minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: tre, buio, molto buio, cose grosse da spostare, avanti e indietro per quaranta secoli

La dahabya è ormeggiata a Gezeret Elshbeka e io con lei. Il sole è tramontato, le cicale fringuacchiano, il numero delle stelle è incalcolabile e sul fiume non naviga più niente. Gli ormeggi sono pali appositamente piantati nella terra a riva, non c’è corrente forte in questo tratto del fiume. Voci lontane da chissà dove, mi pare di sentire il canto di un muezzin, qualcuno sta piantando altri pali per altre barche, nessuna luce in vista oltre noi. Cadauno testimonianza:

Scrivo a ritroso perché le cose sono tante, le connessioni poche, spesso nulle, in pochi chilometri di navigazione capita di vedere molti luoghi e persone. E, comunque, questa non è una guida, ce ne sono di molto ben fatte, e men che meno mi metto a giocare all’egittologo, per carità. Ho scelto in un momento di saggezza una compagnia che ne contempla uno, ancora sono inebriato e stordito dalla quantità di informazioni. Ne dico una, tra le più stupefacenti per me: ci sono persone, e sono parecchie qui, che decifrano perfettamente e agevolmente i geroglifici, riconoscendone il significato e lo svolgimento. E non basta: lo fanno mediamente su geroglifici e cartigli distanti tra loro anche trenta secoli e svariate centinaia di chilometri, per dire il regno delle tenebre in cui vivo invece io. In loro compagnia, tutto diventa chiaro, esplicito ed emozionante, i concetti si fanno comunicazione, ciò che è rappresentato ci parla con prodigioso acume, grande profondità e conoscenza dell’uomo, della donna e della vita in sé dal passato.

Va bene, l’ho scritta lirica e va bene, non è che tutto fili liscio così, non è che adesso arrivo io, l’ultimo dei babbuini, e capisco al volo cinquanta secoli di cultura egiziana, nubiana, copta, greca, ittita, siriana, romana, nonostante la guida precisa e paziente. È come se mi spiegassero la fisica quantistica o la legge elettorale, capisco che è complicata, ecco. Ne colgo la complessità e la raffinatezza e comincio a distinguere due o tre cose delle diverse epoche. Distinguo una divinità da un faraone o una regina, distinguo un tempio da un albergo del Novecento, distinguo il fiume dalla terra, una persona da un’auto. Mi pare abbastanza, per ora.

Per vedere Abu Simbel ci vogliono parecchie ore di pullman nel deserto, è molto addentro la Nubia quasi al confine sudanese. Ovviamente è sul lago Nasser, che ne è il motivo per il prodigioso spostamento. Di solito, si parte alle quattro del mattino per arrivare con meno gente possibile, è una specie di cappella Sistina per attrazione e affollamento, parliamo di migliaia di persone ogni giorno. Noi arriviamo a mezzogiorno e risulta essere la scelta migliore, non c’è quasi nessuno. In estate sarebbe un orario proibitivo, ora è perfetto. E non è uno dei due giorni in cui il primo raggio di sole illumina le statue delle divinità nella cella più interna, impossibli.

Oltre a tutta la storia che questo luogo già ha, la vicenda dello spostamento dell’intero tempio e di quello vicino dedicato a Nefertari è interessante e avvincente, anche per lo sforzo collettivo, tecnologico, economico, culturale in nome di un patrimonio comune. Essendo scavato nella montagna, si dovette ricostruire pure quella, con un cupolone da settanta metri di diametro che è esso stesso tempio contemporaneo. Stessa sorte subì il complesso di File, Philae o Phylae alla grecoromana, citato variamente nel mondo antico come meraviglia e situato su alcune isole del fiume: per la costruzione della diga inglese, la prima, rimaneva sommerso per sei mesi all’anno e se la cosa era scenograficamente interessante lo era meno per gli affreschi e i colori degli edifici. Inoltre, in poco tempo il limo li sommerse per oltre quattro metri. Si optò quindi per lo spostamento anche di essi su una parte emersa, cercando di riprodurre anche l’ambiente. Anche in questo caso la struttura e l’architettura sono talmente sensazionali, moderne ed affascinanti (vedere buona parte della fantascienza attuale) che lasciano senza fiato, anche se l’originale approccio a filo del fiume è ormai perduto. Per inciso, volano i millenni: tra Abu Simbel, ovvero Ramses II, e Philae, epoca tolemaica, passano mille anni. Tutta Roma, dalla capanna sul Palatino ad Attila. Tra Cheope e i Tolomei, duemilacinquecento, la distanza tra noi e Pericle. Giustamente, gli egiziani con cui parlo fanno trasparire l’orgoglio per il proprio paese e la sua storia, non mancando mai di rilevare come molto della nostra cultura e, in particolare, della religione, che sia politeistica prima o monoteistica dopo, derivi da quanto già esistente qui. In effetti, vedere le rappresentazioni dei nostri quattro (tre) evangelisti, bue, leone, aquila, già insieme nei geroglifici qualcosa suggerisce. Per dire. Come la sedia per le partorienti. Chissà che solfa tiriamo noi ai turisti a Roma per lo stesso principio.

Le grosse navi per passeggeri che vedo passare sono piene per metà, forse meno, immagino una certa flessione del flusso turistico ci sia, dovuto alla vicina guerra. A Kôm Ombo c’è un enorme e conservato nilometro, era essenziale sapere il livello di un fiume così dedito alle piene stagionali e conoscerne l’andamento. Oggi il fiume è regolato dalle dighe, Aswan come detto, due, le due di Esna, il limo e i coccodrilli sono rimasti per sempre a nord, nel lago Nasser. Un’oasi in cui il fiume scorre placido tra le rocce è un luogo di pace per gli uccelli, aironi, ibis, cormorani e martin pescatori bellissimi che stanno fermi fermi muovendo le ali velocemente finché non si buttano in picchiata in acqua alla vista di un pesce. E lo è anche per noi, navighiamo con un barchino tra le rocce e le canne – ah, informazione: il papiro è estinto, si è scritto troppo -, godendoci il sole, la brezza e i clamorosi colori.

È chiaro che li hanno inventati gli egiziani.


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: due, sintesi geoeconopolitica dell’Egitto contemporaneo, anvedi, così alcune cose sono dette (presuntuoso)

Presente il buio? Il buio, quello vero? Quello nero nero in cui non c’è alcuna luce artificiale, nemmeno quelle piccole dei tralicci, delle auto, di qualche casa. In Europa certo che no, forse ancora in alcune zone centrali della Spagna, ricordo, qui è abbastanza assoluto fuori dalle città lungo il fiume e, ovviamente, nel deserto. Il fatto è che cento e rotti milioni di egiziani abitano stretti stretti attorno alle rive del fiume, compressi in città minori da un milione e mezzo di abitanti, in grande crescita. E dunque? Dunque il piano di sviluppo dell’Egitto moderno comincia con la prima diga, inglese, ad Aswan, la produzione di energia e il controllo del corso e del flusso del grande fiume, facendo passare i raccolti da uno, in occasione delle piene stagionali, ad alcuni. Non ci volle molto tempo che fu necessaria una seconda diga, molto più grande, allo scopo di produrre molta più energia elettrica e, al contempo, un enorme bacino d’acqua dolce sempre disponibile. Acqua più energia significa agricoltura e spazi non ancora coltivati in Egitto significa deserto. E infatti.

La storia geologica di questi territori racconta come fino a diecimila anni fa tutto fosse ricoperto da una rigogliosa savana e già questo basterebbe a mettere in crisi le nostre idee di stabilità. In ragione di questo, poco sotto la sabbia si trova ancora oggi la terra, per cui mi spiegano che basta l’acqua per coltivare il deserto. E i semi, certo, ma quello non è difficile. Ecco la ragione di certe strisce verdi uniformi nel deserto che paiono dipinte a casaccio, come nella foto sopra. Grano. Come negli Stati Uniti, enormi irrigatori di quelli che girano attorno a un punto al centro e producono campi circolari rendono produttive le zone dell’alto Egitto in Nubia. Ma l’acqua al deserto bisogna portarla e allora canali, tubi, strade, cementifici, tralicci infiniti, strada belizima, belizima mi dice, ed è vero. È tutta a gobbe e non sempre dritta ma è nuova e rispetto alle altre belizima, l’autista sta al centro più che può e chi è più piccolo fa andare le ruote nella sabbia. E tra poco la raddoppieranno. Qua e là nel deserto impianti elettrici presidiati da guardie armate, piccoli centri di produzione di cemento, cantieri, camion carichi all’inverosimile con rimorchi altrettanto, ruspe belle e ruspe scassone. Gli operai hanno turni di quaranta giorni nel deserto, che sia strada o canale o tubatura e poi qualche giorno di riposo in città, tutto sotto il governo dell’esercito. Che come accade negli stati militari, e dittature come in questo caso, si occupa di tutto quanto competa allo stato.

All’agricoltura seguono le case, ovvio. Prima attorno ai campi nel deserto, spuntano condomini gialli abbastanza tremendi, sembrano i nostri outlet finto-borghi, conchiusi e circondati dal nulla. E poi le città, New Aswan, New Luxor, New Cairo, i cartelli stradali rimandano ormai di qua o di là, a seconda. La nuova Cairo, capitale che conterrà anche tutti i nuovi edifici di governo, è un’enorme palma artificiale di Dubai spalmata per decine di chilometri nel deserto, illuminata dall’aereo mette un po’ di inquietudine. E ogni spartitraffico ha palme o oleandri o piante fiorite varie. Il faccione di Al Sisi è dappertutto, cartelli ovunque che inneggiano alla grande ascesa dell’Egitto attuale. La conferenza sul clima, il nuovo museo egizio, la pompa, la retorica e come da pagina uno del manuale anche una parte significativa della popolazione in condizione indecente, corruzione e un’inflazione spaventosa per cui la lira egiziana non ha più le monete ma solo carta e andare al cesso costa venti pounds, o lire egiziane. Lo stipendio di un insegnante ne vale seimila, circa duecento euro per fare i conti in tasca ad altrui e l’inflazione pare sia quintuplicata dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.

Ad Aswan il Nilo ha le sue prime cateratte, ovvero isole, scogli e rapide di granito, che storicamente non solo interrompevano la navigazione ma separavano da sempre i regni nubiani da quelli egiziani. Se proprio uno avesse dovuto costruire una diga, ma se proprio proprio, avrebbe avuto senso farla qui. E così è stato. Ci inoltriamo in Nubia, dunque, per alcune ore di corriera nel deserto per arrivare a settanta chilometri dal confine sudanese. Perché lì c’è Abu Simbel, uno dei templi più importanti e belli dell’Egitto classico e sicuramente quello che colpisce di più il nostro immaginario, con i colossoni. Anche per il salvataggio che se ne fece, con un’idea svedese che sembrava più che altro un’idea danese, smonta e rimonta. Ma per oggi è abbastanza e io devo tornare dal deserto al fiume.


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: uno, situazioni letterarie, vengo anch’io, poi mi dite chi è stato

“Linnet Ridgeway!”
“Eccola! E’ lei!” disse il signor Burnaby, proprietario del Tre Corone. Intanto allungava una gomitata al suo amico.
I due uomini rimasero a guardare con tondi occhi e bocche semiaperte. Una imponente Rolls Royce rossa si era fermata in quel momento di fronte all’ufficio postale. Ne scese una ragazza: era senza cappello e indossava un abito che sembrava (ma sembrava soltanto) molto semplice. Una ragazza con i capelli biondi e le fattezze regolari, energiche; una ragazza come se ne vedono poche a Malton-under-Wode.
A passo svelto e deciso, entrò nell’ufficio postale.

È notte, ci sono dieci gradi e l’aria è fresca, la barca a vela dondola sul fiume di cui non si distingue la larghezza per l’assenza di luci, il cielo una coperta di stelle, respiro profondamente e aspetto che il nero diventi più visibile. Sono volutamente poco coperto, per sentire meglio. La barca è piccola, l’ho scelta per quello e non ha nemmeno il motore, se non soffia si aspetta, le altre persone sono per buona parte inglesi. Gli ingredienti ci sono tutti, la barca, gli inglesi, il grande fiume, immagino ci sia anche un investigatore ancora celato, ed eccoci qua.

Esatto, il Nilo. Mi emoziono a pensare quanta Storia, quella con la esse maiuscola, sia passata sopra e attorno questo fiume, la Storia fatta di vite infinite, di successioni e ripetizioni, di molecole che si ricombinano in ogni epoca inseguendo sempre un po’ le stesse cose, aspirare a qualcosa di più della fatica e della sofferenza. Certo, quanti Tutmosis, quante Nefertiti, quanti Antonii o Cesari avranno inseguito sogni di potere e d’amore sul fiume, quanti Belzoni un sogno di conoscenza e ricchezza, quanti generali avranno condotto campagne militari risalendo o scendendo il fiume, impossibile dirlo. Ma quella è la storia, i picchi e le tappe che ci servono per raccontarla, ma la Storia sono il fiume, il fango, il deserto, le moltitudini di milioni, i sandali di cinquemila anni fa che ancora si possono vedere intatti al museo di Torino, identici ai nostri. Questa è la Storia. Siamo noi, diceva uno. Anzi: Noi, stesso principio collettivo.

È andata che in un pub di Bath a novembre una donna mi raccontò che organizzava risalite e discese non troppo ardite del Nilo in barca a vela e io, che non ero proprio sicuro di aver colto ogni dettaglio tra lingua e birre, e poi comunque non m’importa, dissi vengoanchio e lei non disse notuno. Certo, Al Sisi, maledizione, questo mi dà fastidio, sarà mica che porto poi soldi e risorse alla dittatura, no? Già. Però ho il ricordo preciso di mia madre che vent’anni fa al ritorno dall’Egitto mi disse di mettere in conto un giro, considerandolo importante, poi ci furono le bombe, la speranza delle primavere poi frustrate, la dittatura. Insomma, ecccomi, con le solite contraddizioni, qualche dilemma, il me stesso migliore, quello dei viaggi e dei minidiari, con dentro il me stesso appesantito dai fardelli, dalle difficoltà che ciascuno di noi ha, dai lavori inconclusi. Sto leggendo Ginzburg, sempre dritta al punto senza una parola di troppo o di meno, che scrive proprio ora come mi parlasse: “Alcuni vanno a fare dei viaggi. Nell’ansia di veder paesi nuovi, gente diversa, c’è la speranza di lasciare dietro a sé i propri torbidi fantasmi; c’è la segreta speranza di scoprire in qualche punto della terra la persona che potrà parlare con noi”. Se non altro, in ciò che posso decidere lo faccio a modo mio.

L’aereo oggi ha sorvolato la Grecia, le colline e le montagne innevate che vanno dritte in mare dietro Atene, si vedeva, e due ore dopo era il delta con Alessandria, il Cairo e un sacco di città che ancora non conosco. Impressionante pensarci, Erodoto ci mise anni, una vita, a fare lo stesso viaggio con tutta l’attenzione e la profondità che io non conosco oggi, volando sparato nella pirlosfera. Certo, poi lui incontrava anche le popolazioni tutto-piede che mangiavano solo pinoli, tanto chi poi lo sapeva? Che meraviglia.

Bene, ora ci sono. Me la rido ancora per l’unica, ripetitiva, costante raccomandazione preoccupata che ho ricevuto dalle persone care: il cagotto. Si vedeva la sincera partecipazione di tutti, parlandone per esperienza diretta o secondaria. Grazie, apprezzo la premura, ho resistito agli altopiani anatolici, ai traghetti greci, ai mercati cantonesi, alle bancarelle thailandesi, ai tavolacci marocchini, lo farò anche stavolta. Dovrò piuttosto stare attento al mio veleno, il pollo, così diffuso e mascherato nei paesi arabi. Che se lo mangio mi tramuto nella saponificatrice di Correggio.

La letteratura ci dice quindi che in questo tipo di belle idee, barche sul Nilo con inglesi, uno tra tutti poi ci resta secco. Sta’ a vedere che stavolta è l’italiano, che cavolo. Vabbè, se accade tra un po’ comprate il libro, così saprete chi è stato e lo farete impiccare.


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mezz’ora o due giorni e mezzo?

Ecco, secondo me in Italia il Panasonic deck rs-296US non arrivò mai e se anche lo fece di sicuro non nelle case dei giovani ululanti come me.

Fortuna peraltro che ne abbia scoperto l’esistenza solo ora, allora sarei diventato pazzo a non poterlo avere, avrei sbavato per mesi o anni. Un po’ sto sbavando anche ora, a esser onesto. Venti cassette in fila su entrambi i lati, l’autoreverse per chi lo sa, addirittura il selettore per l’ordine di riproduzione. Altro che il fuoco, Prometeo portò questo dall’Olimpo tra gli umani.

Il disco ruotava, portando in posizione la cassetta che poi si inabissava andando sulle testine e venendo riprodotta. Ovviamente, sarebbe stato da pazzi avere venti testine e il disco fermo.
Ovviamente Panasonic non fu l’unica ad affrontare la questione della riproduzione in sequenza di cassette, vedi per esempio le programmazioni delle stazioni radio, specie di notte, ma fu quella che la fece nella maniera più elegante anticipando tutti. Anche la Pioneer produsse il proprio modello, ben più tardi, il CT-M6R. Anni Ottanta, sei cassette, infinamai telecomando, impilabile con gli altri elementi dello stereo.

La Philips, come suo solito, affrontò il problema nel modo più creativo possibile e sicuramente più economico, con quello che poi venne colloquialmente chiamato il ‘crazy ski slope’, l’N2408. Ecco la mattata:

Le cassette risalivano la rampa, girandosi di lato, e venivano reimpilate. Ecco come funziona. Un sacco di usura meccanica e di possibili complicazioni, secondo me si incastravano di continuo ma Philips faceva così: innovava, spesso con estetica ingegneresca e nederlandica. Una completa follia, bellissimo.
Di cassette ne ho ancora a bizzeffe, centinaia come minimo, tutte belle organizzate e, chissà, smagnetizzate. Ma se avessi un magnifico deck rs-296US allora sì che potrei, allora sì che il sole mi splenderebbe in casa, allora sì che tutto avrebbe finalmente senso. Allora sì.

“perché il 1984 non sarà come 1984”

Quarant’anni fa esatti nacque il Macintosh.

Cioè Apple lo presentò e lo mise in vendita dal 24 gennaio 1984 al 1º ottobre 1985, al prezzo di $2,495. Che oggi sarebbero circa settemila dollari. In quella finestra, mia madre con un balzo evolutivo grandioso che ancora oggi le riconosco lo comprò, alla modica cifra alla quale era in vendita in Italia allora: sette milioni. Per capirci, il prezzo di una Panda 45, modello lanciato l’anno prima da FIAT e di grandissimo successo. E in più, la stampante ad aghi, stesso prezzo. Due auto, quindi. Ma per il suo lavoro fu impagabile, dall’alto dei suoi 128k di RAM, niente disco fisso, interfaccia grafica che tutti gli altri se la sognavano e dischetti da tre e mezzo. Ciao altri, ce l’ho ancora e va. L’ho già raccontata. Per dare un’idea della legge del raddoppio, il Macintosh Plus del 1986 aveva 1mb di RAM espandibile a 4 e floppy a doppia densità, fino a 800kb. Che tempi. Lo slogan di lancio? Non fidarti mai di un computer che non puoi sollevare! Vero, perdio.

«non scherziamo. Dovevamo votare su un tema etico, non politico»

E poi arriva quel giorno, per me oggi, in cui uno si trova d’accordo con Luca Zaia.

Lo so, sono sconcertato anch’io. Oggi il consiglio della Regione Veneto ha votato – male – sulla legge di iniziativa popolare sul suicidio medicalmente assistito, ovvero per stabilizzare e delineare i contenuti della sentenza nata dal caso dj Fabo. È stato un pareggio, e qui la colpa non è solo della destra integralista ma è distribuita con quei fardelli dei cattolici dell’accidenti che ci portiamo dietro anche a sinistra, il che porta la cosa su un binario morto. Il progetto di legge torna in commissione Sanità e lì pare destinato a finire in un cassetto. Vorrei ricordare esplicitamente il voto contrario della consigliera del Pd Anna Maria Bigon, determinante.
Zaia ha spinto molto per l’approvazione, mesi in cui le minacce dei comitati pro vita sono state davvero pesanti e vergognose, e in un momento non facile per la sua posizione personale, in fine mandato, sostenendo una parte progressista della Lega che si occupa anche di diritti in ottica di etica e non di politica, minoranza purtroppo rispetto ai degenerati salviniani. Gliene va dato atto e io lo faccio oggi, stavolta sono d’accordo con Luca Zaia: «Io sono per il rispetto della scelta individuale. Rispetto tutti ma vorrei essere libero di scegliere se dovesse capitare a me di trovarmi in una certa situazione». Già. E: «Sì, perché al di là di tanti bei discorsi di principio, c’è la vita che bussa alla nostra porta. Noi amministratori siamo chiamati a dare risposte ai cittadini, anche o soprattutto di fronte a situazioni così delicate».