Alle 16:03 di questa domenica è accaduto il solstillio che ci proietta, grazie alla successione dei parallasse, in inverno. Tutte le persone di buona cultura sanno come funziona, inutile io lo spieghi per l’ennesima volta qui.
Da un’ora, dunque, siamo in inverno. A suo modo, perché fa drammaticamente caldino e a me non piace, ho ansie climatiche, vorrei il gelo che ci si confa. Quello che dà fastidio alla maggior parte delle persone, quello che fa scivolare con intramontabili scenette slapstick, quello che fa fare le cose matte ai deboli di mente. Vedremo quel che verrà, vieni avanti, dunque, inverno e travolgi i mostri.
Partito bene, finito male. Dico, nel senso che all’inizio c’era voglia ed energia per sentire musica, spesso nuova grazie a nuovi incontri e suggerimenti, ora le cose e i fatti che cosano nella vita mi tengono fermo, anche sulla musica. Però tutto sommato cinquantasei brani per poco meno di quattro ore di ascolto ci sono comunque, il lavoro è fatto e queste sono mie piccolezze. La durata giusta per andare ventiquattro volte da Durham a Newcastle on Tyne in treno.
Trentaduesima stagione musicale archiviata, via con la prossima. Restano qui, però, notevoli scoperte legate ai viaggi all’est, Kino (Кино), Siekiera, Neumis Rock Circus, cose nuove nate da scambi, Anna von Hausswolff, Silver Jews, Band of skulls, ritorni di cui uno in particolare per un concerto bellissimo, Boomtown Rats, in quello che è stato il mio giorno perfetto dell’anno, il completo, totale, entusiasmante perfect day. E come non citare la sempre ganzissima Liz Phair che sempre starà nelle mie pleiliste del cuore? Infatti c’è.
“Vediamo che ne esce questo autunno” mi dicevo alla penultima pleilista, eccomi. Secondo me non male, come dicevo almeno i primi due terzi, c’è anche una cosa superpop, che ha funestato tutti quanti, non solo me. Quando qualcuno, però, azzecca la melodia, il tema, la metrica, il ritmo bisogna riconoscerlo e togliersi il cappello, in questo caso diventando swifties occasionali anche qui.
La Patagonia è terra oltre ogni confine e là le regole sono a capo capovolto, il sopra è là e il sotto chissà. È per questo che il campionato patagonico di bugie, giunto alla diciottesima edizione, si svolge proprio in Patagonia: servono le persone della Patagonia, serve l’aria e servono le cose che accadono solo là. Io ci sono stato, sono stato anche al campionato, sono arrivato quarto una volta molti anni fa, tutti lo possono dire. Il campionato viene trasmesso da Radio Ventisquero e al vincitore, si sa, va una vitella Holsten. Ed ecco la prima bugia, Luis Sepùlveda, Feltrinelli e Guanda non me ne vogliano, comprate il libro:
Isidoro Cruz, di Las Heras, nella provincia del Chubut, manda giù un lungo sorso di vino prima di iniziare.
“Quanto sto per raccontarvi è successo un po’ di tempo fa, l’anno in cui venne un inverno davvero da cani, lo ricorderete. Io ero povero e magro, così magro che non facevo neppure ombra, così magro che non potevo usare il poncho, perché appena infilavo la testa nel foro, il poncho mi scivolava giù fino ai piedi. Una mattina mi dissi: ’Isidoro, non si può continuare così, devi partire per il Cile’. Il mio cavallo era magro quanto me, per cui prima di montare gli chiesi: ’Ehi, matungo, pensi che ce la farai a portarmi?’. Lui mi rispose: ‘Sì, ma senza la sella. Accomodati qui, fra le costole’. Seguii il consiglio del cavallo e assieme ci dirigemmo verso la cordigliera. Mi stavo avvicinando al confine cileno quando, da qualche punto vicino, sentii una vocina debole, ma davvero debolissima, che diceva: ’Non ce la faccio più, io mi fermo qui’. Spaventato guardai in tutte le direzioni cercando il padrone della voce, ma non vidi nessuno. Allora mi rivolsi alla solitudine: ’Non ti vedo. Vieni fuori’. Di nuovo sentii quella vocina debole: ’Sotto la tua ascella sinistra, sono sotto la tua ascella sinistra’. Infilai una mano sotto la camicia e palpai qualcosa. Tirai fuori la mano, e aggrappato a un dito c’era un pidocchio magro quanto me e il mio cavallo. Povero pidocchio, pensai, e gli chiesi da quanto tempo viveva sul mio corpo. ’Da molti, molti anni. Ma è arrivato il momento di separarci. Anche se non arrivo neppure a un grammo, sono un peso inutile per te e per il cavallo. Lasciami a terra, compagno.’ Capii che il pidocchio aveva ragione e lo misi sotto un sasso, ben nascosto perché non se lo mangiasse qualche uccello delle vette. ’Se in Cile mi va bene, al ritorno ti cerco e lascio che tu mi pizzichi quanto vuoi,’ gli dissi salutandolo, poi ripresi il cammino.
In Cile mi andò bene. Aumentai di peso, e ingrassò anche il cavallo, e quando un anno dopo riprendemmo la via del ritorno, soldi in tasca, sella e speroni nuovi, cercai il pidocchio dove lo avevo lasciato. Lo trovai. Era ancora più magro, sembrava trasparente e si muoveva appena. ’Ehi, pidocchio, eccomi qua. Vieni. Pizzicami, pizzicami pure quanto vuoi,’ gli dissi prendendolo e mettendomelo sotto l’ascella. Il pidocchio mi pizzicò, prima pianino, poi con forza, con la voglia di succhiare il sangue. All’improvviso il pidocchio cominciò a ridere, e anch’io risi, e le mie risate contagiarono il cavallo. Attraversammo la cordigliera ridendo, ubriachi di felicità, e da allora quel passo di montagna si chiama il Passo dell’Allegria. Tutto questo è successo, come vi ho detto, un po’ di tempo fa, l’anno in cui venne un inverno davvero da cani…”
Isidoro Cruz finisce la sua bugia col volto serio. I gaucho esaminano la trama, la valutano, decidono che è una bella bugia, applaudono, bevono e promettono di non dimenticarla.
A fine dicembre del 2021, davvero incredulo, festeggiavo la vittoria di Gabriel Boric alle presidenziali cilene. Ma da non credere, giovane, progressista, sostenuto da partiti di sinistra ed estrema sinistra, con un programma di riforme poderoso, compresa la costituzione. In Cile? Da non credere, infatti.
Quattro anni dopo, ora, ha stravinto il suo avversario di allora, José Antonio Kast: candidato di estrema destra, “disgustoso fascista sostenitore di Pinochet, omofobo e contro ogni forma di immigrazione” dicevo allora e confermo. Che ha imparato la lezione di quattro anni fa, ha attenuato i toni pinochettisti, ha puntato come ogni destrorso su criminalità, sicurezza, immigrazione e, complice il deludente mandato di Boric, s’è preso il paese. Ecco, adesso sono meno incredulo.
Certo, il discorso è complesso e Boric non aveva certo vinto perché il paese fosse diventato socialista e progressista, figuriamoci, come probabilmente ora non è diventato (del tutto) fascista. Certo è che il mandato di Boric, che ha puntato tutto in una fase iniziale sulla riforma costituzionale, poi sonoramente bocciata dal popolo, è stato caratterizzato da un ridimensionamento generalizzato delle intenzioni politiche, il che ha portato poi a un risultato complessivamente deludente. Complice il riposizionamento di Kast, ecco il solito Cile. Quello che mantiene l’intitolazione della Carretera austral a Pinochet senza fare troppe pieghe e che senza troppi timori passa da sinistra a destra, estrema, in quattro anni.
Ultima nota: in Cile questa volta è stato sperimentato il voto obbligatorio. Ovvero, chi non vota paga multa. Ed è così che ha votato il doppio delle persone che avevano votato all’ultima tornata elettorale, presumibilmente quindi anche una certa sostanziosa quantità di persone poco interessate, sulle quali probabilmente la proposta di nuove prigioni, espulsioni di immigrati, maggiori diritti alla polizia deve aver fatto presa. Probabile che questa cosa del voto obbligatorio cominci a prendere piede, in qualche forma seppur non così esplicita. Comunque, per fortuna nel Cile progressista di Boric ci sono stato: che bella aria c’era… (seee).
Il secondo senza Licia Pinelli. “L’importanza del 12 dicembre va al di là della celebrazione e del ricordo che si fa in piazza. È una data storica per l’intero Paese perché è l’inizio della strategia della tensione che produce effetti devastanti e blocca di fatto il grande movimento di riforma del Paese nato dalle lotte dei lavoratori e degli studenti”, spiega Federico Sinicato, presidente dell’Associazione dei Familiari delle vittime di Piazza Fontana. Chissà se avremmo avuto un paese diverso.
Cosmonauti di tutto il mondo, appassionati di Gagarin e di quel pazzo volo, uniamoci ai Public Service Broadcasting e balliamo insieme al ritmo di questo singolo irresistibile. Il singolo ‘Gagarin’ trainò il concept album del 2015, ‘The Race for Space‘, storia musicale delle missioni spaziali americane e sovietiche tra 1957 e 1972, con svariati inserti audio d’epoca. Il video stesso è uno spasso, il coreografo ha centrato il punto, movenze disarticolate e buffe ma mai grottesche:
Stasera il duo è dal vivo a Toronto, mi sa che non ce la faccio. Ma li punto eccome. Anche ‘Go!’, l’altro singolo trascinante del disco, non è da meno.
La comoda pleilista de leccanzoni del giorno esiste ancora, è a cinquantasei canzoni e adesso è su Tidal, che son passato di là per le note vicende, Trostfar ne era stato l’ispiratore oltre che autore della magnifica copertina, grazie, ora l’aggiorno e sta qui, per chi desideri.
Da dove cominciare? Bene specificare prima di iniziare che ricevere il premio Nobel per la pace, ancor più dopo la vittoria di Kissinger nel periodo d’oro, equivale sì e no a ricevere una di quelle coppette di plastica dedicate industrialmente al “papà migliore del mondo” dal proprio figlio. Affetto, molto per carità, ma valore intrinseco pochino. Tra l’altro, ricordo che il premio viene assegnato, unico tra essi, dai norvegesi.
Dunque, la piglio dalla cima. Il presidente americano Trump, non appena eletto, ha cominciato a far smettere guerre nel mondo con la sola imposizione delle mani. Russo-ucraina a parte, nonostante avesse detto che sarebbero bastate ventiquattro ore, qualcuno dice sette, qualcuno otto le guerre terminate grazie al suo intervento: i conflitti tra Israele e Iran, Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, Cambogia e Thailandia, India e Pakistan, Serbia e Kosovo, Egitto ed Etiopia e Armenia e Azerbaigian. Ho capito, cosa vuol dire che tre giorni fa la Thailandia abbia attaccato la Cambogia e ci siano quattrocentomila persone in fuga in queste ore e che in Kashmir nulla si sia effettivamente fermato nonostante la tregua di facciata? E che il conflitto Israele-Iran sia più che altro congelato che risolto specie dopo il bombardamento americano proprio sull’Iran? Niente, cattiverie. Grazie a questa sequela di successi, una bella teoria di buontemponi ha pensato di candidare la propria figura politica di riferimento, per tornaconto o per nettaculismo spontaneo, al Nobel per la pace 2025, cercando di affastellare successi il più rapidamente possibile in vista della votazione. Non è andata bene e il premio, si sa, è stato dato a María Corina Machado, sconosciuta ai più fino a quel momento.
Spiace, diciamo. Chiusa qui? Macché. Il presidente della FIFA Infantino, legato a quadruplo filo imprenditoriale con la famiglia Trump tra i mondiali in USA della prossima estate, la recente coppa del mondo per club sempre là e così via, si è inventato un premio mai esistito prima, il Fifa Peace Award, e l’ha consegnato in corso di cerimonia in mondovisione durante i sorteggi indoviniamo a chi? Esatto, proprio a Trump. Questo dice dando il premio: «In un mondo sempre più instabile e diviso, è fondamentale riconoscere l’eccezionale contributo di coloro che lavorano duramente per porre fine ai conflitti e unire le persone in uno spirito di pace», quello ricevendolo: «È uno dei più grandi onori della mia vita. Ringrazio la mia famiglia e la mia fantastica First Lady Melania. Oggi il mondo è un posto più sicuro». E gli amici del baretto? Che, come dice Cevoli, se volevo sentire dei coglioni, sentivo i miei.
E fin qui i fatti degli ultimi tempi. Giusta indignazione per la candidatura al Nobel, la costituzione di comitati pro Trump a questo scopo, salamelecchi e fanfaronate a non finire. E il probabile stupore dei giovani, poco avvezzi, increduli davanti a cotanta spudoratezza. Ma essi non sanno e voi, invece, che qui leggete sì, lo sapete, come lo so io. È un fatto che sta dentro di voi, sta lì dal 2009, nonostante abbiate cercato di schiacciarlo come me sotto litri e litri di alcoolici e ricordi non migliori. E allora ritiriamolo fuori: nel 2009 in Italia un bel comitatone di nettaculi umani (come li chiamai sobriamente allora) sostenne con una certa vigoria la candidatura al premio Nobel per la pace, eh sì, di Silvio Berlusconi. Oh, la cosa andò avanti per mesi e non potreste credere, cari i miei virgulti, con quale veemenza essi difesero a spada tratta la propria figura politica di riferimento, per tornaconto o per nettaculismo spontaneo, sostenendo ci avesse salvati dai comunisti, tra l’altro. Non andò bene nemmeno allora, ed è strano perché i norvegesi sarebbero pure capaci di far coteste minchiate – Kissinger, ripeto, nel 1973 – senza troppi timori.
Ma i comitati furono forti e insistenti, le letterine raccomandate (letterale) verso Oslo numerose e sentite, i peones perlopiù giovanissimi esposti nell’improbabile campagna parecchi. Tra essi, ricordo la cantante Loriana Lana – legata da parentela con Giggi Zanazzo, poeta – che nel suo curriculum ricorda come fu lei a pronosticare a Bacalov la vittoria all’oscar per ‘il Postino’, puntualmente avvenuta. Lei, in collaborazione con Pino Di Pietro, scrisse un inno dedicato a Berlusconi in cui celebrava le sue gesta (di Berlusconi) in favore della pace: “La Pace Può”, poi cantata sempre da lei con Sergio Panajia. Se non conoscete nemmeno uno di questi nomi non vi preoccupate, è normale. E io che l’inno l’avevo già salvato allora, perché trivigante sa che le cose non durano e bisogna salvarsele in saccoccia, lo rimetto qua, perché come mi sono deturpato io ascoltandolo nuovamente ora vorrei lo faceste anche voi:
Il cenno all’Abruzzo è ancora da denuncia penale o da pubblico impalamento, meglio. E l’invocazione a Berlusconi con l’inversione del verbo in fondo alla tedesca da ancora scapottare.
Non ultimo, in questa vicenda miseranda, vorrei ricordare l’epico confronto tra il grande s|a, sogliadiattenzione, meraviglioso amico e blogger di quegli anni, e tal Emanuele Verghini, non solo animatore di uno dei comitati a sostegno di Berlusconi ma, anche, figura in grado di scrivere impudentemente la seguente frase: «A Silvio Berlusconi noi guardiamo come modello. A uomini come Angelino Alfano ed a Giuseppe Scopelliti noi guardiamo come sparanza per la creazione di una nuova classe dirigente» senza cagarsi addosso. Orbene, s|a scrisse un post ironico sull’insensata candidatura di Berlusconi al premio, interrogandosi sulle dinamiche decisionali interne a Forza Italia, e Verghini intervenne nei commenti, squadrnando concetti a caso, di cui ci facemmo variamente beffe. Stanno ancora lì, sotto il post. Questo per dimostrare il clima di allora, surriscaldato da questi parecchi piccoletti cani rabbiosetti che impreversavano anche in rete sostenendo il loro capo contro ogni senso e verità.
Cosa voglio dire, dunque, caro giovane che leggi queste righe? Forse che certe cose esistevano già ai nostri tempi e che noi sì che ne abbiamo viste delle belle? Giammai. Forse che certe cose non cambiano e che dovresti dunque perdere ogni residua illusione? Maffiguriamoci. Ma che ne so, giovane, di quel che voglio dire? Anzi, vattene da qui che manco sai che fosse un blog e come ci divertissimo, allora. Va’ via, va’ dove ti pare e lasciaci qui, a riascoltare “La Pace Può”, a farci venire di nuovo il nervoso e a pensare, però, com’erano in fondo gloriosi quegli anni, in cui tutti noi eroi eravamo giovani e belli. Ma nemmeno, perdio. Viva noi, ora, oggi, viva s|a e viva tutti i superstronzi che verranno candidati in futuro al premio Nobel per la pace senza però vincerlo. Che dopo Madre Teresa di Calcutta (1979, ne ho detto il peggio qui) vale comunque come un premio per la partecipazione.
Eh, che fare? Niente, abbassare le mani dal capino, tenere lo sguardo dritto e fare quel che si deve.
facciamo 'sta cosa
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