Dieci, quindici, venti tentativi, niente. La prospettiva di restare bloccati qui non alletta nessuno. Qualcuno propone di tornare indietro, non se ne parla, significherebbe probabilmente restare bloccati nella valle per parecchi giorni. L’autista non parla più, prima retro prima retro, il motore si scalda e chissà la frizione. Spingere? Inutile. Troppo fango, troppa acqua. E qui imparo una cosa sulla Patagonia e, in generale, sulle terre estreme: la perseveranza. Un pezzettino alla volta. Il problema non è impantanarsi, quello accade di sicuro, il problema è uscirne. Dai e dai, e io avrei mollato il colpo da parecchio, a forza di avanti e indietro e di salti sull’asse posteriore, ce la facciamo. Venti minuti per trenta metri. Ed è il quinto chilometro di settanta, andiamo bene. L’unica a questo punto è andare un po’ più veloci, prendere fango e acqua con un po’ di velocità. Il pullmino scoda di continuo, meglio usare los cinturones, ogni poco ci sono pozze che sembra di essere in motoscafo, sperando di non aspirare acqua col motore. A fianco della strada scendono fiumi. Una volta ogni cento anni così, dice qualche patagonico, bene. Adesso capisco anche perché le strade, anche se sterrate, sono rialzate su qualche piccola massicciata. Che è comunque di terra, quindi si sgretola sotto la pressione dell’acqua, mancano interi pezzi di strada. La preoccupazione è di trovarla interrotta, a questo punto. In alcuni punti saremo gli ultimi a passare per un bel po’. Ogni tanto tocca fermarsi in un tratto sicuro per fare raffreddare il motore, ben sapendo che più passa il tempo e peggio sarà. Le cime tutte attorno sono innevate, sta nevicando ora e grandinando su di noi. Una ventina di ruscelli attraversati, parecchie salite col fiato sospeso, qualche tornante preso con troppo brio e finalmente, finalmente arriviamo all’asfalto. Settanta chilometri in quasi tre ore. Tiriamo tutti più di un respiro di sollievo, riparte la radio e cantano Los palmeras, quel fantastico contrasto latino per cui si viaggia sull’orlo di uno strapiombo con la musica alegría, si accennano persino dei balli. Mentirosaaaa, mentirosamentirosaaaa. Torniamo a Bajo Caracoles, al baretto di ieri, ed è ovviamente pieno zeppo, tutti quelli che si sono mossi sono approdati qui.

È il principio del rifugio in montagna, appunto rifugio. Dentro tutti, caffè brodoso, uova, scatole di fagioli, lunga coda per il bagno. Sarò deficiente, probabile, ma a me queste situazioni mettono allegria, il disguido mi accende. Le finestre grondano acqua fuori e condensa dentro, si chiacchiera con tutti, ci si confronta scambiandosi le informazioni disponibili, c’è anche una flebile rete. Avvisiamo la polizia che siamo arrivati all’asfalto. E qui la notizia: la ruta 40 è stata chiusa poco più avanti per centinaia di chilometri, l’allerta meteo è rossa per tre giorni. Niente El Chaltein, non ci si arriva, e la delusione è fortissima in tutti. Perché El Chaltein vuol dire Fitz Roy e Cerro Torre, gira e rigira al fondo il motivo per cui molti di noi sono qui. E qui imparo un’altra cosa sulla Patagonia e, in generale, sulle terre estreme: certe cose non le puoi fare se non ci sono le condizioni. Ed è ora che comprendo appieno la frustrazione degli scalatori che passavano mesi e mesi alla base del Cerro Torre tentando decine di volte la salita senza mai trovare uno spiraglio per arrivare in cima. E la lezione è che è inutile essere frustrati, è per fortuna ancora una cosa che non governiamo, che ci sovrasta, che ci impedisce, non siamo più abituati. Non sarebbe la fine del nostro mondo, questa, se le cose fossero addomesticate. Non si può, punto. Non è nemmeno questione di pericolo, non c’è proprio più la strada. Non si può. L’unica è allungare verso la ruta 3, che segue la costa, facendo un lungo giro sull’asfalto, e scendere più giù, a Calafate. Ma come non hai visto il Cerro Torre? Eh no, non l’ho visto. Impossibile farlo. Se il mio fosse un viaggio vero, vero fino in fondo, mi fermerei qui aspettando il sole per andare quando possibile ma il mio viaggio ha delle date rigide, un ritorno fissato, non è un viaggio vero fino in fondo. Va bene così, imparare a gestire la frustrazione e la delusione avvicina a comprendere la natura preponderante, leopardianamente indifferente, lo spazio e gli eventi atmosferici di una terra estrema. Imparo il principio che è meglio non vedere alcune cose, magari anche le più belle, che rimanere bloccati. Che a dirla così sembra banale ma non lo è. E imparo anche la tecnica per fare la pipì col vento patagonico, appoggiandosi con la spalla al fondo del pullmino, ovviamente in favore di vento, serve dirlo? Anche l’asfalto è tutto a buchi, la terra sotto scappa via, ce ne sono di enormi ma, perlomeno, non si resta impantanati. Si guida con attenzione, magari facendo carovana se c’è qualche altro mezzo, alternandosi e segnalando i rallentamenti con le quattro frecce.

Tra qualche ora non ci sarà più la strada, la terra sotto sta già andando via. Dei quaranta millimetri annuali di pioggia normali per la Patagonia ne sono caduti il doppio in ventiquattro ore. Ma noi abbiamo la musica, qualcuno un pacchettone di m&m’s e anche senza agua caliente per il mate procediamo contenti dell’asfalto. Attorno non si vede più nulla, né cime né sfondo, è come essere nel famoso bicchiere di anice di Paolo Conte. Il vento sposta il pullmino, a tratti piove dentro, almeno il motore non si scalda. A tratti la strada è sommersa, non tutti si divertono come me, devo capirlo. Intere aree sono allagate, scendono torrenti dalle pareti rocciose trascinando fango e pietre, passano un paio di autoarticolati cileni, nessun altro. A sinistra scorgiamo un piccolo lago nuovo, non esisteva dice l’autista e sulla mappa non c’è, il pullmino si anima in diverse lingue a trovare un nome per battezzarlo, vince Los perdidos alla fine. Andiamo verso est, verso la ruta 3, dovrebbe migliorare.

Raggiungiamo una stazione di servizio, anche qui si sono riunite tutte le persone del circondario. Scopriamo di avere una gomma buca, per fortuna dietro sono a coppie. Diluvia forte. Fortuna c’è un gommista, anche se è chiuso. Attendiamo nella stazione, c’è un gruppo di quattro giovani uomini a piedi nudi e con una tanica di benzina, fanno un po’ ridere mentre l’acqua penetra nella stazione. Israeliani in giro, alcune cose si spiegano. È l’ultimo dell’anno, così come il natale l’ho passato in una stazione di servizio a Paso de Indios, oggi potrei concludere l’anno qui, chissà. Il mio amico E. qualche giorno fa mi ha mandato un suo disegno, grazie!, ma allora erano i giorni delle foto con il cielo blu, dubito valga ancora oggi:

Un pezzo lungo della provinciale 39, poi la 288 fino a Comandante Luis Piedrabuena, che è il nome del paese in cui ci immettiamo nella ruta 3, dopo un bel giro dell’oca. Non ha mai smesso di piovere, sulla costa si intravede un cielo migliore. A ogni stazione di servizio ci si scambiano informazioni, da dove vieni, dove andate, com’è la strada? Si passa? Dopo un giro non breve ma lungo e totalmente inaspettato, per circumnavigare la zona devastata, arrivo a Rio Gallegos, vera Patagonia profonda. Sia perché da qui posso poi riprendere il giro che volevo dalla tappa successiva, sia perché così posso, finalmente, passare un capodanno a Rio. Peppepereppeppè, sciarlibraunn.

Inutile fare programmi, a questo punto, sia perché conosceremo la reale situazione soltanto domani sia perché comunque l’unica possibilità da adesso in poi sarà decidere momento per momento, a seconda delle condizioni. Spero di riuscire a vedere le altre cose che avevo in mente ma, se così non sarà, vedrò altro o, anche, il non riuscire a vedere ciò che mi ero prefisso sarà parte del viaggio in Patagonia, e non secondaria. Auguri, che sia un anno in movimento.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: sei, vecchie foto, stazioni di sosta, mani, grotte altrui, agnelli e belve

In una specie di bar vedo una fotografia. La didascalia dice: il fotografo Standhardt, il colono Andreas Madsen, i restanti sono escaladores, lago Viedma. È il 1959, probabilmente, e los escaladores immagino siano Maestri, Egger e Fava, al tempo del primo discusso tentativo al cerro Torre. A due di loro sono oggi dedicati un cerro e una torre, la salita più difficile di tutte.

Lungo la ruta 40, piccole casette al limite della baracca garantiscono la sopravvivenza lungo la strada, dal rasoio alla marmellata al paio di scarpe. Serve un tagliere con la faccia di Messi o un coltello appena appena sotto il machete? I soliti adesivi delle spedizioni ricordano gruppi di ogni nazionalità che con ogni mezzo sono venuti a vedere la fine del mondo. La più bella finora a Bajo Caracoles.

In questa fine del mondo, cui comunque manca ancora parecchio, l’umanità si è impegnata a sopravvivere fin dall’inizio. Una delle testimonianze più commoventi della volontà umana di lasciare un segno, di mostrare ai posteri una traccia di sé, sono las manos dipinte.

Fin dal novemilacinquecento avanti cristo le popolazioni indie locali Tehuelce dipinsero le tracce delle proprie mani sulle pareti rocciose protette da sole e acqua, usando cannucce per spruzzare la vernice attorno alle mani appoggiate. Ce ne sono di grandi, di piccine, con sei dita, pitturate con il gesso, bianche, con l’ossido di rame, verdi, di ferro, rosse, nere. Per migliaia di anni, una a fianco dell’altra, migliorando la tecnica con il tempo, fino a millecinquecento anni fa. Qualche guanaco, scene di caccia, lucertole, luna e sole accompagnano le mani. Emozionante e commovente insieme, quante vite, desideri, aspirazioni, rimpianti.

I canyons sono strepitosi e non hanno nulla da invidiare alla mesa centro e nordamericana. Un fiume sul fondo crea una strada verde, motivo della presenza qui delle popolazioni indie. A girare un po’, le mani sono dappertutto, bisognava muoversi e cacciare. E sfuggire al puma, tra l’altro.

In lontananza, le cime del San Lorenzo, quelle più alte della Patagonia, se non ci sono nuvole si vedono da ogni luogo. L’autista prima mette Mercedes Sosa, poi si rompe le balle e sentiamo Vasco Rossi.

Dalla Cueva de las manos scendo a Bajo Caracoles lungo la ruta 40 e poi la provinciale 39 fino a Hipólito Yrigoyen, nella provincia di Santa Cruz. È un villaggio non tanto ridente, ora noto come il lago che ha vicino, il lago Posadas. Un po’ per vedere il lago e un po’ perché da qualche parte bisogna pur dormire. Faccio un giro per il paese, un posto di polizia, un bar che fa empanadas, un paio di hoteles, per i turisti lacustri, è un reticolo di cinque strade sterrate per altre cinque altrettanto sterrate, ortogonali. In venti minuti le giro tutte, sistematico, con la solita sottile tensione per i cani randagi. A in certo punto ne esce uno di corsa verso di me abbaiando e mostrando i denti, mi irrigidisco non poco, per fortuna si intraversa, si ferma e poi va via. Qui tutti fanno spallucce sulla faccenda dei cani, noi europei facciamo fatica a gestire la cosa. Il tempo peggiora, comincia a piovigginare. Il lago Posadas è separato da un altro lago da una sottile striscia di terra, di là c’è il lago Cochrane, parte cilena, e lago Pueyrredón lato argentino. Questo è poco profondo, quindi azzurro, quello molto, blu blu blu. Un bel colpo d’occhio.

In fondo al lago una hacienda prepara l’agnello in croce, si capisce perché.

Per smaltire la sbornia d’agnello, devo camminare. Julian mi porta per le colline, senza sentiero tra i cespugli, fino alle pareti rocciose sulle quali non è difficile scorgere altre mani dipinte. Poi arriviamo a una specie di lago fatto di gesso sul quale con acuto istinto d’osservazione scorgo delle tracce.

Può essere una cosa sola: puma. Molto bene. Qualcuno dice per certo che siano vecchie, qualcuno dice che facendo rumore la bestia si allontana, qualcuno dice che così qualcuno cosà, stare fermi, saltare, secondo me vale il principio dell’orso: sentiamoci liberi di fare quel che ci va, tanto decide lui. E per non farci mancare nulla saliamo alla cueva del puma, toponimo che chissà perché, dentro ci sono ordinate delle ossa, costole e colonne vertebrali, dall’altra parte feci. Preciso, il puma. Poi, altre mani di chissà quando. Il tempo varia, sul lago piove, si vede. Da ore il telefono non prende, il meteo tocca farselo da soli. In peggioramento.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: cinque, cattedrali di roccia, meccaniche moderne, ciliegie e stelle

A Puerto rio Tranquilo osservo il lago general Carrera, piatto, blu, glaciale. Qui una volta era tutto ghiacciaio, ragazzo, tutto ghiacciaio. Si distinguono le cime sotto il livello del ghiaccio, ventimila anni fa, da quelle che emergevano: tonde le prime, aguzze le seconde. Il villaggio è piccolo e campa sui giri sul e attorno al lago, ne approfitto per salire in barca e andare a vedere la Capilla de Mármol, un parco naturale in cui le acque del lago hanno corroso e scavato le formazioni di carbonato di calcio formando monumenti quali la Catedral, le Capillas e le Cavernas.

Che soddisfazione. Ne è valsa la pena, anche qui, le centinaia di chilometri di sterrato sfasciaculo sono un ricordo. E la salsiccia alla brace e birrona subito dopo rendono il momento perfetto.

Eccedo nelle foto. Nessun filtro, nessuna correzione, è proprio così questo mondo di sotto, è saturato di suo, i colori abbacinanti, la natura sfrontata. Se ne esce ebbri. Sarà dura tornare alle cose quotidiane, stare in casa, guardare fuori le macchine che passano, prendere un treno locale pieno.

Sono cotto dal sole, a gennaio al lavoro faticherò a giustificarmi senza essere mandato a quel paese. Mi prende quella voglia di sterrato, di nuovo, quel desiderio di strada per cui mi rimetto in moto: proseguo per Puerto Guadal, circumnavigando il lago, poi Chile Chico, tutto sterrato e a volte a strapiombo, qualche carcassa di auto. Come diceva il mio amico slavo una volta: non ti preoccupare, cosa vuoi che sia? Al massimo muori. Infatti, che vuoi che sia? Sono parecchie ore di battimento di denti, di culo, di trippe, di viti svitate e di foto storte e tremolanti. A metà di una salita il cruscotto del pullmino dà di matto, si accende tutto, si spegne, si riaccende e nel frattempo né servosterzo né, più importante, servofreno funzionano più. Cominciamo a scivolare all’indietro, non tanto festosamente. Viva il freno a mano meccanico. Alè, tutti giù di nuovo, cofano aperto e pantaloni stile idraulico. Stavolta la diagnosi è facile e la soluzione anche: il cavo della terra si è staccato dal dado della carrozzeria e fa contatto. Soluzione? Basta toglierlo. Quanti pezzi inutili nella meccanica contemporanea.

Dimenticavo di dire che su tutti i mezzi sui quali sono salito finora quasi tutte le spie dei cruscotti erano accese costantemente, comprese quelle che qualche preoccupazione a me la darebbero, tipo la gialla del motore. Ma così non è, che vuoi che servano le spie? In effetti mi fa abbastanza ridere vedere gli autisti che sereni guidano con tutte le spie accese e Enrique Iglesias a manetta alla radio. Vedi a prendere la vita in un modo diverso?

Valico il confine, di nuovo, e torno in Argentina, a Los Antiguos, la capitale internazionale della ciliegia, ancora sul lago. Quelle ciliegie natalizie gigantesche che arrivano da noi a quarantacinque euro al chilo, ecco, vengono da qui. E siccome ci sono molti alberi liberi ne mangio davvero parecchie. Come resistere, proverbialmente?

Il lago e il cielo hanno lo stesso colore, per tutte le rive che riesco a scorgere non c’è nulla, più tardi ne avrò conferma guardando le stelle, non c’è una luce. Si vede la via lattea in modo impressionante, Sirio brilla evidente. Che culo che hanno certi io.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: quattro, il più avanti, il sospeso, il di qua e il di là, tutto si smonta

Julian mi dice che ci troviamo nel giardino del mondo. Non ci sarebbe nulla di esagerato nel dirlo, valli e montagne e fiumi meravigliosi si succedono di continuo e mi ripetono ogni volta che non ho ancora visto niente. C’è sempre di molto meglio più avanti.

Rileggo i racconti di Sepulveda, racconta di posti in cui sono appena stato, sono o andrò a breve. Ma è il clima generale, i paesaggi, l’aria che respiro leggendo. Leggo Coloane, l’avevo da parte da trent’anni, è venuta l’ora. E Saint-Exupéry, il suo bellissimo Volo di notte, venne a consegnare la posta da queste parti. Tra tutti, il campionato patagonico di bugie dà perfettamente l’idea di un ambiente. Lungo la Carretera austral e la ruta 40 nelle piazzole di sosta i guard rail sono ricoperti di adesivi personalizzati che raccontano il viaggio di una coppia o un gruppo. Quelli che colpiscono di più sono i coraggiosi che partono in Alaska e vanno a Ushuaia nella terra del fuoco in bicicletta. Qui fuori è pieno di gente che si muove, uscite.

Sto andando a Puerto rio Tranquilo, perché voglio vedere il grande lago General Carrera, lato cileno, e lago Buenos Aires lato argentino, e se possibile navigarlo. Il tempo, il meteo intendo, dà sempre la regola, si possono fare cinquanta ore di corriera per non vedere il Fitz Roy. Il lago è grande, duemiladuecento chilometri quadrati, sette volte il Garda, talmente bello che è facile immaginare che in dieci anni sarà un posto turistico. Stando sulla riva del lago si vedono le coste viola ricoperte di lupini, è il luppolo, e il ghiacciaio sullo sfondo, prati tutto attorno, cipressi e abeti. Sono fortunato, c’è il sole, posso navigare. Un cartello annuncia la vendita di quarantasei ettari, non so nulla ma fantastico non poco, una tentazione. Decenni fa una coppia americana fondò due aziende, lei ‘patagonia’, lui ‘the North face’. Comprarono molte migliaia di ettari di terra in Patagonia per farne parchi e riserve protette, finché lui morì, non troppo tempo fa, cascando nel lago General Carrera. Di ipotermia. Che per uno che faceva abbigliamento termico è una forma di sarcasmo sordo della sorte.

Il sole sorge prima delle cinque e tramonta dopo le dieci e mezza, giornate lunghe, si finisce per dormire quando c’è buio e muoversi con la luce. Mi sveglio sempre presto e il sole è già alto. Devio per la laguna Tempanos nel parco Queulat, cammino per mezz’ora in un bosco fitto e trasudante d’acqua per arrivare al lago. L’acqua scende dal ghiacciaio che sta sopra, il ventisquero Colgante o ghiacciaio appeso, ovvero il ghiacciaio si protende su una parete a strapiombo di cinquecento metri, formando in questa stagione numerose cascate che si precipitano giù.

Un ragazzo con un gommone mi porta più sotto, lo spettacolo è grandioso. E non c’è casa, baracca, centro commerciale, cartello, insegna, insomma tutto il rumore di fondo che da noi funesta ogni metro di terra. Scendo a punta Queulat, su un fiordo dell’oceano Pacifico, tutta la costa cilena è molto frastagliata. I delfini, come dicevo, e i paeselli sono graziosi e ordinati, l’immigrazione qui è stata tedesca. Passa un camion adattato stile Overland di una famiglia belga in esplorazione del Sudamerica, il viaggio qui è sempre un’impresa. Buona parte delle strade in Patagonia sono sterrate, le macchine e i pullmini si svitano tutti, si perdono i pezzi in continuazione, il furgone su cui viaggio oggi ha perso la targa. Ma non pare un grosso problema per nessuno, tantomeno per la polizia. Poi è caduta la cappelliera, tutte le viti dai e dai sono uscite.

Il versante cileno è talmente rigoglioso da essere impressionante, la vegetazione è fittissima e tutto è enorme, alberi da trenta metri e foglie larghe due metri al ciglio della strada. La pioggia e l’umidità si fermano alla cordigliera.

Voglio dire. Ovvio che uno poi si faccia le fantasie di viaggio o, addirittura, di trasferimento. Ah, ricominciare, niente fardelli del passato. In Patagonia, Butch.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: tre, alberoni, lagoni, fiumoni, scavallo, la ruta siete

Svegliandomi, mi ritrovo sulle alpi, diciamo Pinzolo per vegetazione, clima e montagne ma Andalusia per negozi e case. È la precordillera e la cosa stupefacente è che sono a novanta metri sul livello del mare. Tutta la cordillera è più bassa di quanto si pensi, duemila, duemilaedue proprio a far tanto, i tremila dei picchi e l’Aconcagua che spicca per eccesso ma, in generale, è il clima che è proprio diverso a livello del mare. Che poi sono due oceani non banali a una buona latitudine sud, tutto si spiega. La cordillera stessa fa da spartiacque: pioggia e tempeste sul lato cileno, un po’ più arida lato argentino. Per modo di dire, ci sono foreste meravigliose, fittissime, ed enormi laghi, per dare un ordine diciamo una decina di volte il lago di Garda per quelli medi.

Passo non lontano da San Carlos de Bariloche, vero paesello bavarese luogo prediletto di villeggiatura per ex gerarchi nazisti, Priebke lo pigliarono qui. Salendo vedo piante mai viste, la primordiale araucaria, cipressi a cono di dimensioni colossali, il locale cipresso fitzroy, capace di arrivare a sessanta metri e tremila anni. Ed erbe di ogni tipo, certi foglioni ombrelloni buoni per l’estate, ricordarne un nome. Pangue.

A Trevelin iniziava la ferrovia che andava a Trelew, seguendo tutta la valle del Chubut, costruita dagli immigrati gallesi. Molte scritte qui sono in gallese, appendono dragoni dappertutto. È un paesone tutto rettangolare con una piazza al centro, come quasi tutti qui, la statua di Sanmartin, liberatore dell’Argentina, le vie hanno tutte gli stessi nomi, sempre le stesse date ovunque. Vado a mangiare qualcosa ed è invariabilmente il miglior filetto mai visto da noi, foss’anche una bettola senza speranze. La carne è un’ossessione e una monocoltura, direi. Su ogni cartello stradale, e deve essere una risoluzione comunale ricorrente, in basso a destra c’è la rivendicazione del possesso delle Malvinas.

Così le chiamiamo noi sinceri democratici, non Falkland. Le analogie della storia di questi territori con la storia americana del nord sono rilevanti: anche qui popolazioni indie represse e sterminate dagli europei alla ricerca di risorse e terre, la toponomastica lo ricorda ovunque, quasi tutta mapuche. Chiunque riportasse un orecchio di un mapuche, uomini della terra, veniva pagato. Gli stessi villaggi richiamano quelli dell’Alaska o del Canada, storia di inizio Novecento.

Colori. Aria. Acqua. Boschi. E nessuno, nessuno nessuno. È possibile viaggiare ore senza vedere una casa, io vado quasi in ansia da mancanza di capannone. In realtà, sapendolo, qualcosa c’è, ed è dove ci sono filari di cipressi, per spezzare il vento. Ma, in generale, non si vedono e sono pochissime, le case. Passando per Los Cipreses, appunto, ridente micropaesello, salgo al Paso Futaleufú perché ho un piano: scavallare in Cile. E così è, arrivo alla frontiera argentina, una serena baitella con cancello automatico – cioè un frontaliere baffuto e gioviale – in cui mi fanno un controllo più di esibizione che di sostanza e dopo qualche chilometro arrivo alla frontiera cilena, più dura. È una frontiera fitozoocosica, nel senso che non possono passare frutte o verdure o cose vive a parte le persone. Quindi i bagagli vengono ispezionati uno a uno, dipende dallo zelo. Due anziani in auto davanti a me nascondevano due mele che sono state prontamente sequestrate e poste su una bilancia in evidenza a tutti. Chiaro che poi sono stati fatti deviare verso la fucilazione anche se sembravano andarsene tranquilli. La persona dopo di me ha un enorme sacchetto di frutta comprata da poco, ottima idea. Crocifissione, suppongo.

Io c’ho il profugo cileno a casa mia è arrivato nel ‘73 / e da allora lui non è più andato via / Antonietta fammi star da te. / Compagno un caz. E poco dopo comincia l’altra strada, la Carretera austral, la ruta 7 cilena, che va giù fino in fondo in fondo. Affascinante, molto, nonostante sia stata voluta dal generalisimo nonché farabutto criminale Pinochet.

Le parti non asfaltate sono perché nel frattempo era morto. Sempre troppo tardi. Molti paeselli, villa Amengual per dirne uno, esistono proprio per la strada: anno di fondazione? 1982. Una chiesina di legno con campanile incorporato, un supermercatino, un caffè se si è fortunati, un giudice di pace che svolge tutte le funzioni. Solitamente dal caffè. L’immancabile bandiera cilena davanti a ogni casa e, ancor più immancabile, una macchinona che non corrisponde al livello della casa, tipica cileno. In Argentina le due cose corrispondono, guidano mezzi rottami.

A Puyuhuapi un caffè su un fiordo dell’oceano Pacifico, ormai sono di là, è proprio cambiato il versante. Ci sono persino i delfini che fanno capolino qua e là, notevoli le corriere adattate a casa semovente con argano dietro per le moto. Il tempo è molto più variabile su questo lato, bisogna aver fortuna.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: due, verso la cordillera, altari rocciosi, ahi l’acqua

Il natale più buffo tra molti, fa molto caldo ma non per questo è meno sentito, è pur sempre un paese cattolicone. Con gli evangelici in grande avanzata. Beh, buon natale a chi se la sente.

In realtà la partenza dall’oceano è all’insegna del nebbione, il che collima un pelo di più con il senso del natale europeo e quell’idea del babbo freddo.

Il taglio verso ovest è deciso, seguo il corso del Chubut verso la precordigliera e la cordigliera in una pianura senza orizzonte che non riesco a non guardar passare dal finestrino. Cambio duecento euro per le spesucce, la carta spesso ma non sempre, e mi danno in cambio un sacchetto con su la esse dei dolares.

Il cambio è uno a milletre, riempio le tasche, mie e dello zaino, di mazzette con cui poi comprerò un paio di caffè e una salsiccia. Perché un po’ con l’inflazione prima e i tagli orizzontali indiscriminati del governo poi i prezzi sono schizzati in alto e tutto è piuttosto caro: un caffè duemilaedue, una cena al ristorante tra i trenta e i cinquanta euro, sessantamila pesos. Il che vuol dire, anche senza essere economisti, che la maggior parte della popolazione argentina farà fatica a mettere insieme il mese. Vedremo quanto dura, il governo attuale di fatto è il governo di Macrì, le persone le stesse, espressione delle grandi famiglie coinvolte nello sfruttamento del territorio e delle risorse.

Dopo Las Palmas l’ambiente cambia e prende un che di Arizona, di monument valley, torri e pareti di roccia rossa vulcanica depositata su strati di concrezioni marine inframezzati da uno strato riferibile al momento tropicale dell’Argentina. Sono Los Altares, nome appropriato. Un fiumiciattolo fangoso al centro ha scavato tutto quanto e oggi regala alla zona un piccolo corridoio verde. L’asfalto è rovente, impossibile toccarlo, ci sono trentasei gradi ma con il vento si sentono un po’ meno.

E poi succede: un toc improvviso e l’acqua del pullmino resta tutta sull’asfalto dietro, asciugandosi d’istante. E noi con essa, al ciglio della strada. Nel niente niente. Quel che prima era favoloso a vedersi adesso comincia ad avere un aspetto un filo ostile. In prospettiva. Un paio di tentativi inutili di stringere le manichette, riempiendo il circuito di nuovo con quasi tutta l’acqua. Altra scelta discutibile in prospettiva. Il culo è che un paese – intendesi, in patagonico significa una stazione di servizio, chissà se aperta – è solo una quindicina di chilometri più avanti. Nel caso. E i telefoni non prendono, ovvio. Frequenza di passaggio di altre auto: incalcolabile. È pure natale. Inutile fare affidamento, i pezzi di ricambio stanno forse a Buenos Aires, il carro attrezzi magari anche, tutto sta sempre a Buenos Aires. Infatti qui si dice che dio sta a Buenos Aires. Raccatto i miei stracci e dopo un paio d’ore mi metto in cammino sulla ruta 25, già immaginando la vignetta con lo scheletro nel deserto, il cappello e la borraccia, e l’avvoltoio – qui il condor – che gira in tondo in alto. Lascio le mie collezioni di cose illegali a chi legge queste righe. Dopo quasi tre ore e nessuna macchina incrociata, arrivo a Paso de Indios, ridente località costituita da una stazione di servizio e un nucleo di qualche decina di case. Oddio, una macchina è passata, un pickup Chevrolet degli anni Cinquanta caricato di tre belle facce indie risultato – mi si perdoni – di decenni di incesti e che promettono solo un tranquillo weekend di vero terrore. Non faccio cenni. Trascorro a Paso de Indios circa otto ore, alla stazione consumo quasi tutto il magazzino e faccio l’incasso della settimana, all’unico locale del paese rimedio anche una bistecca verso sera e visito le strutture sociali della comunità. Considero l’ipotesi di comprare casa qui, ci sono numerose opportunità immobiliari da cogliere.

Circa alle due di notte arriva un altro pullmino che in qualche modo mi porta alla mia destinazione, Esquel. Niente avvoltoi, stavolta, la nera signora dev’essere ancora a Samarcanda.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: uno, oceano, bestie, fuorilegge, megabestie, quanti ettari


Chissà com’è fatta l’Argentina. Oppure, perchè non andare in Argentina? E allora, per vedere com’è fatta l’Argentina… Prendo un volo interno per Puerto Madryn, d’estate si va solo a sud, e sono due ore solo per arrivare a un terzo del paese. Fare pure confronto Milano-Palermo sola andata. L’aeroporto è una stanza nel mezzo della pianura ma quella pianura vuota e dritta, tirata con la riga e senza orizzonte, non come la nostra di capannoni. Com’è tutto uguale in Argentina. La città è sul golfo della península Valdés e lo stabilimento per la produzione dell’alluminio dà lavoro a una parte importante della popolazione. Ma non si pensi, il golfo è frequentato dalle balene australi in stagione, la concentrazione anche industriale non è un concetto noto nello spazio argentino. Da qui, la stessa latitudine di Pavia ma sotto, comincia la Patagonia. Fino alla latitudine di Berlino, sempre dalla parte opposta. In Patagonia, Butch, in Patagonia. Liberi.

Quella Croce del Sud nel cielo terso, la capovolta ambiguità d’Orione e l’orizzonte sembra perverso. A un certo punto dalla pianura appare un collo lunghissimo seguito da un vagone del treno, è un Patagotitan mayorum, un megabestione lungo quaranta metri e alto venticinque trovato a Trelew, la comparazione è femore-uomo. Per fortuna non abbiamo mai convissuto, vederlo arrivare senza sapere se fosse erbivoro o meno sarebbe stato paurevole, sempre a non esser schiacciati. In città c’è un formidabile museo paleontologico, la Patagonia fu per milioni di anni casa per certi dinosauri affetti da gigantismo, titani appunto. Per me un caffè all’hotel Touring Club di Trelew, ha ancora l’aria di quando ci passò a cavallo Butch Cassidy, qui per professione e per scappare dalla Pinkerton, andato poi chissà forse a morire in Bolivia. In Patagonia, Butch, in Patagonia. Si ricorda ancora il massacro di Trelew, di circa venti peronisti venduti dai compagni all’esercito del dittatore. Da qui si va a punta Tombo per vedere i pinguini. Una colossale colonia di oltre due milioni di individui, nanetti dondolanti lungo la costa tanto goffi sulla terra quanto agili in acqua. Sono della stessa taglia della colonia urbana che vidi a Città del Capo, anche l’odore selvatico è lo stesso. È pieno di guanacos, specie di lama marroncini e sputatori, lepri, pernici e chissà quanto altro non colgo. Il rapporto costante con gli animali è un pezzo definitivamente perduto per noi europei.

Incontro Humberto, Beto, gaucho figlio di gaucho della provincia di Rovigo, a fare le guide in Patagonia. Andremo insieme per la ruta 25, tagliando il paese in orizzontale dalla península Valdés a Esquel, ai piedi della cordigliera. E da lì, poi giù per la Carretera austral. Millei salterà entro l’estate, mi dice Humberto, già si sente la puzza. Perderà le elezioni di medio termine, dice, e poi cadrà e così altri otto anni dei peronisti, senza che abbiano coraggio però di fare riforme. Ne dice il peggio, ha un pullmino nuovo di zecca che non può immatricolare perché non c’è più il ministero. Ne prendiamo uno con mezzo milione di chilometri, appropriato, sempre che sia al primo giro. Non gaucho, mi dice, che è l’appellativo brasiliano, ma paisano, quello è.

Che poi, possedere diecimila ettari di terra vuol dire avere una fattoria piccoletta e nemmeno essere ricchi, gli appezzamenti sono di ben altre dimensioni. Come quel ranch in Australia che è grande come mezza Lombardia. Fa impressione perché quasi tutta la terra è recintata, seppur blandamente per le pecore merinos è comunque per gran parte privata. Ovviamente, savasansdir, fino a qualche decennio fa te la tiravano dietro. Ogni appezzamento è diviso in quadranti e gli ovini si fanno ruotare perché, altrimenti, desertificano, mangiandosi tutti quei deliziosi cespuglietti spinosi che punteggiano la pianura.

Un helado pompelmo rosado e dulce de leche tentación, seguendo il consiglio di Nelson, e via verso ovest, sulla ruta 25. Duecento chilometri da Trelew a las Palmas tutti uguali, per seguire il fiume Chubut verso la cordigliera. Ma questo poi. In Patagonia, Butch.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: zero, che ideone che ho, introduzioni, fiumi che sembran mari, Plata senza plomo

Alla fine è accaduto: la connessione internet sugli aerei. Il gentile annuncio porta invece sciagura, i ping, i bip, le notifiche ma soprattutto i video imbecilli e, ancor peggio, i vocali nell’ultima oasi priva di telefoni. La chiesa, forse, la sauna ma non so.

Sembrerebbe una bazzeccola ma se il viaggio è da quattordici ore in stretta compagnia di una certa quantità di persone assume una sua rilevanza.

Perché sono su questo aereo? Perché ho avuto una serie di idee di seguito che non esiterei a definire geniali. Geniali per me, non in assoluto, sono ancora qui che me ne compiaccio. Prima idea: andare via per natale. Ma via via, niente cene, niente pacchi, niente capitone, niente multe, niente cestini. Seconda idea: allungare la cosa anche a capodanno, insomma non contate su di me. Niente giorni tra natale e fine anno che comunque si lavora, niente notti insonni, niente essere a disposizione. Adios. Astaluego. Lo so, una persona normale ci arriva facilmente ma io no, solo ora. Ecco perché geniali. Terza idea: andare nel posto più lontano e capovolto che mi è venuto in mente. Bravo me, così sia. L’avevo pensata anche ben più sporca ma la realtà mi ha costretto, diciamo, a non estendere oltre la mia assenza. Uh, quanto la sto facendo lunga: sono su un aereo per Buenos Aires, ah, l’Argentina che tensione. Primo natale al caldo, sembra il titolo di un cinepanettone e forse un po’ lo è pure. Dai due gradi padani ai trenta di questi miei primi minuti argentini, pare strano. Se Millei, dunque, staziona da noi limonando con la nostra presidente del consiglio e gli si dona pure la cittadinanza, beh allora io vengo qua mentre lui non c’è, mentre la motosega è spenta, voglio vedere come stanno le cose in uno dei paesi politicamente ed economicamente più disgraziati di sempre, non da oggi. Ma voglio dire: Gardel, Piazzolla, Borges, Bioy Casares, Ocampo, Wilcock, Guevara, Quino e chissà quanti ne dimentico, tutti formidabili. E il culto invece è rivolto alla triade Maradona-Messi-Bergoglio, nemmeno in quest’ordine. La combinazione indigeni più europei vari e poi una robusta iniezione di nazisti non è che sia venuta benissimo, la ricetta poteva essere ampiamente migliorata, magari con ingredienti differenti.

Ma chi sono io per dirlo? Chi sono io per dire qualsiasi cosa, voglio dire? Mangio le mie empanadas a Caminito, tra le case colorate, e penso al porto, agli immigrati genovesi, al Boca, a San Telmo, al treno che non passa più e al fatto che sono stato proprio bravo a mettere un freno alla deriva dei mesi scorsi e un argine preventivo ai prossimi venendo qui. Dovevo capovolgere proprio il tavolo. Con me sopra, o sotto, visto lo stato di partenza. Tant’è che delle quattordici ore del volo ne ho dormite tredici e che, fortuna temporanea, la connessione dell’aereo non funzionava per davvero. Massimo otto persone collegate, è pur sempre un residuo di Alitalia, e dai. E così ho lungamente parlato con Oli, giovane nederlandico cresciuto in Argentina di ritorno per le feste che mi spiega gentilmente dove andare a fare surf e dove a sciare, perché il paese dei cinquemila chilometri di latitudini ha davvero tutto: dalle cascate tempestose di Iguazu alle terre estreme del fuoco e in mezzo tutte le cose medie.

Dopo la seconda empanada apprendo l’esistenza del lunfardo, un argot che chi sa lo spagnolo fa fatica a capire e chi sa l’italiano meno, laborar e birra, per dire due parole, e così i testi dei tanghi son più chiari. Chissà se poi sarà vero che venga da lombardo, fantasie. E mi vien da ridere non poco a leggere di El juego del calamar che sta su Nefflics come lo Squid game coreano. Le strade sono costeggiate da enormi manifesti pubblicitari e da enormi murales, pure molto ben fatti, di Messi con la coppa del mondo. Una fissazione. Molti di loro, dei manifesti, sono di compagnie assicurative private che offrono cure sanitarie premurose e complete, nessuno stupore purtroppo, non esiste manco più il ministero. Chissà quanto ci vorrà perché un Luigi Mangione si alzi dal letto anche qui con un’idea per la testa. A plaza de Mayo – si dice Màgio, sensatamente – qualcuno protesta, è il luogo giusto, sto lì e immagino le madri. Ma questo è il minidiario zero, quello introduttivo, in cui ancora non succede nulla e pare proprio strano parlare di Buenos Aires qui ma è così, è ancora avvio. Vediamo, dunque, che c’è qui, in questo posto così lontano e capovolto che per arrivarci bisogna volare su una bella fetta d’Africa, su un oceano davvero grande, su tutto il Brasile e su tutto l’Uruguay. Vediamo che succede.


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ottime idee del governo italiano parte 24.603

Dare, oggi, la cittadinanza italiana a Javier Milei, presidente argentino dotato di motosega populista e dotato di nonni calabresi.

Lo sciagurato principio è quello dello “ius sanguinis”, ovvero il principio che regola il diritto alla cittadinanza in Italia a differenza dello “ius soli”, temperato o meno, o ancor meno dello “ius culturae”: cioè quel principio per cui le questure in questo momento esplodono di richieste di gente sparsa nel mondo con qualche bisnonno italiano di avere la cittadinanza, manco serve siano mai stati qui o sappiano indicare su una carta geografica il paese desiderato; e parimenti chi è nato qui ma da genitori stranieri si attacca, anche se lavora in un ospedale italiano da anni con un curriculum d’eccellenza.
Un dato interessante: il numero degli studenti stranieri che però sono nati in Italia. Nel quinquennio tra l’anno scolastico 2018-2019 e il 2022-2023 il numero degli studenti con cittadinanza non italiana nati in Italia è passato da oltre 553mila a quasi 599mila. Il 65,4 per cento degli studenti stranieri quindi è nato in Italia e non ha la cittadinanza.
Molto bene, invece che contrastare la fuga dei cervelli validi magari accogliendo quelli in entrata, importiamo pagliacci deficienti di destra e nazionalisti. Bene anche qui, andiamo avanti così.