due piccole note ancora sul caso Sangiuliano

Dopo la bella intervista di ieri, due particolari della vicenda mi piacciono parecchio, credo valga la pena riportarli.
Il primo risale alla formazione del governo nel settembre 2022, Forza Italia chiedeva per sé il ministero della cultura, Meloni oppose una considerazione che riporta in questi giorni il Post: disse di avere per quel posto «un nome enorme, incontestabile». Lui, Sangiuliano, è lui il nomone. Signore, grazie perché ci doni la realtà. Inarrivabile.
Il secondo è di oggi, da Palazzo Chigi fanno sapere che – sempre col tono lagnoso e perseguitato classico di questa destra – sospettano ci sia «una regia occulta» dietro le astutissime mosse di Boccia, donna «lucida» e «diabolica», niente di meno. Ovvio ci sia una macchinazione dei poteri forti, della Spectre, del Cremlino di una volta. E perché accade questo? Perché Sangiuliano «sta lavorando per smantellare un sistema consolidato negli anni del Pd», ovvia quindi la reazione del sistema contro i veri rivoluzionari picconatori spingitori di cambiamento.
Ho proprio bisogno di una vescica più resistente.

Aggiornamento: leggo su Repubblica un virgolettato di Liliana Segre a proposito della vicenda, ovvero: «Le vicende a cui assistiamo sono in antitesi con qualsiasi forma di intelligenza». Ora, conosciamo la disinvoltura con cui volano le virgolette, trasformando chissà che in dichiarazioni, per cui meglio cautela. Non posso dire però che non mi piaccia la schiettezza. Meglio comunque affidarsi alle virgolette successive, più plausibili: «È una vicenda squallida e triste».

come fare tutti, tutti, gli errori possibili uno dopo l’altro

Non ridevo così tanto dalla morte di madre teresa di Calcutta. Sangiuliano – ministro della cultura del governo Meloni, fedele alla propria carriera – va su raiuno, sfrattando la trasmissione in palinsesto, e si fa intervistare dal direttore del tg1 sul caso Boccia (uso privato di mezzo pubblico, tra l’altro): non mancano le finte lacrime, le scuse «a mia moglie, a Giorgia Meloni e al mio staff», al paese no, eh, si dichiara pronto a fare qualsiasi cosa per restare con la moglie – sempre dopo, son disposti a tutto, dopo – e fa tutti gli errori possibili, uno dopo l’altro, dopo tutti quelli dei giorni scorsi. Come quello madornale di chiamare la ex, Boccia, lasciata l’8 agosto, per assicurarsi che lei riporti correttamente i fatti (secondo ovviamente Sangiuliano), come dichiara nell’intervista.
Siccome questa è la classica testimonianza che poi sparirà, restando solo a spizzichi e bocconi, mi son acchiappato il video integrale e vualà, lo lascio qui a perenne ludibrio:

Citando Bizzarri, non ha un amico, Sangiuliano, che lo consigli di stare zitto e sparire? Che gli spieghi che non si chiama una ex, donna ferita in questo caso, per dirle pure cosa deve o non deve fare? Che fare dichiarazioni incaute ogni giorno cui lei risponde pubblicando su IG carte e video che lo smentiscono non sia una buona linea di difesa? No, evidentemente no, se no non sarebbe il Sangiuliano della luminosa sequela di gaffes e cretinate indicibili. È evidente che non ci sia altra strada che le dimissioni, nonostante la presidente del consiglio desideri far finta di non dover rimpastare e faccia finta di non vedere anche Santanchè.

qualche nota su Project 2025

Ora che la candidatura di Harris è ufficiale anche per il voto dei delegati, ora che è scato scelto Walz, è ora di parlare di Project 2025.
L’inquietante Project 2025 (per esteso: The 2025 Presidential Transition Project) è un programma di governo per un’ipotetica amministrazione di destra negli Stati Uniti curato dal centro studi conservatore Heritage Foundation. Gli obbiettivi contenuti nelle 920 pagine del programma possono essere riassunti in tre filoni generali: riformare le istituzioni per accentrare il potere nelle mani del presidente; attuare un’agenda conservatrice in molti ambiti, dall’economia all’immigrazione; ridurre i diritti civili sulla base di un’ideologia religiosa radicale. Non tanto bene, quindi.
Per entrare un poco nei contenuti, il piano per esempio prevede di: rendere migliaia di posti di lavoro nelle istituzioni a nomina governativa, così da selezionare direttamente i dipendenti pubblici anche in base alle loro posizioni politiche; spostare il dipartimento di Giustizia sotto il controllo diretto della Casa Bianca; tagliare la spesa sanitaria e aumentare quella militare; interrompere gli sforzi per far fronte al cambiamento climatico; ridurre in modo consistente l’accesso all’aborto ed eliminare l’aborto farmacologico; tutelare gli interessi delle grosse corporazioni amiche a discapito dei cittadini. Ovviamente propone inoltre una visione molto tradizionale della famiglia e vuole vietare la pornografia punendo con il carcere le persone che la producono e la distribuiscono. Non parliamo degli immigrati, per i quali si parla di ‘deportazione’.

Trump e il suo comitato stanno cercando di prendere le distanze da Project 2025 – «Project 2025 non ha nulla a che fare con la campagna [di Trump], non parla a nome della campagna e non dovrebbe essere associato alla campagna in alcun modo», minacciando querele -, di fatto però il piano viene da associazioni e organizzazioni conservatrici vicine alle posizioni del candidato. Molti degli estensori del piano sono stati nominati o hanno avuto a che fare direttamente con l’amministrazione Trump.

La mappa delle organizzazioni coinvolte nella stesura del piano:

Qui il link all’intero documento. Tutta la faccenda è molto pericolosa e va contenuta.

Donald Trump su un jet privato con Kevin Roberts, CEO di Heritage Foundation, autore del documento di Project 2025

qualche nota su Tim Walz

Còmala Harris ha scelto un po’ a sorpresa come candidato vicepresidente Tim Walz. Io avrei scelto Kelly, scommesso su Shapiro, grazie per non avermi consultato e, ora, direi: ottima scelta.

Oltre a Walz, i candidati favoriti sembravano essere il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro e il senatore dell’Arizona Mark Kelly, entrambi principalmente per il fatto di provenire da swingin’ States, cioè Stati in bilico nel voto. Sulla base dei sondaggi, però, nessuno è risultato determinante e alla fine Harris ha scelto più in base alle affinità personali che ai numeri. Domenica tutti e tre sono stati invitati a Washington D.C. per incontrare separatamente Harris, in quello che è stato descritto come un «test di chimica», per valutarne l’affinità personale.

Il ruolo del vicepresidente è complicato e spesso ingrato e, senza dubbio, deve portare esperienza e capacità ma senza mai rubare la scena al presidente. Per questo motivo Shapiro è stato scartato, è sembrato restio a lasciare la propria carica di governatore, non ha mai nascosto le proprie ambizioni presidenziali e si è espresso pubblicamente a favore di Israele, alienandosi la sinistra del partito. Kelly sembrava adatto ma, come detto, probabilmente ha mostrato meno sintonia con Harris.

Oltre all’affinità personale, Walz ha 60 anni, è l’attuale governatore del Minnesota, è presidente dell’Associazione nazionale dei governatori Democratici, è noto e stimato anche negli ambienti politici del Congresso ed è uno dei principali politici Democratici nella zona del Midwest, che include importanti stati in bilico tra cui anche il Michigan e il Wisconsin. Ha idee progressiste vicine alle sensibilità Democratiche, un atteggiamento alla mano e ottime capacità comunicative. Nel suo curriculum ci sono 24 anni nella Guardia Nazionale degli Stati Uniti, la principale forza militare di riservisti dell’esercito, insegnante nella scuola superiore, allenatore di football e deputato al Congresso per più di dieci anni, tra il 2007 e il 2019. Sostenitore del diritto all’aborto, della legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo e di maggiori controlli sul possesso di armi da fuoco.

Fino a poco fa Walz non era un politico particolarmente noto fuori del Minnesota. Le cose sono cambiate nelle ultime due settimane, durante le quali ha partecipato a varie interviste televisive in cui è apparso sempre informale e amichevole ma, anche, convinto nel criticare Trump e Vance, diventando il primo a usare l’espressione «weird», cioè “strano”, per riferirsi a Trump, a Vance e più in generale alla componente più conservatrice del Partito Repubblicano, con grande successo comunicativo.

Weirdos.

ancora Bologna, ancora il due agosto (e son quarantaquattro)

Vero, sappiamo chi, sappiamo come e perché. Sarebbe bello fosse storia, almeno, consegnata ai libri come verità storica, giudiziaria e personale di chi ha perso parenti e amici, di chi è stato ferito, di chi ha vissuto direttamente e indirettamente l’insulto e la violenza. E invece no, è vero che manca la stronzata agostana di Cossiga che dal 1980 lanciava annualmente piste diverse, ora abbiamo la seconda e la quarta carica dello stato, minuscolo oggi, che giocano con la pelle e la storia del paese e delle persone, e giù a scendere di piccolo in piccolissimo. Nessuna novità, almeno oggi non ci sono le bombe, mica detto poco. Ma la soddisfazione è davvero altra cosa.

Se, giustamente, Paolo Bolognesi dice dal palco: «Le radici di quell’attentato affondano nella storia del postfascismo italiano: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo» la cosa ha perfettamente senso. Non ce l’ha che la presidente del consiglio Meloni risponda: «Sono profondamente e personalmente colpita dagli attacchi ingiustificati e fuori misura che sono stati rivolti alla sottoscritta e al Governo», parli di frasi «molto gravi» e aggiunga: «Ed è pericoloso, anche per l’incolumità personale». L’unica risposta è quella, ancora, di Bolognesi: «Meloni la finisca di fare la vittima». Questa destra aggressiva, bulla e sfrontata che quando viene messa in discussione si lagna e piagnucola ha veramente da finire.

un’altra settimana preoccupante in Italia: dal report UE alle liste di proscrizione de Il Giornale

Qui serve seguire e tenere memoria.
Il 24 luglio scorso, come accade ogni anno, la Commissione europea ha pubblicato il report annuale sullo Stato di diritto nei Paesi membri, il cosiddetto 2024 Rule of Law Report. Oltre ad alcune raccomandazioni, al governo italiano «è chiesto di impegnarsi nella digitalizzazione di tribunali penali e procure, di adottare la proposta legislativa in sospeso sui conflitti di interessi, di istituire un registro operativo per le lobby, di regolamentare le informazioni sui finanziamenti a partiti e campagne elettorali, di tutelare i giornalisti e garantire l’indipedenza dei media e di creare un’Istituzione nazionale per i diritti umani in linea con i principi Onu», il report esprime alcune preoccupazioni:

  • libertà di stampa ed espressione: «i giornalisti continuano ad affrontare diverse sfide nell’esercizio della loro professione» tra cui minacce e aggressioni, il report parla di settantacinque episodi quest’anno, «con una crescita di casi di intimidazione legale da parte dei politici». La Commissione europea parla anche di uno spazio civico “ristretto”, alla luce degli «attacchi verbali da parte di alcuni media e politici contro le organizzazioni, soprattutto quelle che svolgono attività umanitarie, e di episodi di violenza contro i manifestanti da parte della polizia»;
  • premierato: la Commissione europea scrive che «non sarebbe più possibile per il presidente della Repubblica trovare una maggioranza alternativa e/o nominare una persona esterna al parlamento come primo ministro». Vengono menzionati la preoccupazione di alcuni “portatori di interesse” per le modifiche proposte all’attuale sistema di pesi e contrappesi istituzionali, e i dubbi sul fatto che la riforma «possa portare maggiore stabilità». L’Italia inoltre, rientra tra i Paesi in cui «le dichiarazioni pubbliche dei governi e dei politici possano influenzare la fiducia nell’indipendenza della magistratura», e anche fra quelli in cui si nota «l’uso considerevole di procedure legislative accelerate o di decreti d’urgenza»;
  • abrogazione del reato di abuso d’ufficio: limita l’ambito di applicazione del reato di traffico d’influenza e con la separazione delle carriere potrebbe incidere sull’indipendenza della magistratura. Nella sezione relativa alla lotta alla corruzione, il report sottolinea come i cambiamenti in quest’ambito potrebbero avere implicazioni per «l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzione». Il documento aggiunge che «le modifiche proposte alla prescrizione potrebbero ridurre il tempo a disposizione per condurre procedimenti giudiziari per reati penali, compresi i casi di corruzione».

Věra Jourová, commissaria ai Valori e alla Trasparenza, «Esprimiamo preoccupazione per l’indipendenza e il finanziamento dei media di servizio pubblico e chiediamo alle autorità di affrontare la situazione. Sono anni che esprimiamo la necessità di tutele. Ma con i nuovi incidenti e i tagli al bilancio, questa necessità sta diventando molto urgente». Molti altri rilievi al governo italiano, basti cui la sintesi, si capisce bene l’evidente stroncatura su molteplici aspetti. È del tutto plausibile la voce che il report fosse pronto dal 3 e che si sia aspettata la conferma di Von der Leyen per inviarlo.

Quattro giorni dopo, Meloni risponde ufficialmente al report con una lettera rivolta direttamente alla presidente UE: «Le raccomandazioni finali nei confronti dell’Italia non si discostano particolarmente da quelle degli anni precedenti, tuttavia per la prima volta il contenuto di questo documento è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il governo italiano. Qualcuno si è spinto perfino a sostenere che in Italia sarebbe a rischio lo Stato di diritto, la libertà di informazione» per poi proseguire con «attacchi maldestri e pretestuosi che possono avere presa solo nel desolante contesto di ricorrente utilizzo di fake news che sempre più inquina il dibattito in Europa. Dispiace che neppure la Relazione della Commissione sullo stato di diritto e in particolare sulla libertà di informazione sul servizio pubblico radiotelevisivo sia stata risparmiata dai professionisti della disinformazione e della mistificazione». La lettera è molto lunga, si capisce che je rode, e oltre alle mistificazioni e alle fake news, Meloni fa ricorso all’armamentario politico della colpa di qualcuno che c’era prima, arrivando fino al governo Renzi.

E siamo al 28. Il 29 la portavoce dell’UE, Anitta Hipper, dice che: «Abbiamo confermato di aver ricevuto la lettera» di Meloni e che «la stiamo valutando e in questa fase non abbiamo alcun elemento ulteriore», non precisando ulteriormente se vi sarà una risposta o meno. Da ambienti europei, traspare “sconcerto e sorpresa” sia per i toni utilizzati sia perché la lettera di Meloni è stata pubblicata prima che la presidente della Commissione la leggesse. Tutta la situazione si inasprisce e Meloni dalla Cina rincalza: «Capisco il tentativo di strumentalizzare, conosco il tentativo di cercare il soccorso esterno da parte di una sinistra in Italia che evidentemente è molto dispiaciuta di non poter utilizzare per esempio il servizio pubblico come fosse una sezione di partito, però su questo non posso aiutare proprio perché credo nella libertà di informazione e di stampa» ed evidentemente sbanda, ricordando i discorsi più retrivi di Berlusconi che se la prendeva con la sinistra. E maldestramente sostiene che i rapporti con l’UE non siano in peggioramento, contro ogni evidenza, sfiorando il ridicolo con «nessuna interferenza sulla governance Rai», mentre dall’UE precisano che: «Il rapporto è frutto di una metodologia consolidata e basata sui fatti».

Poi, però, qui si passa ai fatti: stamane, 30 luglio, Il Giornale, di fatto organo di propaganda del Governo e di proprietà del senatore leghista Angelucci, pubblica i nomi di sei giornalisti accusati di essere nemici del governo Meloni: Anna Bredice di Radio Popolare, Nello Trocchia e Francesca De Benedetti di Domani, Matteo Pucciarelli di Repubblica, Ilario Lombardo de La Stampa, Martina Castigliani de Il Fatto Quotidiano. Secondo Il Giornale sarebbero responsabili di avere ispirato e passato notizie al consorzio europeo Media Freedom Rapid Response, che in un rapporto uscito ieri denuncia il rischio per la libertà di stampa in Italia: «L’interferenza politica nei media pubblici e l’uso sistematico di intimidazioni legali contro i giornalisti da parte degli attori politici da tempo definiscono il rapporto tra media e politica in Italia. Tuttavia, negli ultimi due anni queste dinamiche hanno raggiunto livelli allarmanti».

se questa è la seconda carica dello Stato

Non mi occupo quasi più di politica italiana, la quasi totalità del dibattito è irrilevante, se non per la continua aggressione ai diritti sociali delle persone di questa squallida maggioranza. Bisogna occuparsi, sarebbe ora di metterlo a fuoco anche quando si vota, di politica europea e mondiale, prendendo atto del fatto che siamo periferia giovernata da nanetti a meno che non ci inventiamo una seconda età dei Lumi.
Stavolta però vorrei riportare un articolo ben scritto e dai toni piuttosto definitivi, che condivido. Gli antefatti: il cronista Andrea Joly de La Stampa viene aggredito da un gruppo di fascisti di Casa Pound perché filmava la loro festa per strada, il presidente del Senato nonché seconda carica dello Stato nonché nostalgico idiota cincischia furbamente, ritiene lui, e fa il solito giochino dei distinguo per avere le pagine dei giornali. «Sulla vicenda di questi giorni, ho una posizione di assoluta e totale condanna», assicura con tono deciso, «Però…». «Però credo che il giornalista non passasse per caso. Non è una sua colpa, però (di nuovo, ndr) sarebbe stato più bello se avesse detto “ero lì che volevo riprendere quella riunione”». Ovviamente non ha alcun significato quel che distingue. «Non vorrei che entrasse troppo nell’uso quotidiano l’inserimento di metodologie che creano poi reazioni che non vogliamo che mai avvengano». In linea con Meloni che all’inchiesta di Fanpage.it dice che non bisogna infiltrarsi.

È qui che voglio riportare il breve editoriale di Andrea Malaguti, direttore de La Stampa, sul giornale di oggi:

Se questa è la seconda carica dello Stato
Confesso che Ignazio La Russa mi mette a disagio. Un limite mio. È un maschio del Novecento che non riesce a uscire dalla grottesca armatura di pece in cui è rimasto imprigionato da bambino. Gli piace fare il bullo. Ha cristallizzato il senso di sé ai milanesi anni Settanta di piazza San Babila. Se non fosse il presidente del Senato derubricherei la cosa a “problema personale”. Invece La Russa è la seconda carica dello Stato. Regala la sua solidarietà pelosa al nostro Andrea Joly per le botte ricevute fingendo sdegno, liquida La Stampa col solito sarcasmo da capocomico e aggiunge: «Non credo che passasse da lì per caso, trovo che sarebbe stato meglio che avesse dichiarato di essere un giornalista». Mi sfugge, presidente: per farsi menare di più o di meno? C’erano cento fascisti in mezzo alla strada a mezzanotte che cantavano a squarciagola canzoncine mussoliniane riempiendo l’aria di fumogeni. Cercavano privacy? Al numero due dello Stato non la si fa, lui lo ha capito che Joly voleva fare il furbetto e che i picchiatori di CasaPound gli hanno dato una memorabile lezione. Che pena. Come avrebbe detto il mio professore di filosofia del liceo: siamo al di sotto del limite morale inferiore.

Già, che pena.