Era da tempo che aveva chiuso con la boxe, anche se da molto meno dei suoi coetanei. Dopo la comprensibile depressione a seguito della sconfitta nel rumble in the jungle, George Foreman aveva faticato parecchio a rialzarsi; come spesso accade in questi casi, vide la luce e divenne un ministro ordinato, minacciando di cazzotti i peccatori e il diavolo, immagino. Ma era sul ring che stava nel suo posto e così riprese, tredici anni dopo la batosta, si rimise in pista e, ci mise sette anni, riuscì a ridiventare campione del mondo mettendo insieme i titoli del mondo WBA, IBF e lineare, concetto quest’ultimo abbastanza informale che intende quando si sconfigge il re riconosciuto della foresta. Già è complicato in condizioni normali, farlo a quarantacinque anni come lo fece Foreman ha dell’eccezionale. In fin dei conti, il pugno da fabbro ferraio, secondo forse solo a Sonny Liston, seppur invecchiato ce l’aveva ancora, quello con cui, tra ganci e montanti senza sosta, spinti dai suoi centodieci chili per poco meno di due metri, abbatteva anche quelli più grossi, Frazier e Norton. Alì no, il rumble appunto, era per intelligenza tattica troppo lontano dalla sua portata ma in quanto a forza e furia non c’era paragone. Fece la cazzata, senza rendersene conto veramente, di sventolare una bandierina americana sul podio delle olimpiadi 1968, aveva pur vinto l’oro, a pochi metri di distanza da Tommie Smith e John Carlos col pugno nero alzato e divenne, suo malgrado, il simbolo del nero addomesticato all’America bianca e al potere, lo chiamarono ‘Zio Tom’ e non vi è dubbio che ne soffrì moltissimo.
Cadde molte volte, quindi, e altrettante più una si rialzò, segno di grande intelligenza, comunque. Smessa la boxe, non avendo parlantina e tempi per lo show business come altri, si rilanciò come imprenditore, dando la sua immagine a una serie di piastre da grill multiuso di grande successo, mollando manrovesci, evidentemente, alla carne in cottura e al grasso che cola.

Dopo la sconfitta contro Alì e un paio d’anni in giro sbandando tra avventure, club di seconda segata, macchine lussuose e animali esotici, tornò al pugilato e incontrò Ron Lyle, un altro fabbro ferraio che faceva della devastazione senza sosta la sua cifra stilistica nel pugilato. Ne uscì un incontro tra due ruspe dedite alle sportellate, una quantità notevole di cadute a terra, dritti e rovesci in un senso e nell’altro, tumefazioni indelebili. Per chi abbia voglia di cartoni, cartoni rullati, il match è qui. Si ritirò poi per tornare, come dicevo, alla fine degli anni Ottanta, curiosamente nello stesso momento in cui tornò anche Sugar Ray Leonard, molto più affascinante sotto ogni punto di vista: «Per Leonard è solo una questione di soldi, una “botta e via”. Anche per me il denaro ha una sua importanza, ma secondaria. Io voglio tornare ad essere campione. Ho un piano per i prossimi 3 anni: ricominciare dal fondo, allenarmi più di chiunque altro, combattere una volta al mese. Non si può avere tutto e subito», disse Foreman. Se questo non è un uomo saggio, allora non so chi lo sia. E così fece, ce ne mise sette invece che tre ma fece tutto per bene.
Ecco, ieri George Foreman se n’è andato, dopo alcune tristi vicende familiari e aver reso affettuoso onore ad Alì alla sua scomparsa: aveva fatto pace con lui e, soprattutto, con sé stesso, era caduto, era tornato, aveva perso e poi vinto, aveva imparato a fare le cose al proprio ritmo, a trovare la propria misura per fare bene, anche se ciò non suscita gli entusiasmi del pubblico e non fa diventare famosi, aveva imparato ad ammettere le sconfitte, le sciocchezze, a essere una persona degna e consapevole, anche se la propria collocazione è tra le piastre da grill. Mica poco, tutto questo, e non facile da gestire: comodo essere talentuosi e belli, il difficile è farlo da ringhiosi e impacciati. Lui lo fece ed è un bell’esempio per questo.

Provò anche a essere figo quando era obbligatorio esserlo e, tutto sommato, non andò male nemmeno lì. Anche se in questo Joe Frazier fu davvero imbattibile, ce n’era sempre uno meglio. Fino al titolo del 1987, da vecchietto. Ben fatto.

E, per essere certo, lascia i figli George, George, George, George, George, Georgette, Georgette e altri cinque con altri nomi.