La copertina di Der Spiegel del 9 giugno 2018:
Sei anni dopo sono tutti ancora lì, Orbàn, Putin, Xi Jinping e, ora, anche Trump. Ovvio, è la loro natura di autolegittimati. Che contentezza.
La copertina di Der Spiegel del 9 giugno 2018:
Sei anni dopo sono tutti ancora lì, Orbàn, Putin, Xi Jinping e, ora, anche Trump. Ovvio, è la loro natura di autolegittimati. Che contentezza.
Non è andata molto bene.
Sconfitta senza appello su tutta la linea, uomini e donne bianche hanno votato compatti per lui. L’Ucraina è fottuta, Gaza è fottuta, l’emergenza climatica un tantinello pure e anche quelli che in Europa esultano per la sua vittoria a breve assaggeranno i dazi commerciali e il protezionismo americani.
Un paio di dati, il voto per contea e la distribuzione per genere ed etnia:
Deprimente. Fosse almeno un’altra persona, uno diverso, ma otto anni dopo ancora lui, incattivito, aggravato da cause e processi, invecchiato parecchio, mi lascia ancor più intristito.
Ma la cosa che in assoluto mi fa più male, al di là dei fatti veri, è questa: data per persa ad agosto, al ritiro di Biden, da quel momento lì in poi di che abbiamo parlato? Non ci siamo mai mossi da lì, altro che terno al lotto e tutto equilibrato, serve rimettere a posto ogni capacità di analisi della realtà e di previsione, ma proprio tutte. Che disastro.
Bene, io torno nel deserto, alla grande e aperta e filofemminista democrazia araba.
Voi che fate?
Mentre si celebrava come una svolta storica nelle politiche migratorie italiane la deportazione di sedici persone in Albania, al modesto costo di diciottomila euro cadauno, nel nostro Paese sono arrivati 2.285 immigrati.
E poi sono tornati i sedici.
Molto ridicolo, non fosse tragico, il video soliloquio di Matteo Salvini in propria difesa dalle accuse del processo Open Arms. Come Agamennone, da solo ha difeso i confini patrii da una pericolosa armata di naufraghi disidratati e indeboliti a bordo di una barca ferma al largo comandata da una giovane e coraggiosa donna con i dreadlocks e le birkenstock. Eroe.
Il video, chiaramente girato da un pazzo manicomiale, presenta l’imputato su sfondo nero illuminato da luci che sono talmente messe male e sparate da enfatizzare il colletto e il doppio mento di quello che sembra un direttore d’orchestra di terza categoria appena uscito da un collegio dei docenti di sei ore. La loquela ha l’andamento di un miope che legge a fatica un gobbo conoscendo poco la lingua del messaggio e ancor meno intendendo.
Oltre a tutto, ma non c’era da dubitarne, quanto detto dall’imputato corrisponde davvero raramente alla realtà dei fatti, ecco un bel fact checking quasi in diretta.
Dopo la bella intervista di ieri, due particolari della vicenda mi piacciono parecchio, credo valga la pena riportarli.
Il primo risale alla formazione del governo nel settembre 2022, Forza Italia chiedeva per sé il ministero della cultura, Meloni oppose una considerazione che riporta in questi giorni il Post: disse di avere per quel posto «un nome enorme, incontestabile». Lui, Sangiuliano, è lui il nomone. Signore, grazie perché ci doni la realtà. Inarrivabile.
Il secondo è di oggi, da Palazzo Chigi fanno sapere che – sempre col tono lagnoso e perseguitato classico di questa destra – sospettano ci sia «una regia occulta» dietro le astutissime mosse di Boccia, donna «lucida» e «diabolica», niente di meno. Ovvio ci sia una macchinazione dei poteri forti, della Spectre, del Cremlino di una volta. E perché accade questo? Perché Sangiuliano «sta lavorando per smantellare un sistema consolidato negli anni del Pd», ovvia quindi la reazione del sistema contro i veri rivoluzionari picconatori spingitori di cambiamento.
Ho proprio bisogno di una vescica più resistente.
Aggiornamento: leggo su Repubblica un virgolettato di Liliana Segre a proposito della vicenda, ovvero: «Le vicende a cui assistiamo sono in antitesi con qualsiasi forma di intelligenza». Ora, conosciamo la disinvoltura con cui volano le virgolette, trasformando chissà che in dichiarazioni, per cui meglio cautela. Non posso dire però che non mi piaccia la schiettezza. Meglio comunque affidarsi alle virgolette successive, più plausibili: «È una vicenda squallida e triste».
Non ridevo così tanto dalla morte di madre teresa di Calcutta. Sangiuliano – ministro della cultura del governo Meloni, fedele alla propria carriera – va su raiuno, sfrattando la trasmissione in palinsesto, e si fa intervistare dal direttore del tg1 sul caso Boccia (uso privato di mezzo pubblico, tra l’altro): non mancano le finte lacrime, le scuse «a mia moglie, a Giorgia Meloni e al mio staff», al paese no, eh, si dichiara pronto a fare qualsiasi cosa per restare con la moglie – sempre dopo, son disposti a tutto, dopo – e fa tutti gli errori possibili, uno dopo l’altro, dopo tutti quelli dei giorni scorsi. Come quello madornale di chiamare la ex, Boccia, lasciata l’8 agosto, per assicurarsi che lei riporti correttamente i fatti (secondo ovviamente Sangiuliano), come dichiara nell’intervista.
Siccome questa è la classica testimonianza che poi sparirà, restando solo a spizzichi e bocconi, mi son acchiappato il video integrale e vualà, lo lascio qui a perenne ludibrio:
Citando Bizzarri, non ha un amico, Sangiuliano, che lo consigli di stare zitto e sparire? Che gli spieghi che non si chiama una ex, donna ferita in questo caso, per dirle pure cosa deve o non deve fare? Che fare dichiarazioni incaute ogni giorno cui lei risponde pubblicando su IG carte e video che lo smentiscono non sia una buona linea di difesa? No, evidentemente no, se no non sarebbe il Sangiuliano della luminosa sequela di gaffes e cretinate indicibili. È evidente che non ci sia altra strada che le dimissioni, nonostante la presidente del consiglio desideri far finta di non dover rimpastare e faccia finta di non vedere anche Santanchè.
Senz’altro.
Evidentemente. Come tutte le altre volte. Stia bene.
Ora che la candidatura di Harris è ufficiale anche per il voto dei delegati, ora che è scato scelto Walz, è ora di parlare di Project 2025.
L’inquietante Project 2025 (per esteso: The 2025 Presidential Transition Project) è un programma di governo per un’ipotetica amministrazione di destra negli Stati Uniti curato dal centro studi conservatore Heritage Foundation. Gli obbiettivi contenuti nelle 920 pagine del programma possono essere riassunti in tre filoni generali: riformare le istituzioni per accentrare il potere nelle mani del presidente; attuare un’agenda conservatrice in molti ambiti, dall’economia all’immigrazione; ridurre i diritti civili sulla base di un’ideologia religiosa radicale. Non tanto bene, quindi.
Per entrare un poco nei contenuti, il piano per esempio prevede di: rendere migliaia di posti di lavoro nelle istituzioni a nomina governativa, così da selezionare direttamente i dipendenti pubblici anche in base alle loro posizioni politiche; spostare il dipartimento di Giustizia sotto il controllo diretto della Casa Bianca; tagliare la spesa sanitaria e aumentare quella militare; interrompere gli sforzi per far fronte al cambiamento climatico; ridurre in modo consistente l’accesso all’aborto ed eliminare l’aborto farmacologico; tutelare gli interessi delle grosse corporazioni amiche a discapito dei cittadini. Ovviamente propone inoltre una visione molto tradizionale della famiglia e vuole vietare la pornografia punendo con il carcere le persone che la producono e la distribuiscono. Non parliamo degli immigrati, per i quali si parla di ‘deportazione’.
Trump e il suo comitato stanno cercando di prendere le distanze da Project 2025 – «Project 2025 non ha nulla a che fare con la campagna [di Trump], non parla a nome della campagna e non dovrebbe essere associato alla campagna in alcun modo», minacciando querele -, di fatto però il piano viene da associazioni e organizzazioni conservatrici vicine alle posizioni del candidato. Molti degli estensori del piano sono stati nominati o hanno avuto a che fare direttamente con l’amministrazione Trump.
La mappa delle organizzazioni coinvolte nella stesura del piano:
Qui il link all’intero documento. Tutta la faccenda è molto pericolosa e va contenuta.
Còmala Harris ha scelto un po’ a sorpresa come candidato vicepresidente Tim Walz. Io avrei scelto Kelly, scommesso su Shapiro, grazie per non avermi consultato e, ora, direi: ottima scelta.
Oltre a Walz, i candidati favoriti sembravano essere il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro e il senatore dell’Arizona Mark Kelly, entrambi principalmente per il fatto di provenire da swingin’ States, cioè Stati in bilico nel voto. Sulla base dei sondaggi, però, nessuno è risultato determinante e alla fine Harris ha scelto più in base alle affinità personali che ai numeri. Domenica tutti e tre sono stati invitati a Washington D.C. per incontrare separatamente Harris, in quello che è stato descritto come un «test di chimica», per valutarne l’affinità personale.
Il ruolo del vicepresidente è complicato e spesso ingrato e, senza dubbio, deve portare esperienza e capacità ma senza mai rubare la scena al presidente. Per questo motivo Shapiro è stato scartato, è sembrato restio a lasciare la propria carica di governatore, non ha mai nascosto le proprie ambizioni presidenziali e si è espresso pubblicamente a favore di Israele, alienandosi la sinistra del partito. Kelly sembrava adatto ma, come detto, probabilmente ha mostrato meno sintonia con Harris.
Oltre all’affinità personale, Walz ha 60 anni, è l’attuale governatore del Minnesota, è presidente dell’Associazione nazionale dei governatori Democratici, è noto e stimato anche negli ambienti politici del Congresso ed è uno dei principali politici Democratici nella zona del Midwest, che include importanti stati in bilico tra cui anche il Michigan e il Wisconsin. Ha idee progressiste vicine alle sensibilità Democratiche, un atteggiamento alla mano e ottime capacità comunicative. Nel suo curriculum ci sono 24 anni nella Guardia Nazionale degli Stati Uniti, la principale forza militare di riservisti dell’esercito, insegnante nella scuola superiore, allenatore di football e deputato al Congresso per più di dieci anni, tra il 2007 e il 2019. Sostenitore del diritto all’aborto, della legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo e di maggiori controlli sul possesso di armi da fuoco.
Fino a poco fa Walz non era un politico particolarmente noto fuori del Minnesota. Le cose sono cambiate nelle ultime due settimane, durante le quali ha partecipato a varie interviste televisive in cui è apparso sempre informale e amichevole ma, anche, convinto nel criticare Trump e Vance, diventando il primo a usare l’espressione «weird», cioè “strano”, per riferirsi a Trump, a Vance e più in generale alla componente più conservatrice del Partito Repubblicano, con grande successo comunicativo.
Weirdos.