Volevi l’avventura? Servita. Ha piovuto tutta la notte e piove ora, la sveglia è improvvisa verso le cinque e mezza, bisogna uscire dalla valle. Ora o non si esce. Avvertiamo la polizia che ci muoviamo per tornare alla ruta 40, perché è asfaltata, chi ha il 4×4 si è già mosso, noi col pullmino ci dobbiamo muovere in fretta, dobbiamo fare i settanta chilometri di sterrato. Alla prima salita media le ruote slittano, scende acqua dappertutto a lato e nei solchi di chi è passato prima. Un metro avanti e due indietro, non bene. Ci spostiamo tutti in fondo al pullmino, sulle due ruote motrici, e cominciamo a saltare, cercando di farlo tutti insieme. L’autista prova e riprova, avanziamo un poco e poi no, tocca lasciarlo andare indietro fino a un pezzetto più solido, perdiamo terreno invece che guadagnarne. Dieci, quindici, venti tentativi, niente. La prospettiva di restare bloccati qui non alletta nessuno. Qualcuno propone di tornare indietro, non se ne parla, significherebbe probabilmente restare bloccati nella valle per parecchi giorni. L’autista non parla più, prima retro prima retro, il motore si scalda e chissà la frizione. Spingere? Inutile. Troppo fango, troppa acqua. E qui imparo una cosa sulla Patagonia e, in generale, sulle terre estreme: la perseveranza. Un pezzettino alla volta. Il problema non è impantanarsi, quello accade di sicuro, il problema è uscirne. Dai e dai, e io avrei mollato il colpo da parecchio, a forza di avanti e indietro e di salti sull’asse posteriore, ce la facciamo. Venti minuti per trenta metri. Ed è il quinto chilometro di settanta, andiamo bene. L’unica a questo punto è andare un po’ più veloci, prendere fango e acqua con un po’ di velocità. Il pullmino scoda di continuo, meglio usare los cinturones, ogni poco ci sono pozze che sembra di essere in motoscafo, sperando di non aspirare acqua col motore. A fianco della strada scendono fiumi. Una volta ogni cento anni così, dice qualche patagonico, bene. Adesso capisco anche perché le strade, anche se sterrate, sono rialzate su qualche piccola massicciata. Che è comunque di terra, quindi si sgretola sotto la pressione dell’acqua, mancano interi pezzi di strada. La preoccupazione è di trovarla interrotta, a questo punto. In alcuni punti saremo gli ultimi a passare per un bel po’. Ogni tanto tocca fermarsi in un tratto sicuro per fare raffreddare il motore, ben sapendo che più passa il tempo e peggio sarà. Le cime tutte attorno sono innevate, sta nevicando ora e grandinando su di noi. Una ventina di ruscelli attraversati, parecchie salite col fiato sospeso, qualche tornante preso con troppo brio e finalmente, finalmente arriviamo all’asfalto. Settanta chilometri in quasi tre ore. Tiriamo tutti più di un respiro di sollievo, riparte la radio e cantano Los palmeras, quel fantastico contrasto latino per cui si viaggia sull’orlo di uno strapiombo con la musica alegría, si accennano persino dei balli. Mentirosaaaa, mentirosamentirosaaaa. Torniamo a Bajo Caracoles, al baretto di ieri, ed è ovviamente pieno zeppo, tutti quelli che si sono mossi sono approdati qui.
È il principio del rifugio in montagna, appunto rifugio. Dentro tutti, caffè brodoso, uova, scatole di fagioli, lunga coda per il bagno. Sarò deficiente, probabile, ma a me queste situazioni mettono allegria, il disguido mi accende. Le finestre grondano acqua fuori e condensa dentro, si chiacchiera con tutti, ci si confronta scambiandosi le informazioni disponibili, c’è anche una flebile rete. Avvisiamo la polizia che siamo arrivati all’asfalto. E qui la notizia: la ruta 40 è stata chiusa poco più avanti per centinaia di chilometri, l’allerta meteo è rossa per tre giorni. Niente El Chaltein, non ci si arriva, e la delusione è fortissima in tutti. Perché El Chaltein vuol dire Fitz Roy e Cerro Torre, gira e rigira al fondo il motivo per cui molti di noi sono qui. E qui imparo un’altra cosa sulla Patagonia e, in generale, sulle terre estreme: certe cose non le puoi fare se non ci sono le condizioni. Ed è ora che comprendo appieno la frustrazione degli scalatori che passavano mesi e mesi alla base del Cerro Torre tentando decine di volte la salita senza mai trovare uno spiraglio per arrivare in cima. E la lezione è che è inutile essere frustrati, è per fortuna ancora una cosa che non governiamo, che ci sovrasta, che ci impedisce, non siamo più abituati. Non sarebbe la fine del nostro mondo, questa, se le cose fossero addomesticate. Non si può, punto. Non è nemmeno questione di pericolo, non c’è proprio più la strada. Non si può. L’unica è allungare verso la ruta 3, che segue la costa, facendo un lungo giro sull’asfalto, e scendere più giù, a Calafate. Ma come non hai visto il Cerro Torre? Eh no, non l’ho visto. Impossibile farlo. Se il mio fosse un viaggio vero, vero fino in fondo, mi fermerei qui aspettando il sole per andare quando possibile ma il mio viaggio ha delle date rigide, un ritorno fissato, non è un viaggio vero fino in fondo. Va bene così, imparare a gestire la frustrazione e la delusione avvicina a comprendere la natura preponderante, leopardianamente indifferente, lo spazio e gli eventi atmosferici di una terra estrema. Imparo il principio che è meglio non vedere alcune cose, magari anche le più belle, che rimanere bloccati. Che a dirla così sembra banale ma non lo è. E imparo anche la tecnica per fare la pipì col vento patagonico, appoggiandosi con la spalla al fondo del pullmino, ovviamente in favore di vento, serve dirlo? Anche l’asfalto è tutto a buchi, la terra sotto scappa via, ce ne sono di enormi ma, perlomeno, non si resta impantanati. Si guida con attenzione, magari facendo carovana se c’è qualche altro mezzo, alternandosi e segnalando i rallentamenti con le quattro frecce.
Tra qualche ora non ci sarà più la strada, la terra sotto sta già andando via. Dei quaranta millimetri annuali di pioggia normali per la Patagonia ne sono caduti il doppio in ventiquattro ore. Ma noi abbiamo la musica, qualcuno un pacchettone di m&m’s e anche senza agua caliente per il mate procediamo contenti dell’asfalto. Attorno non si vede più nulla, né cime né sfondo, è come essere nel famoso bicchiere di anice di Paolo Conte. Il vento sposta il pullmino, a tratti piove dentro, almeno il motore non si scalda. A tratti la strada è sommersa, non tutti si divertono come me, devo capirlo. Intere aree sono allagate, scendono torrenti dalle pareti rocciose trascinando fango e pietre, passano un paio di autoarticolati cileni, nessun altro. A sinistra scorgiamo un piccolo lago nuovo, non esisteva dice l’autista e sulla mappa non c’è, il pullmino si anima in diverse lingue a trovare un nome per battezzarlo, vince Los perdidos alla fine. Andiamo verso est, verso la ruta 3, dovrebbe migliorare.
Raggiungiamo una stazione di servizio, anche qui si sono riunite tutte le persone del circondario. Scopriamo di avere una gomma buca, per fortuna dietro sono a coppie. Diluvia forte. Fortuna c’è un gommista, anche se è chiuso. Attendiamo nella stazione, c’è un gruppo di quattro giovani uomini a piedi nudi e con una tanica di benzina, fanno un po’ ridere mentre l’acqua penetra nella stazione. Israeliani in giro, alcune cose si spiegano. È l’ultimo dell’anno, così come il natale l’ho passato in una stazione di servizio a Paso de Indios, oggi potrei concludere l’anno qui, chissà. Il mio amico E. qualche giorno fa mi ha mandato un suo disegno, grazie!, ma allora erano i giorni delle foto con il cielo blu, dubito valga ancora oggi:
Un pezzo lungo della provinciale 39, poi la 288 fino a Comandante Luis Piedrabuena, che è il nome del paese in cui ci immettiamo nella ruta 3, dopo un bel giro dell’oca. Non ha mai smesso di piovere, sulla costa si intravede un cielo migliore. A ogni stazione di servizio ci si scambiano informazioni, da dove vieni, dove andate, com’è la strada? Si passa? Dopo un giro non breve ma lungo e totalmente inaspettato, per circumnavigare la zona devastata, arrivo a Rio Gallegos, vera Patagonia profonda. Sia perché da qui posso poi riprendere il giro che volevo dalla tappa successiva, sia perché così posso, finalmente, passare un capodanno a Rio. Peppepereppeppè, sciarlibraunn.
Inutile fare programmi, a questo punto, sia perché conosceremo la reale situazione soltanto domani sia perché comunque l’unica possibilità da adesso in poi sarà decidere momento per momento, a seconda delle condizioni. Spero di riuscire a vedere le altre cose che avevo in mente ma, se così non sarà, vedrò altro o, anche, il non riuscire a vedere ciò che mi ero prefisso sarà parte del viaggio in Patagonia, e non secondaria. Auguri, che sia un anno in movimento.
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