oltre al profilo lui non doveva essere un granché

Al Kunst museum di Vienna mi fermo davanti a un dipinto che non conoscevo, il ritratto di gruppo L’imperatore Massimiliano I con la sua famiglia di Bernard Strigel, pittore imperiale, forse il suo quadro più famoso.

Se da sinistra il primo, profilo inconfondibile, è l’imperatore Massimiliano I, fondatore dell’impero degli Asburgo, il nipote al centro è invece il futuro Carlo V, inconfondibile lui per la masticazione inversa, tipica degli Asburgo fino alla metà del Settecento, maschi e femmine. Ma quella che attira la mia attenzione è la moglie, Maria di Borgogna, unica figlia di Carlo il Temerario e di Isabella di Borbone, tutta a destra.

Lo stato d’animo mi par chiaro. Più verso il pittore o verso la famiglia?

La posa per l’attesa della pittura, o il nipote sui piedi, direi. L’unione fu felice, si racconta pattinassero insieme sul ghiaccio, con lei che insegnava a lui, lei poi cadde da cavallo male male e si ruppe la schiena, fu cosa tragica. L’espressione non ha alcunché di spirituale, è proprio di rompimento.

le parole nella storia

Risorgimento, Fascismo, Classico, Guerra, Comunismo, Occidente, Utopia, Europa, Partito, Terrorismo, Libertà, Democrazia sono le dodici parole complesse che Luciano Canfora approfondisce nel suo podcast ‘Le parole nella storia’, i «termini fondamentali per conoscere e comprendere la storia recente del nostro Paese», promosso da Laterza.

Oltre alla conoscenza condivisa e trasmessa, sia in senso metaforico che letterale, vale la pena ascoltare il podcast per lo straordinario eloquio di Luciano Canfora, come di consueto, perché è un vero piacere sentirlo parlare. Da latinista, utilizza in maniera propria tutta una serie di vocaboli ignoti ai più, me compreso, che è una utile scoperta o riscoperta poter utilizzare e mettere nella propria saccoccia di attrezzi d’espressione, attivando a monte il concetto espresso. Ovviamente il fulcro sono i contenuti, notevoli, la forma è però davvero sorprendente. Checché ne pensi Meloni, lesa «nell’onore, decoro e reputazione», vergogna.

il concetto di ‘espansione inevitabile’

Leggo un passaggio interessante nel saggio di Simona Merlo, Georgia. Una storia fra Europa e Asia, Trieste, Beit, 2017, che spiega le ragioni dell’espansione dell’impero russo in Georgia nel 1801, passaggio fondamentale «nella strategia di rafforzamento della presenza russa nell’area caucasica auspicato dall’entourage di Caterina, in particolare dal principe Grigorij Potëmkin, ispiratore della politica estera della zarina e convinto sostenitore della vocazione euro-asiatica della Russia». Le ragioni sono connesse più al concetto dell’esistenza del paese stesso e all’inevitabilità di tale espansione, legata a fattori di continuità, identità, comunanza e somiglianza, che a impulsi di conquista coloniale:

«La costituzione dell’Impero fu infatti un progressivo allargamento dei territori originari – il nucleo moscovita – secondo quel processo sintetizzato da Vasilij Ključevskij, di “un paese che colonizza se stesso”.1 Privo di frontiere naturali, lo Stato russo avvertì fin dalle sue origini la necessità di espansione come una condizione preliminare alla sopravvivenza. L’ampliamento dei confini riguardava l’esistenza stessa della Russia, non soltanto la sua estensione e potenza. Nel caso russo, a differenza di quanto avvenuto per i paesi dell’Europa occidentale, “la formazione dell’Impero non è succeduta alla costruzione dello Stato, ma l’ha accompagnata”.2 Per tale motivo, come ha messo in rilievo la studiosa Ljudmila Gatagova, all’Impero degli zar non si addice il classico modello di Impero coloniale. In riferimento al Caucaso l’utilizzo stesso del termine “colonia” è quanto mai improprio. La conquista del Caucaso non fu concepita come una campagna coloniale, ma come un’espansione inevitabile verso sud, così come il Caucaso non fu percepito come una colonia dell’Impero zarista, ma come un suo prolungamento, innanzitutto dal punto di vista geografico. A differenza degli Imperi coloniali – ad esempio le colonie britanniche con la madrepatria – Russia e Caucaso avevano continuità territoriale e frontiere comuni. Ciò non significa tuttavia, che l’Impero russo non abbia applicato nei confronti di questa regione politiche di tipo coloniale».

Non che ciò valga come giustificazione, figuriamoci, l’idea dell’espansione inevitabile rimanda a fatti novecenteschi terribili, ma questo discorso chiarisce alcuni aspetti dell’invasione attuale dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, in particolare là dove fin dall’inizio la posizione dell’invasore è stata che quei territori fossero di fatto Russia, il che è ancor più vero, da un certo punto di vista storico, visto che la componente ucraina nella formazione della cultura, letteratura e storia russa è di certo preponderante. Il senso, quindi, riassumendo brutalmente, è – al di là dei fatti che sono innegabili – l’invito a leggerli in un’ottica diversa dalle crude mire espansionistiche con cui in Europa occidentale siamo abituati a leggere questo tipo di azioni politico-militari, in cui non è secondaria la percezione di sé come «terza Roma», e alla luce di queste considerazioni immaginare possibili soluzioni all’attuale conflitto coerenti con le motivazioni scatenanti.

1 KLJUČEVSKIJ, V. O. Russkaja istorija. Polnyj kurs lekcij v 3 knigach. [La storia russa. Ciclo completo di lezioni in tre volumi], vol. 1, Moskva 1993, p. 20.
2 C. Mouradian, Les russes au Caucase, in Le livre noir du colonialisme: XVI-XXI siècles: de l’extermination à la repentance, a cura di M. Ferro, Paris 2003, p. 393.

e nell’inferno urbano di Amman

Se due giorni fa svernavo nel paradiso della Val di Fumo, in mezzo ai cavalli più biondi che avessi mai visto, qui sotto, chissà perché mi è tornata invece in mente la giungla di cemento di Amman, popolata da quattro milioni di persone.

Oltre cento chilometri di diametro a perdita d’occhio, nessun fiume, pochissimi spazi verdi, molta polvere, attorno un carnaio devastato da Israele che, da due anni a questa parte, ha bombardato tutti i paesi confinanti. Eppure è un luogo che ha molto a che vedere con l’umanità, la città esiste da dieci millenni e le prime statue in forma umana della storia provengono da qui.
E, se devo fare un calcolo personale, passo molto più tempo nei posti come Amman che in quelli come la Val di Fumo, nonostante i pini, l’acqua, l’erba, il vento e l’aria fresca, le formaggelle di malga e l’ombra. Evidentemente non bastano.

nobili operazioni immobiliari: l’edificio tra corso Stati Uniti e corso Umberto a Torino

Passeggio per Torino e un giorno sbatto contro una facciata senza il resto dell’edificio.

Machecaz? Cioè, c’è un resto ma non è il suo. Facciamo subito il nome, Francesco Gioia, e le date, 1985-1989, così lo sappiamo tutti. Ma non basta, c’è anche l’altro lato, cadauno immagini esplicative non mie, dopo questa prima:

Le due facciate sono raccordate al centro proprio in un bel modo:

Ma è nei dettagli che viene il meglio. Per esempio, le finestre tagliate:

Mi permetto di insistere frontalmente:

Il Gioia trovò la soluzione talmente bella da ripeterla anche sull’altro lato, con successo:

Il senso di escrescenza cresciuta appunto dietro la facciata originaria è difficile da negare, avendo lasciato lo spessore con sensibilità che certamente al Gioia sarà stata riconosciuta in un sacco di salotti. Vien però un po’ di malessere da sovrapposizione da collage fatto da un recluso ventennale.

Risparmio l’interno, diciamo, e proseguo per la mia zonzolata, un poco più morto dentro. Vale la solita raccomandazione: ma santoddio, piuttosto tirateli giù, ’sti brandelli, abbiate pietà. Altrimenti è come strappare la faccia a un cadavere e metterselo a mo’ di maschera a una festa. Non dico non piaccia a qualcuno, per carità, ma insomma, mai che telefonino prima.