minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: nove, la Siberia georgiana

Non so bene come, finisco a Borjomi, rinomata località per le acque termali ma, soprattutto, per la sua acqua curativa. Chi sono io per non berne il giusto quantitativo? Nel parco termale nella cittadina di montagna, il primo luogo di villeggiatura della Russia zarista, gran sanatori sovietici e ville per la nomenklatura, due giovani donne dentro una sorgente incavata offrono bicchieri di acqua calda, trentacinque gradi, solforosa, da bicchierini e brocche che vengono fatti girare. Se non mi piglio una dissenteria fulminante stavolta, come minimo piglierò il colera, lo sento. Ma le viscere saranno senz’altro in gran forma, rosee.

Più giù, nel castello di Akhaltsikhe, la statua di Charles Aznavour, figlio di un locale, è decisamente la celebrità del luogo. Questa regione, il Samtskhe–Javakheti, è decisamente una delle zone più belle io abbia visto finora da queste parti, rigogliosa, abitata fin dalla preistoria, idilliaca.

Seguo il fiume Kura tra anse e colline fino al monastero rupestre di Vardzia, a una ventina di chilometri dal confine turco, al centro di un’intera città scavata nella roccia, in alto così da non temere assalto. Dell’epoca del grande re Tamar – era una donna ma fu talmente grande che qui la chiamano ‘re’, per distinguerla dalla consorte -, rispecchia un periodo di grande espansione e ricchezza per la Georgia, il dodicesimo secolo. Gli affreschi della chiesa, una delle quindici, sono magnifici, il re è rappresentata ed è l’unico caso, se ben capisco.

Inebriato dai colori e dall’ambiente, riprendo la strada tornando indietro, non posso e non voglio, stavolta, andare in Turchia, mi sono assicurato un passaggio in corriera fino al confine, l’altro, tra Zhdanovi e Bavra. Mi ritrovo, non previsto, su un lungo altopiano a oltre duemila metri di grande bellezza, è chiamato la Siberia georgiana, a me piace ricorda un po’ la Mongolia. Qualche casa di legno qua e là, qualche mucca brada, elettrificazione socialista, cieli azzurri. Altro paesaggio magnifico.

La corriera fa una sosta a Gorelovka in mezzo a un gruppo di case di campagna russe del periodo zarista, è una comunità – mi spiegano – di russi cattolici finiti qui per mantenere la comunità, poi non è che capisca proprio tutto, loro non parlano inglese, io non parlo georgiano o russo, però che gran sorrisi. Un gruppo di ragazzini in bicicletta accorre per vedere lo straniero, sembrano quelli di stranger things all’inizio, hanno maglie da calcio, mi dicono i loro nomi e poi gigiodonnarumma, spassosi, me la rido anche con loro, non posso non riportarli qui.

Dopo poco, il confine, l’ennesimo da passare a piedi. E passarlo è un atto di volontà, una scelta propria, perché a parte i due edifici con le guardie attorno corrono prati per decine di chilometri senza alcuna recinzione o limite. La soldatessa alla guardiola mi fa la faccia scura e mi chiede se io sia stato in Azerbaijan, sì, e subito mi chiede secca: perché? Eheh, già, si odiano. Turismo, perché diavolo vuoi che uno con uno zaino come me vada in giro? Cincischia e poi mi fa entrare, sono in Armenia.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: otto, fare la regista

‘Dede’, dedè, è il titolo di un film georgiano del 2017 ambientato nel Grande Caucaso e, più precisamente, l’unico girato in lingua svaneti. La regista, Mariam Khatchvani, è nata proprio nel villaggio di Ushguli, di cui raccontavo ieri, e con il suo film ha vinto molti premi in giro per il mondo, tra cui se non ricordo male una menzione a Cannes. Un critico, con un’espressione che è poi stata ripresa anche per la promozione del film, l’ha definito “un melodramma georgiano in cui il femminismo incontra il fatalismo”, anvedi. Nel centro di Mestia, mentre me ne vado a zonzo, finisco al cinema Dede che proietta cinque volte al giorno sempre e solo il film da cui trae la propria ragion d’essere, accompagnandolo con qualcosa da bere, eventualmente.

È il Sacher del villaggio e immagino che l’idea e i mezzi siano della regista Mariam Khatchvani. Me la immagino nel suo villaggio di venti case torri e inaccessibile per sei mesi all’anno per neve, alle pendici del Grande Caucaso, scoprire alla fine degli anni Ottanta innanzitutto l’esistenza del cinema, come arte e attività, poi non so come vedere qualche film e, infine, comunicare ai genitori di voler diventare una regista e di voler scendere dalla valle. La cosa, tutta insieme, ha a dir poco dell’eroico, vista da qui.

Scendo costeggiando il fiume Enguri, passando sotto le due cime a picco dell’Ushba, il Cervino del Caucaso, oltre quattromilaesette, e vado verso la Mingrelia, la regione storica della Georgia sul mar Nero, sotto l’Abkhazia, ovvero per gran parte la storica Colchide, quella di Medea. Poco dopo Poti, guado il fiume Rioni e sono un poco emozionato: era noto come fiume Fasis, Phasis, nell’antica Grecia, quando veniva considerato come il confine geografico tra Europa e Asia e uno dei limiti del mondo abitato insieme alle colonne d’Ercole. Ovvio, per loro la parte commerciabile finiva lì. Il fiume è quello degli argonauti, lo seguirono fino all’estuario, alla colonia greca omonima, dove presero il vello.

Il mar Nero che ricordo è quello rumeno, grigione e indistinto, bordato dalla Rimini costruita dagli italiani a Costanza, povero Ovidio. Qui non è molto differente, leggermente più blu, le petroliere uguali e il termine della ferrovia da Baku che porta il petrolio a Batumi, la Dubai georgiana per le gioie del mare, del gioco d’azzardo e dei massaggi thailandesi.

Perché sono qui? Per nessuno dei tre motivi qui sopra, evidentemente. Se proseguissi lungo la costa per alcuni chilometri, pochi, sarei in Turchia e proseguendo ancora arriverei a Trebisonda dove, ovviamente, la dovrei perdere. Sono ingolosito, l’idea mi piacerebbe ma romperebbe il senso della mia transcaucasica, pur avendo senso da molti punti di vista, storico per primo. Alla fine, Batumi non è nemmeno così male, la città vecchia ancora esiste e i boschi attorno fanno bella cornice. Nonostante sia agosto sembra Rimini a novembre, incontro un francese alsaziano in trekking in Georgia, ci offriamo qualche birra vicendevole e mi mostra come il suo ministero degli esteri gli sconsigli con rosso acceso l’Azerbaijan, pericolo di rapine e sequestri. Addirittura. Gli dico che io pericoli non ne ho visti e a me Tajani non ha detto nulla, poi mi sento mentre parlo e mi viene da ridere. Tajani, che strano suono così lontano…

Adesso mi muovo verso est, verso Akhaltsikhe, per poi scendere a sud, verso la terza tappa del mio viaggio. Ma ci sono ancora posti da vedere in mezzo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: sette, un sacco

Un uomo senza forze, un sacco vuoto. Cinque uomini attorno a lui, amici, fratelli, lo tirano e lo girano, lo sollevano e lo depongono, poi gli schiacciano il torace con colpi violenti e mal dati, una mano in bocca, il più robusto lo stringe a sé schiacciandogli lo stomaco con forza. Un pupazzo di pezza, una marionetta dalle gambe storte. A fianco a me un uomo grosso piange emettendo grida straziate, le donne guardano con le mani sulla bocca da dietro gli angoli delle case. L’uomo, il sacco, ha il volto, la pancia e le caviglie bianche, senza alcuna possibilità che dentro ci scorra qualcosa. I cinque non si rassegnano, lo rivoltano e lo tirano con fretta, sempre più fretta perché il tempo passa, uno soffia aria dentro la bocca dell’uomo. Molti attorno, anche io, scuotono la testa. I cinque non si fermano, sudano e bofonchiano, non si fermano perché è il loro compito, oggi, e non bisogna dare l’impressione di essersi fermati prima di quanto è dovuto, l’uomo grosso piange silenzioso, ora, la sua manifestazione pubblica è compiuta e una donna nera corre via piangendo, segnando la fine.

Oggi nel villaggio di Ushguli è morto un uomo. Poteva essere vecchio o no, impossibile dirlo, qui a oltre duemila metri si invecchia in fretta, chissà se gli altri erano moglie, figlia, fratelli o figli, chissà. Un colpo secco, tutto era vuoto, tutto era senza vita né sostanza. Attorno, alcuni del villaggio, parenti, amici, vicini, turisti come me, due cani randagi e un maiale nero. Tutti in silenzio, poche parole della donna nera che spiega ad altri, attorno, ma bastano due parole, un gesto della testa, nessuno si muove, se non lentamente, non ricordo suoni, dopo.

Il villaggio di Ushguli è in posizione eccezionale, è il luogo abitato in permanenza più alto in Europa, ben sopra i duemilaedue, ai piedi del massiccio dello Shkhara, più di cinquemila metri in fondo a una valle verdissima. Le case sono qualche decina, molte anche qui hanno le torri, non poche possono ospitare, sia i turisti che i camminatori che gli alpinisti. Al centro, una chiesetta del dodicesimo secolo, commovente, segna un punto tra il sotto e il sopra.

Alcune delle cime più alte del Grande Caucaso sono qui, tutte ben sopra i cinquemila, accompagnate da numerose sopra i quattromilaecinque, che è un po’ la soglia psicologica di noi italiani, per cui oltre il monte Bianco non c’è nulla di più alto nei paraggi. Invece più in là, oltre questo confine, c’è l’Elbrus, enorme nei suoi cinquemilaesei e rotti. Ogni anno uno o due ci restano secchi su queste cime, forse pensando che rispetto a un ottomila la cosa sia molto più facile.

Qui molto vicino c’è l’Ossezia del sud, oggetto della guerra con la Russia del 2008. L’altra parte dell’Ossezia è di là, in Russia, i georgiani ritengono l’Ossezia una e la rivendicano come proprio territorio, gli osseti invece sono separatisti e vorrebbero l’annessione alla Russia. Pochi paesi riconoscono l’Ossezia formalmente. Di fatto, se capita di passarci poi non è più possibile andare da nessuna parte, se non in Russia, si viene respinti alle frontiere. Se si desidera molto molto visitarla, allora si devono corrompere i doganieri in modo che non timbrino il passaporto. Se non ricordo male, e vado a memoria, Erika Fatland nel suo La frontiera racconta di come talvolta, durante la notte, il confine russo avanzi nell’Ossezia del sud di diverse centinaia di metri, creando non poche complicazioni. Noto è il caso dell’agricoltore finito con la casa e i campi di fatto in Russia e i cui figli sono dotati di permesso speciale per fargli visita una volta ogni tot, varcando il confine.

Scendo ripensando alla morte dell’uomo. C’è una parte di me scossa da quei movimenti del corpo, strattonato, alzato e lasciato; d’altra parte rifletto su come abbia visto un quadro popolare di grande potenza, come avessi assistito al processo del mugnaio di Ginzburg, una scena eterna di vita e morte, in cui i vivi, individui e gruppi, affrontano il tempo e i passaggi. In definitiva, ho visto una comunità stringersi attorno a un proprio membro, tirandolo per i capelli lontano dalla voragine inevitabile, affrontando con lui il trapasso e con i suoi i momenti successivi – e quante volte nei secoli si sarà ripetuto -, ho visto un villaggio pulsare all’unisono in modo così umanamente profondo da farmi pensare che, tutto sommato, ho assistito a una scena forte, tragica e positiva. E se dovessi pensare a me, preferirei questo al nostro modo, tra macchinari, estranei e così poca compassione.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: sei, salita

A Kutaisi stasera si celebra l’anniversario della guerra del 2008 con la Russia, proiettando un film in piazza che racconta quei giorni da parte georgiana.

Come è normale nel genere, che sia film o romanzo o canzone, muoiono tutti. La scena del carro col cadavere, seppur in georgiano senza sottotitoli e piuttosto lenta, è straziante. La città è, tra quelle che ho visto, la migliore per integrazione tra architettura zarista e sovietica, l’aspetto è quasi mitteleuropeo, meriterebbe un giorno in più. Ma io devo andare a nord, più in alto, e qualcuno lo sa e manda gran pioggia. Bello. Più scomodo ma bello, salgo tra le gole boscose per visitare alcuni monasteri isolati su cucuzzoli a strapiombo su fiumi impetuosi.

È proprio a Kutaisi che lo scellerato presidente Saak’ashvili fece costruire un nuovo parlamento per decentrare il potere da Tbilisi, con un esborso economico e politico del tutto insensato. Sfigato, pure, perché all’inizio dei lavori, quando fecero platealmente saltare con l’esplosivo un monumento sovietico ai caduti della seconda guerra mondiale, un grosso pezzo di cemento colpì una giovane donna con la figlia. Più sfortunate ancora. Dopo complesse vicende, Mikheil Saak’ashvili è ora in carcere, privato della cittadinanza e dei diritti civili, mentre il governo del paese è in mano a un delirio chiamato “Sogno georgiano”, un partito dall’impronta simile ai cinquestelle in mano a un ricchissimo imprenditore che, come Grillo o Casaleggio, governa dalle seconde file.

Finisco per mangiare a casa di una famiglia che in un posto incantevole vicino al fiume ha messo alcuni tavoli sotto le frasche e il cibo, come sempre finora, è molto buono: certe focacce al formaggio e alla carne tipiche georgiane, involtini di melanzane, polpette di patate, fagioli, misto di verdure cotte. Se non è il mio pasto ideale poco ci manca. Anche qui, innumerevoli brindisi, tutti ispirati, se si avverasse anche solo un quinto delle invocazioni, vivrei in eterno, felice e rispettato. Non esagero, almeno quindici brindisi, piuttosto gridati, alzando vino rosso georgiano che mi farà desiderare un letto a breve. Ma no, devo sfiorare l’Ossezia del sud e devo salire lungo il corso del fiume Enguri, fino alla valle di Mestia, sotto certe cime da cinquemila metri che fanno da confine con la Russia.

La strada sovietica è tutta una curva e dipende dal lato in cui si è seduti in corriera per vedere il fiume schiumante in fondo allo strapiombo o la parete rocciosa venire un po’ troppo incontro. Non ci sono rottami cadaveri di mezzi in fondovalle come in Uzbekistan o in Tajikistan ma non dubito che ogni tanto qualcuno vada giù. Dopo alcune ore e pause in luoghi improbabili, arriviamo nel centro dello Svaneti o, meglio, dello Zemo Svaneti, l’alto Svaneti, la regione più a nord del Grande Caucaso, confinante con l’Abkhazia, altra repubblica separatista. Mestia e i villaggi della valle, con le tipiche case a torre, sono – ancora – incantevoli, l’aria è fresca, finalmente dopo giorni torridi, e le nuvole corrono.

Non vedo l’ora di fare qualche camminata.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: cinque, quello d’acciaio

La notizia è importante: questa sera il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev e il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan hanno finalmente firmato un accordo di pace. Dopo che negli ultimi decenni si erano combattute due guerre e centomila persone di etnia armena erano fuggite dall’Azerbaijan dopo l’attacco militare azerbaigiano alla regione separatista del Nagorno-Karabakh, ora hanno firmato. La ragione del contendere, una delle, è l’exclave azerbaigiana in territorio armeno, la Repubblica autonoma di Nakhchivan: finora per raggiungerla gli azerbaigiani dovevano fare il giro e passare per Iran o Turchia, ora invece l’accordo prevede la costituzione di un corridoio in territorio armeno. La cosa ridicola è che si chiamerà, pare, “Trump Route for International Peace and Prosperity”, TRIPP. Molto bene, forse è una fase di distensione, raccolgo la frustrazione di alcuni per decenni di negoziati dell’UE e russi finiti ora in un successo americano.

Ora vorrei vedere la Georgia occidentale, verso il mar Nero, e a nord, verso le montagne del Grande Caucaso. Si tratta di concatenare una serie di passaggi, di tappa in tappa. La prima è un luogo incantevole, la città di Mtskheta, alla confluenza dei fiumi Mt’k’vari e Aragvi. Per ricordarmela, la chiamo Miss Keta. Su un picco sopra la città e la confluenza il monastero di Jvari del VI secolo domina le tre valli e la fantasia corre a carovane, merci, eserciti e viaggiatori. In città non è da meno la Cattedrale di Svetitskhoveli dell’XI secolo, slanciata e ricca, custodisce la tunica di Cristo, certamente.

Un pope si vuole fare una foto con me, la facciamo, mi sorride e scuote la mano vigorosamente, tutti qui mostrano un lato amichevole, tranne quelli che guardano di traverso gli stranieri. Questo è caloroso e simpatico, come lo è il cristone sull’abside della cattedrale, enorme e paterno e umano. Forse lo sguardo non è proprio vispo, il pittore cercava di riprodurre una visione ultraterrena, volta all’infinito, ne viene una un po’ ciulina.

Indeciso se andare a visitare la città rupestre di Uplistsikhe, vengo convinto dalla signora che fa il caffè, fa facce da belizimo belizimo che non posso non andare. E in effetti è vero, oserei dire dei tratti in comune con Petra, in Giordania, e con almeno sei secoli in più e una posizione spettacolare sulla valle sul fiume.

Ma il pezzo forte di oggi è Gori e per gli appassionati vuol dire una cosa sola: Iosif Vissarionovič Džugašvili ai più noto come Stalin. E qui c’è il Museo di Stalin, ovvio che vado, che me lo perdo? Il museo fu iniziato a Stalin vivo, il che la dice lunga, e nonostante gli appelli ai compagni – ma no, non sum dignus – quelli insistettero. L’edificio antista la casa natale che è stata incapsulata a mo’ di Porziuncola del capo ed è, come dire?, piuttosto encomiastico, solo parole buone. La guida è più oggettiva e spiega anche la vicenda del testamento di Lenin senza tralasciare i fatti più evidenti, il resto sono foto, copie di documenti, qualche quadro, mappa, la maschera di morte e l’ufficio arredato tra 1919 e 1922, cor telefono de Stalin, ‘a penna de Stalin, ‘a seddia sempre de lui. Notevole, come a Pechino e nei paesi socialisti, la sezione con i regali ufficiali ricevuti da delegazioni estere, noi un bel set di pipe per il settantesimo che impallidisce davanti alla lampada da tavolo falce-e-martello in alluminio regalo dei polacchi buongustai. Sto un po’ nel vagone con cui andò alle conferenze di Teheran e di Yalta, che momenti.

Quasi più divertente fuori, in vendita il kit per diventare Stalin con pipa, bicchiere e fiaschetta per la vodka, e non solo, tutta l’attrezzatura per essere davvero come lui.

Man mano che gli eventi si succedevano, la statua di Stalin davanti al municipio fu rimossa, poi rimessa, poi si appose una targa al museo per avvisare della poca oggettività dell’esposizione, poi la si tolse, poi si propose di chiudere il museo e poi no, che di concittadini così noti non ce n’erano molti. Bene o male, nonostante tutto, per un paese piccolo come la Georgia avere avuto in mano le sorti dell’URSS è evidentemente motivo di orgoglio anche attuale.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: quattro, incontri

Qualche giorno fa, mentre camminavo tra i petroglifi del Gobustan pensando a pitoti, deserto e fuochi notturni, ho colto una voce vagamente familiare, ma più familiari erano gli argomenti – lamentele sul caldo -, e ho visto M., che avevo conosciuta, vedi il caso?, in Patagonia. Ci siamo abbracciati, entrambi stupefatti da tanta coincidenza casuale, stessa ora stesso giorno per venire qui, da non credere. Ci siamo poi salutati, contenti dell’incontro, ottimisti su questo piccolo mondo in cui è possibile rivedersi ai capi di esso e scambiarsi parole gentili. Vedi gli incontri?

Ora sono seduto a un tavolo di Fabrika, luogo industriale recuperato di Tbilisi, con F., esperto della regione e a lungo membro di una missione UE per il monitoraggio dei conflitti in Georgia; con M., armeno docente universitario in Georgia, memoria storica della città e ghost writer di Shevardnadze; con R., polistrumentista e compositore di musica ambient, in viaggio. M. sta facendo uno dei lunghissimi brindisi per cui i georgiani vanno fieri e tutti gli altri appoggiano il bicchiere sconsolati, che devono partire necessariamente con un’invocazione di pace e proseguire con una storia del passato che abbia però una ripercussione sul presente o sul futuro, apprezzo molto nonostante la sete. Si mescolano russo, inglese, pezzi di italiano, qualche termine georgiano e armeno, non sempre ricerco questo tipo di incontri, spesso li rifuggo perché esibizioni di ego tracimanti, oggi no, oggi è stato bello e per questo lo racconto. Girare con loro tutto il giorno per Tbilisi, soprattutto nella parte più frequentata dagli abitanti più che nelle parti turistiche e mondane, è stato particolarmente interessante. Sebbene M. si dichiari ateo di impostazione sovietica, e io un po’ mi accodi, abbiamo visitato decine di luoghi religiosi di ogni tipo di confessione, dalle chiese ortodosse russe a quelle georgiane, alla cattolica di rito armeno, alla sinagoga, alla moschea, manifestazione evidente di una certa tolleranza e libertà. Nella chiesa cattolica romana conosciamo il prete, polacco, e il suo collaboratore pastorale, giovane napoletano che, vedi la vita?, ha lasciato un lavoro in una multinazionale a Torino per venire qui ad assistere le attività della chiesa locale. La Chiesa cattolica armena li tratta con sospetto ostile, ci dice, mal tollerando la potenza del Vaticano. L., altro incontro del giorno, nel brindisi che gli spettava e nella prima parte, l’invocazione alla pace, ha detto: “Che ci sia pace in Italia e in Georgia perché se non ci fosse né io né voi potremmo essere qui e non ci saremmo incontrati”. Il che è a dir poco giusto.

Per parlare degli incontri, non ho menzionato il passaggio della frontiera: a Lagodekhi dopo un doppio controllo azerbaigiano e un lungo corridoio di circa ottocento metri di terra di nessuno, si entra in Georgia. Le mie solite foto di sfroso che prima o poi mi deporteranno.

La differenza salta agli occhi, sia per le condizioni materiali dei due popoli, derelitti gli azerbaigiani perché ricchi di petrolio e gas in ben pochi, più ordinati e mediamente nutriti i georgiani, le strutture rispecchiano le differenze, il paesaggio anche, di qua sono tutte viti e le colline sono verdi di boschi, sono cambiate latitudine e altitudine. E la grafia, oltre alla lingua. Passo da Sighnaghi, detta città dell’amore perché ci si può sposare in venti minuti – e divorziare in trenta -, e scendo a Tbilisi, capitale e concentrazione di metà della popolazione georgiana. Un primo giro notturno nella zona della movida mi dice che la città è in parte un resort per arabi e mediorientali che vengono qui a fare ciò che non possono fare a casa propria. Per fortuna la giornata di domani, da cui ho iniziato oggi il racconto degli incontri, renderà giustizia a questa città interessante, Tbilisi, costruita sull’ansa di un fiume placido e in una gola controllata da due fortezze, una delle vie della seta.

Georgiana, proprio come chiamiamo le loro case nell’est e nord Europa, classicista monumentale e liberty nel periodo zarista, brutalista e modernista nel periodo sovietico di cui permane l’odonomastica, quando non immensa distesa di case basse con balcone di ispirazione persiana, sventrata dai palazzinari attuali senza garbo né tempo né gusto. I reperti fin dal terzo millennio al museo nazionale, gioielli, statue, monili, amuleti, attrezzi sono straordinari, per fattura, ricchezza e numero, buffa la sezione sull’occupazione sovietica, essendo l’URSS, almeno il primo periodo, a completa trazione georgiana, Stalin e Berija per dirne due, i primi due. La statua di Lenin è stata sostituita da quella tutta dorata di san Giorgio che infilza il drago, l’avvenire è ormai un altro.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: tre, ricordati che potresti scivolare

Uno dei maggiori pregi delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi socialisti in generale sono le corriere che, di solito, percorrono i paesi in lungo e in largo. E le loro fermate, varie e solitamente bellissime. Entrambe fanno al caso mio, visto che mi voglio muovere verso nord-ovest, verso la Georgia. Andando verso Şamaxı il paesaggio muta e da desertico si fa campestre e boscoso, i torrenti sono numerosi, compaiono le mucche in mezzo alla strada e i baracchini di frutta a lato della strada. Mangio fichi e melone al mercato, senza sapere mai quando mi sarà fatale e, siccome finora non lo è, proseguo e mangio anche pezzi di baklava con il tè nei peggiori baretti del paese. Che, spesso, sono invece cordiali ritrovi di giocatori di backgammon al riparo di un fico. Com’è prevedibile, uscendo da Baku, il tenore di vita scende radicalmente e tutte le auto diventano Lada o, al massimo, Zigulì, più rare.

Un’altra cosa da mangiare con l’immancabile tè sono le ciliegie bianche immerse nello sciroppo di zucchero o, ancora, la parte bianca dell’anguria macerata nello stesso sciroppo, davvero buona. Che, mi pare, per aprire un bar in Caucaso basti avere una pianta, delle sedie, tavoli e fare del tè. Come i bianchini da noi, monoscelta. Da destra, cioè da nord, incombono le montagne e ogni tanto attraversiamo ampi letti asciutti di ruscelli che allo scioglimento delle nevi diventano di sicuro fiumoni. Il faccione del presidente fa capolino dai cartelloni ogni pochi chilometri, non ha un’aria furba.

La cosa più squadernata sentita finora è questa: un antropologo norvegese, grazie a dio discusso, ha sostenuto a suon di studi accademici la discendenza dei popoli scandinavi dalle popolazioni azerbaigiane di queste zone, documentando la somiglianza delle imbarcazioni e non so quali altri tratti. Se così è, allora gli scandinavi antichi sono andati via proprio tutti, noto, qua son rimasti gli scuri e bassetti. Io e la persona che mi porta in giro oggi ce la ridiamo perché il suo nome, Gulnar, sembra proprio quello di un norvegese vichingo. E invece, magnifico, significa “fiore di melograno”, la pianta simbolo del paese, davvero non male. Altro che norvegesi.

Andando ancora verso nord-ovest, scopro l’esistenza dell’Albania caucasica, niente a che vedere con la destinazione preferita dagli italiani, è bensì una regione storica tra l’attuale Daghestan e Azerbaijan, un tempo tributaria dell’impero romano e poi dei sassanidi. A Nij, un villaggio, incontro alcuni Udì, popolazione erede degli Albani del Caucaso, i quali come i loro avi sono cristiani, parlano una lingua loro e scrivono a loro modo, come già raccontava Erodoto. Mi offrono un tè sotto una pianta di kiwi, con l’immancabile bozzo di zucchero e noci da tenere in bocca mentre entra il tè. Poi mi mostrano la loro chiesa, ortodossa e antica, nell’abside di recente qualcuno ha dipinto un Cristo della Marvel davvero irresistibile ma niente, io rimango più affascinato dagli impianti del gas che nei paesi socialisti sono particolarmente sconclusionati. Ho sempre il sospetto non avessero tutte le tipologie di tubo.

A Şəki, la mia destinazione di oggi, vedo il palazzo reale, magnifico, della dinastia dei Khan di Şəki, un armonioso e sobrio nonché splendido palazzo parallelepipedo né grande né piccolo in cui tutto è fatto nella maniera giusta.

Naturalmente io non so perché i Khan nel palazzo siano tutti rappresentati in piedi sopra dei grossi pesci, dico cose a caso, mi spiegano perché sono scivolosi e chiunque, soprattutto un Khan, deve sapere che è un attimo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: due, cose che escono dalla terra

Fuori da Baku è il deserto, sulla costa impianti di costruzione e manutenzione delle piattaforme petrolifere ed estrattive e delle petroliere, all’interno alcune montagne tozze e piccoli pozzi petroliferi come quelli americani della prima Standard Oil, di legno a torre o quelli a forma di martello, in movimento continuo, piccoli e diffusi. Il venti per cento del gas comprato all’estero dall’Italia, mi dicono, viene da qui, con il gasdotto che arriva in Puglia. E le relazioni tra i due paesi si sono intensificate negli ultimi anni con reciproco vantaggio, in particolare per l’Azerbaijan per spezzare il collegamento stretto tra l’Europa e gli armeni, in nome di una comune appartenenza cristiana. Alla presenza forte degli armeni in Italia su stampa e letteratura, grazie per esempio ad Aslan, l’Azerbaijan ha replicato per esempio restaurando le catacombe in Vaticano, inserendosi quindi nel sistema di relazioni. Ogni spiegazione geopolitica che ricevo qui implica conoscenze della situazione caucasica che non possiedo affatto. La ricerca di questo tipo di rapporti, da quanto capisco, ha causato un peggioramento delle relazioni tra Azerbaijan e la Russia, a Baku si discute se chiudere le scuole pubbliche russe, lasciando solo quelle private. L’incidente in cui i ceceni hanno abbattuto l’aereo azero nel dicembre scorso rientrerebbe in questo tipo di contesto, sarebbe un avvertimento russo.

Viaggio un po’ nel deserto per raggiungere Gobustan, una località in cui vi sono numerose incisioni rupestri molto simili ai pitoti camuni. Per più di dodicimila anni popolazioni locali lasciarono le loro tracce su queste montagne, sfruttando il mare per lunghi periodi molto più alto e rifugiandosi alla bisogna. Le rappresentazioni terminano in coincidenza con l’arrivo degli arabi, nel settimo-ottavo secolo, vista la loro insofferenza all’iconografia. Buoi, barche, donne incinte, donne incinte con attrezzi, serpenti, carri, uomini, omini, cammelli, carovane, le storie si susseguono sulle rocce. Più in basso su una roccia nella pianura si trova un’iscrizione in latino, della dodicesima Legio Fulminata, evidentemente a zonzo per questi deserti, ed è la testimonianza più a oriente che possediamo del mondo romano. Non tanto distante, una zona di vulcani di fango, la terra ribolle di piccoli e medi crateri da cui esce fango e si formano certi coni simili a quelli che facevamo in spiaggia sul bagnasciuga.

Il fango non basta, la terra qui butta fuori un sacco di cose, tra cui gas. Infiammabile. Persino io rilevo qualche connessione nemmeno troppo labile tra questo e la nascita di culti afferenti allo zoroastrismo, ovvero per dirla male culto e custodia del fuoco. Visito un monastero in cui arde una fiamma eterna, oggetto appunto di culto. Poi mi spiegano che con le trivellazioni la pressione è diminuita e, dunque, il gas alla fiamma eterna oggi lo portano col tubo e vabbè, bisogna arrangiarsi. In Iran c’è un altro monastero simile con fiamma accesa perennemente. È invece in Turkmenistan la voragine infiammata, qui i fuochi nel terreno sono piccoli ma frequenti.

È molto bello, già ci sono quaranta gradi all’ombra, avere anche fiamme libere contribuisce al piacere complessivo del contesto. Faccio mia, anzi era già mia, una prescrizione zoroastriana: “Buoni pensieri, buone parole, buone azioni”, ricorda molte altre indicazioni ma la successione è importante. Lascio la penisola di Absheron, sul Mar Caspio, e torno a Baku; quando mi raccontano del genocidio (attenzione!) degli azerbaigiani per mano degli armeni russi nel 1918, comincio ad avere la consapevolezza, più di quanto sospettassi, che questo sia il territorio più complicato al mondo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: uno, da zero a cento in trent’anni

Cammino per il Bulvar, una strada a sei corsie che costeggia il mare e circonda il centro di Baku, che una volta all’anno diventa la zona dei box e del rettilineo del gran premio di formula uno. Stavolta sarà a settembre, le strutture sono già montate. Il mar Caspio, che è propriamente un grande lago salato alimentato dal Volga, porta foschia umida satura e i quaranta gradi portano fiacchezza e rassegnazione. Baku è la tipica città che nell’arco di un decennio è passata dai condomini sovietici e baracche a Zaha Hadid senza passare dal via, firmando il “Contratto del secolo”, lo chiamano davvero così nello specifico museo, per tenersi gas e petrolio e venderlo a British petroleum o a chi ora gli paia. E così da remota città russa piena di raffinerie è diventata una Dubai in cui vive la metà degli azeri, in cui si costruiscono grattacieli a forma di fiamma mescolando zoroastrismo e industria estrattiva, è sorto di recente un aeroporto internazionale che conterrebbe facilmente Linate e Malpensa insieme, una città che guarda appunto un gran premio dalle terrazze e vince le guerre con gli armeni. E dichiara la pace perpetua perché così vogliono i petrolieri. Faccio la foto evocativa tra tradizione e contemporaneità, passato e presente.

Che poi la moschea a sinistra è del 1991, ovvio, prima ce la si sognava sotto l’URSS. L’ottanta e rotti per cento della popolazione è musulmano sciita ma, dicono, essendo poco praticanti, tollerano anche i sunniti, e la moschea lo è. Guardo sospettoso Hafad che mi racconta queste cose e penso che sarebbe il primo posto al mondo in cui ci sia concordia tra loro. Il racconto della tolleranza religiosa è un momento inevitabile in questo tipo di paesi, difficile raccontino i contrasti. Teheran alla fine è a meno di trecento chilometri in linea d’aria passando sul mare, di là. La chiamo Afa, ride quando capisce.

Dall’indipendenza del 1991, l’Azerbaijan ha abbandonato il cirillico, per mia fortuna personale, e adottato l’alfabeto latino. Non che questo favorisca particolarmente la mia comprensione dei dettagli ma insomma, almeno si legge. La città nuova degli ultimi trent’anni, grattacieli e fuoriserie con biondona innestata e Lada ancora scassone, assedia la città vecchia, ancora murata e cresciuta attorno al palazzo della dinastia Shirvanshah. Fino alla fine dell’Ottocento l’aspetto generale della città era quello di un ducato medievale, vie strette, mura turrite, carretti e asini, in vista al mare, una volta molto più alto. Il petrolio poi, con il gas, divenne il fulcro di ogni faccenda, tant’è che perché non regalare un pozzo petrolifero ai figli per natale?

Parte del pacchetto di sviluppo è chiamare un architetto di grido – un’architetto in questo caso – per costruire un museo o un centro culturale così che non passi l’idea che si badi al solo profitto e la popolazione possa averne motivo d’orgoglio. Ed ecco Zaha Hadid per il Heydar Aliyev Center, centrone culturale intitolato al presidente precedente, padre di presidente, ormai carica ereditaria. L’edificio è molto bello ed è museo di per sé, contiene nostre temporanee ed esposizioni sul paese e sul presidente, resto estasiato alla collezione del grande scultore italiano Giuseppe Carta, noto a ogni sincero appassionato di frutta e verdura in formato gigante:

Come gli stilisti italiani all’estero, lui è il Bruno Banani dell’arte contemporanea. Bravo, a ritagliarsi un nicchione qui, in sede così prestigiosa. Non male anche un certo De Souza che recupera la tradizione della commedia dell’arte italiana e dipinge bei quadroni che raffigurano Arlecchino in moto o con la gang. Le persone apprezzano molto l’edificio e io anche, nonostante Carta e De Souza. E poi non c’è come vincere l’Eurovision, 2011, che poi siccome devi ospitare costruisci un bel palazzone per le neomelodie e ti fai un nome in Europa. La repubblica nata dopo la seconda indipendenza, 1991, è repubblica ma non tanto democratica, il modello assunto è quello delle grandi catene di consumo, certe vie sono uguali a quelle di Milano, garantire l’accesso all’acquisto è il fondamento su cui si regge l’edificio sociale. Ho il sospetto che fuori da Baku non sia esattamente così ma vivendo qui poco meno della metà di tutta la popolazione del paese la cosa è perlopiù risolta.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: zero, azero, entro da lì

Il sospetto è, solitamente, un «uomo, bianco, caucasico», armato o non, altobasso, diceva il comunicato via radio. Che poi, quando lo prendono, il «bianco caucasico», significa semplicemente dalla pelle chiara. È un ridicolo residuo ottocentesco delle classificazioni antropologiche di allora che resiste tra noi, specie nei verbali della polizia, caucasoide ed europoide erano troppo complessi. Qualcosa di più interessante: dopo aver donato all’umanità memoria e intelligenza, il titano Prometeo – allorquando Zeus crudele tolse loro il fuoco – incurante delle conseguenze lo rubò e lo restituì agli uomini, ormai sprofondati nelle tenebre della paura e della fame. Come andò si sa, Zeus fece incatenare Prometeo a una rupe, incastonandolo a una colonna, e inviò poi Aithon, una mostruosa aquila, perché gli squarciasse il petto e gli dilaniasse il fegato che, disgraziato, gli ricresceva durante la notte. Prometeo, secondo Eschilo, fu liberato molto tempo dopo da Eracle, che trafisse l’aquila. Il punto, però, è che Zeus decise di incatenare Prometeo nella zona più alta e più esposta alle intemperie e una zona così in Europa vuol dire – e ancor di più lo voleva dire allora – Caucaso, lo raccontano tutti i miti prometeici: con sette cime sopra i cinquemila metri, dall’Elbrus di 5.642 metri al Picco Puškin di cinquemila e qualcosa, la catena del Caucaso è decisamente il sistema montuoso più significativo del nostro continente, lo scoprirono gli alpinisti poco dopo aver inventato la disciplina, vedere Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso di Mummery.

E allora una zona così, il Caucaso, io la devo andare a vedere. I greci la conoscevano bene perché ci facevano commercio, tra mar Nero e Caspio, e quindi non per caso Giasone dovette andare a recuperare il vello d’oro in Colchide, la regione appunto tra le odierne Russia, Georgia e Turchia, conosciuta ma abbastanza remota per mandarci un eroe a compiere un’impresa memorabile. Poi romani, persiani, bizantini, il “Curopalatinato di Iberia”, figuriamoci, arabi, mongoli, timuridi, ottomani, russi, sovietici, come al solito sono passati proprio tutti tranne uno, io. Devo proprio andare.

Mercatore, mi pare di leggere pure un Neapolis, ottimo. Russia sopra, Iran sotto, Turchia a lato, due mari chiusi a est e ovest, la zona promette meraviglie e i reciproci rapporti tra i tre paesi maggiori, Armenia, Azerbaijan e Georgia, che definirei non proprio idilliaci, risentono della compresenza di cristianesimo ortodosso, Chiesa apostolica armena, islamismo sunnita e sciita, con una predominanza qua e là del sufismo, una consistente comunità ebraica, tradizioni religiose locali e forme di sincretismo religioso, oltre cinquanta etnie. Il tutto mescolato rende le frontiere – metaforiche e reali – poco permeabili, per esempio in Azerbaijan non si entra dai confini terrestri, si esce e basta, quindi devo partire da lì. Se si è in possesso di un cognome armeno, anche avendo visti e documenti regolari, si può essere fermati e respinti in ogni momento. Spero non vedano il timbro libico sul mio passaporto. Per restare ai fraterni e sereni rapporti tra confinanti, posso calare sul tavolo, oltre a Russia, Iran e Turchia, come detto, anche Cecenia, Ossezia Settentrionale-Alania, Ossezia del Sud e i territori disputati come Nagorno Karabakh e le exclaves come la Repubblica Autonoma di Naxçıvan. Non sono sicuro di avere esaurito le entità territoriali e statuali, trovo la situazione vagamente intricata.

Dunque, vado. Entrata da Baku, la città sotto il livello del mare, poi si vedrà. Vediamo quanta oltranza riesco a strappare, meno di ferragosto non è negoziabile. Esim, mappe scaricate, visto per l’Azerbaijan, passaporto, carta, due pastiglie-che-sai-mai ed è tutto, bagaglio a mano e via leggeri che meno impicci, fisici e soprattutto emotivi, mi porto da qui e meglio è, finisco stasera Gli armeni di Gabriella Uluhogian e sono pronto al clima steppico semi-arido freddo. E al museo nazionale del tappeto, che si capisce fin da fuori.


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