Non so bene come, finisco a Borjomi, rinomata località per le acque termali ma, soprattutto, per la sua acqua curativa. Chi sono io per non berne il giusto quantitativo? Nel parco termale nella cittadina di montagna, il primo luogo di villeggiatura della Russia zarista, gran sanatori sovietici e ville per la nomenklatura, due giovani donne dentro una sorgente incavata offrono bicchieri di acqua calda, trentacinque gradi, solforosa, da bicchierini e brocche che vengono fatti girare. Se non mi piglio una dissenteria fulminante stavolta, come minimo piglierò il colera, lo sento. Ma le viscere saranno senz’altro in gran forma, rosee.
Più giù, nel castello di Akhaltsikhe, la statua di Charles Aznavour, figlio di un locale, è decisamente la celebrità del luogo. Questa regione, il Samtskhe–Javakheti, è decisamente una delle zone più belle io abbia visto finora da queste parti, rigogliosa, abitata fin dalla preistoria, idilliaca.

Seguo il fiume Kura tra anse e colline fino al monastero rupestre di Vardzia, a una ventina di chilometri dal confine turco, al centro di un’intera città scavata nella roccia, in alto così da non temere assalto. Dell’epoca del grande re Tamar – era una donna ma fu talmente grande che qui la chiamano ‘re’, per distinguerla dalla consorte -, rispecchia un periodo di grande espansione e ricchezza per la Georgia, il dodicesimo secolo. Gli affreschi della chiesa, una delle quindici, sono magnifici, il re è rappresentata ed è l’unico caso, se ben capisco.


Inebriato dai colori e dall’ambiente, riprendo la strada tornando indietro, non posso e non voglio, stavolta, andare in Turchia, mi sono assicurato un passaggio in corriera fino al confine, l’altro, tra Zhdanovi e Bavra. Mi ritrovo, non previsto, su un lungo altopiano a oltre duemila metri di grande bellezza, è chiamato la Siberia georgiana, a me piace ricorda un po’ la Mongolia. Qualche casa di legno qua e là, qualche mucca brada, elettrificazione socialista, cieli azzurri. Altro paesaggio magnifico.

La corriera fa una sosta a Gorelovka in mezzo a un gruppo di case di campagna russe del periodo zarista, è una comunità – mi spiegano – di russi cattolici finiti qui per mantenere la comunità, poi non è che capisca proprio tutto, loro non parlano inglese, io non parlo georgiano o russo, però che gran sorrisi. Un gruppo di ragazzini in bicicletta accorre per vedere lo straniero, sembrano quelli di stranger things all’inizio, hanno maglie da calcio, mi dicono i loro nomi e poi gigiodonnarumma, spassosi, me la rido anche con loro, non posso non riportarli qui.

Dopo poco, il confine, l’ennesimo da passare a piedi. E passarlo è un atto di volontà, una scelta propria, perché a parte i due edifici con le guardie attorno corrono prati per decine di chilometri senza alcuna recinzione o limite. La soldatessa alla guardiola mi fa la faccia scura e mi chiede se io sia stato in Azerbaijan, sì, e subito mi chiede secca: perché? Eheh, già, si odiano. Turismo, perché diavolo vuoi che uno con uno zaino come me vada in giro? Cincischia e poi mi fa entrare, sono in Armenia.
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