minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: due, il treno magico del tempo

Un missile lanciato nelle piane carpatiche, un’idea socialista scagliata nel futuro, una capsula proiettata nello spazio e nel tempo, cioè nel tempo eccome, nello spazio non tanto, con i suoi trentacinque chilometri all’ora di media: è il Prietenia, il treno che stiamo per prendere e che costella i miei migliori sogni di pianura ex-sovietica da molte notti.
Ogni sera, alle 19:10 dalla Gara de Nord di Bucarest parte il treno notturno per Kyiv via Chişinău e così al contrario il giorno dopo e via così da decenni e, spero, per altri decenni. Il tempo è stato clemente con questo treno nel senso che è sì trascorso, e si vede, ma non è passato, nel senso che non è svanito: è lì, tutto da vedere. La politica con i propri simboli è ancora lì; l’attitudine al lavoro anche, quel modo tutto socialista non solo di non svicolare la fatica ma renderla anzi un momento nobile della vita e della giornata, sulla quale costruire un sistema; la tecnologia pure, perché è quella in ghisa che prima di deformarsi devono passare le ere. Eccoci qua.

All’annuncio del binario, il cinque, una folla ammandriata con valigie ponderose, trolley importabili, sacchetti di plastica intrecciata, borsine e ceste si lancia ai vagoni, probabilmente non avendo affrontato la spesa della prenotazione. Noi esitiamo, anche perché i vagoni non sono numerati e il nostro, l’uno, non è né all’inizio né alla fine, ma più o meno in mezzo. Non sarà l’ultimo dei misteri, ci sono cose che sa solo il capotreno e noi non siamo nessuno per obiettare. Non è un treno per deboli o malfermi o, men che meno, disabili, il primo gradino è sopra il ginocchio stando sulla banchina, allego foto all’arrivo a Chişinău con luce a dimostrazione.

Ma se la meccanica non aiuta, il socialismo non lascia indietro nessuno, e chi ha la gamba molla o corta viene aiutato con dignità e rispetto, perché alcuno rimanga indietro. Già capire quali siano le nostre cuccette non è banale, sia perché le targhette sono in mezzo a due scompartimenti, potrebbe essere di qua come di là, sia perché una delle nostre cuccette è già occupata da una ragazza, perplessa quanto noi dalla commistione di genere. Ma benedetta, visto che parli la lingua approfondisci dunque e scopri l’arcano. Lo fa solo dopo molti pensamenti e se ne va due scompartimenti più in là, vitdevuimen, dice. Giusto. Tempo cinque minuti e arriva uno dei nostri compagni di stanza ed è un giovanile lavoratore di frontiera moldavo che torna da una settimana in Romania a paga maggiore verso casa ed è, urrà, appestato come non mai, naso gola bronchi peste bubboni vari. Parla qualcosa di italiano, dobbiamo essere cauti nei commenti e discorsi e respirare il meno possibile di ciò che lui emette. Il capovagone ci consegna una bustina ciascuno che contiene una federa, un lenzuolo sotto e uno sopra, un asciugamanino, su ogni cuccetta c’è un cuscino e un materasso arrotolato che, come minimo, è servito alle truppe in difesa di Stalingrado. Siamo in estasi.
Il treno parte, sobbalzando come se i freni staccassero di botto, e prosegue con un curioso andamento, muovendosi in avanti e indietro nella direzione del moto, non tra destra e sinistra come ci si aspetterebbe. Il capovagone ci fa capire che dovremmo stare quieti nello scompartimento mentre noi percorriamo ogni spazio in lungo e in largo preda di entusiasmo beota per la novità e creiamo scompiglio nell’ordine delle cose con cui il socialismo procede per viaggi quinquennali. Fuori è completamente buio ma c’è sempre qualche luce artificiale che annuncia impianti di qualche tipo sparsi nella pianura carpatica rumena. Il corridoio di ogni vagone è coperto da un lungo tappeto tessuto appositamente, così come ogni scompartimento, ogni finestrino è contornato da tende beige molto spesse con il marchio delle ferrovie moldave, ogni vetro ha due bandierine colorate con i simboli moldavi, le cuccette sono in pelle bordeaux, c’è persino una manopola con su scritto радио, ‘radio’ in russo, c’erano anche sui nostri treni, e delle prese elettriche, chissà se abbiano mai funzionato. Il tavolino nel mezzo ha una tovaglia uguale alle tende. Tutto quanto descritto ha almeno vent’anni più di me, come minimo. Il nostro compagno di scompartimento si mette a dormire, sono le otto, e noi continuiamo a scoprire meraviglie che ci comunichiamo tutti eccitati.

Solitamente affido alle parole la descrizione di ciò che vedo, senza inserire fotografie che diano la percezione esatta, volendo bastanti le parole appunto, però stavolta farò un’eccezione per questo treno perché mi rendo conto che l’immaginazione spesso non possa raggiungere certe vette della realtà. Ecco dunque il corridoio del vagone, agghindato come detto:

Il tappeto del pavimento è ricoperto perché non venga sporcato, a mattina il capovagone lo rimuoverà quando raccoglierà le lenzuola, contandole tutte. E lo scompartimento, a quattro cuccette, il massimo ottenibile per mescolarsi il più possibile.

Mancano ancora molti gradini per il raggiungimento della meraviglia complessiva, vorrei dunque documentare il bagno, non troppo dissimile dai nostri, se non fosse per le indicazioni di water e lavandino.

Lo scarico è il pedale a fianco della tazza e per compiere l’operazione complessa dello scarico, in cui di fatto si ribalta il coperchio al fondo del water scaricando tutto sui binari, queste sono le istruzioni:

Chissà il manuale di procedure di sicurezza di Chernobyl. Ma la seconda cosa che ci manda più in estasi è il riscaldamento del vagone, un vano a fianco dell’entrata che contiene una vera, unica, intoccata e socialista caldaia a legna o carbone, a seconda della disponibilità.

Ovvero esattamente come funziona la MIR. Avarija, avarija. Sistemati i letti, messo a nanna il nostro compagno habitué che ha ormai perso il senso della meraviglia – sai com’è, trivigante, lui lavora -, resta una sola cosa da fare: andare al vagone ristorante. La vera perla di tutto il treno e di tutto il viaggio.
Formica, legno, bottiglie di alcoolici dalla vodka alla birra in ogni formato possibile, bicchieri di vetro spaiati, tavolini senza sedie, snacks dal biscotto al cioccolato alle patatine alla paprika, luci al neon, tutto è perfetto e non potrebbe essere meglio.

Anzi sì, lo può. Quando appare il barista, ristoratore dalla notte dell’Unione sovietica tutto assume un’altra aria: solido e bonario, vestito di una meravigliosa maglietta con scritto ‘fearless‘ in ogni colore e chiaramente strizzatoci dentro, e di un grembiule fatto della stessa stoffa delle tende che lo rende una specie di massaia siberiana accondiscendente e spietata allo stesso momento, ci serve le quattro birre con cui inauguriamo il viaggio, due Chişinău e due Timisoreana per il nostro litro cadauno.

Una ragazza olandese, una famiglia rumena con due bambini e una coppia di inglesi sono i nostri compagni di carrozza ristorante. Oddio, bar, diremmo finora. Finché non succede l’inaspettato: la famiglia rumena, che capisce quel che si dice, ordina da mangiare e l’uomo dietro il banco, la colonna angolare sulla quale questo treno si regge in piedi, l’uomo per cui l’Unione sovietica sarebbe ancora in piedi se fosse per lui, colui che avrebbe potuto salvare il socialismo e portare uguaglianza nel mondo, si reca nel retro del suo bugigattolo e con congruo tempo e modestia di mezzi prepara il piatto unico del treno magico:

È l’accadimento più bello ci potesse capitare, facciamo immediatamente gesto di altridue per noi e ci predisponiamo al momento sublime, ordinando nell’attesa un altro paio di Timisoreana. Mentre il padre della famiglia rumena consuma solitario gli otto chili di verza avanzata dai suoi familiari noi consumiamo la cena più buona e soddisfacente di sempre. Evviva il comunismo e la libertà, perdio. Lanciati per la pianura verso il confine, immaginiamo quante migliaia, centinaia di migliaia di persone avranno dormito ai nostri posti e mangiato il nostro piatto, sperato in un futuro migliore, sognato pace e serenità a bordo di questo treno. La proporzione dà alla testa, anche il treno procede a balzi nella sua media turbinosa e talvolta si ferma in un nulla misterioso che davvero è difficile interpretare. Non potrebbe essere meglio di così.

Non vorremmo andare a dormire, non vorremmo dormire mai più, tutto dovrebbe restare acceso per sempre. Ma la levataccia del mattino, la giornata in giro per Bucarest, l’economia del domani ci suggeriscono che sia meglio andarci, a dormire, e così è. Passata una mezz’oretta nel sonno dei giusti un po’ ubriachini il nostro compagno appestato comincia a russare come una locomotiva guidata a tutto vapore dal compagno Stachanov verso il sol dell’avvenire e fischi, versi e porconi non servono a nulla. Ed è qui che R. compie il gesto più generoso a premuroso che la storia umana ricordi: con sforzo titanico solleva la cuccetta con base-ghisa, con la mano restante fruga nella borsa e mi porge un paio di tappi per le orecchie, atto del quale non riuscirò mai a esprimergli compiutamente la riconoscenza che provo.
I tappi funzionano talmente bene che non mi sveglio nemmeno quando il capovagone passa di scompartimento in scompartimento ad accendere tutte le luci e a svegliarci, avvisandoci del border control: comincia così un processo di durata variabilissima per cui tra l’annuncio e la comparizione dei militari di frontiera passa un’ora, poi un appuntato raccoglie una pila così di documenti dei viaggiatori e si dilegua nel buio per un tempo indistinto ma non inferiore all’ora e mezza, io avrei bisogno di andare in bagno ma vengo rudemente dissuaso con il gesto della ‘x’ con gli avambracci avanti dal capovagone, la tengo coraggiosamente. Molto tempo dopo i documenti ci vengono restituiti, e la sensazione non è mai bella, essere senza documenti nel nulla senza il possesso della lingua, e noi dormiremmo anche, se non che ci viene preannunciato l’altro controllo, quello della frontiera moldava. Ah, che bravi, io nel frattempo valuto l’opportunità di farmela addosso, il che non mi pare nemmeno male come prospettiva, al momento. Il border control moldavo non è da meno e il tempo non è inferiore, la scomparsa identica, con la differenza di una poliziotta tozza che dice qualcosa in ogni scompartimento. Sembra passino giorni, le luci accese, ogni tanto un vociare e qualcuno che cammina nel corridoio, qualche cane abbaia, un tonfo ogni tanto, il treno irrimediabilmente fermo. So dove siamo, in prossimità di Albița, sul fiume Prut che fa da confine ma queste sono informazioni da carta, davvero chissà dove siamo, chissà che c’è là fuori. Chissà dove sono i nostri documenti. E mistero al mistero, il nostro coinquilino impacchetta la sua borsa e scompare. Non lo vedremo più.

Poi il treno si muove – ripeto: i documenti, madonna – e succede l’ultima cosa strepitosa del viaggio, l’attendevamo. Uomini all’ascolto, attenzione: questa sono più di mille cantieri messi insieme, più di cento ruspe enormi che lavorano all’unisono, è forse comparabile al solo Bagger 288 al lavoro, il valico insuperabile delle meccaniche in funzione. Il treno viene sollevato, vagone per vagone, di almeno un metro e mezzo, noi tutti dentro, e i carrelli europei sotto sfilati e sostituiti con quelli sovietici più larghi di dieci centimetri. Noi basiti facciamo foto e video e commentiamo a monosillabi estatici, vediamo un altro treno a fianco sollevato allo stesso modo. Ecco qua, la differenza: il molle mondo capitalista, avvezzo a schivare il lavoro più che si può, mondo ormai molle e putrescente, avrebbe messo due treni, uno di qua e uno di là e ci avrebbe fatto cambiare; il mondo socialista no, due volte al giorno solleva un treno intero e sostituisce tutte le ruote con la calma e la forza che il solo popolo unito può dare in nome del comune lavoro per uno scopo, facendo della fatica stessa una nobile motivazione. Che mondo, che politica, che persone, che unità. R. lancia un auspicio nel vuoto che i carrelli siano sistemati bene, ecco, che sarebbe importante, che non credo venga raccolto da alcuno. Ma meglio dirlo, comunque.

Tornano i documenti, le ruote sono quelle giuste, possiamo ripartire verso la meta, Chişinău e la Moldavia, ancora nel buio della profonda notte. Crolliamo, le emozioni sono state tante e incomparabili, rivolgiamo un pensiero interrogativo al nostro amico di scompartimento scomparso nella notte alla frontiera e ci chiediamo quale sia stata la sua fine, poi i binari proseguono e ciao, andiamo avanti. Ognuno badi alla propria pelle e alla propria valigia.
Sorge il sole e rivela una bella pianura tutta fatta di variazioni di marroni e arancioni autunnali, noi facciamo colazione con quel che avevamo comprato in stazione fidandoci di chi diceva che sul treno non ci fosse cibo – non fidatevi di quel che leggete in rete, tranne me in questo momento – e attendiamo l’arrivo alla stazione di Chişinău, dopo solo quindici ore e mezzo di viaggio per quattrocento chilometri, tra utopie, sogni ugualitari, amicizie tra popoli e persone, idee perenni e il tempo e lo spazio che ci circondano e che ci portano, come questo treno meraviglioso, dove vogliono e come vogliono.

In aggiunta e infine a quanto raccontato, il video di Zdob și Zdub e i fratelli Advahov, girato e scritto in parte sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico dei sogni e in parte sul diurno in senso opposto. È subito Kusturica.

Ricorderò tutto ciò con gioia, che tutti voi sopra e attorno il magico treno abbiate vita lunga e felice e sempre un piatto così da mangiare e una Timisoreana fresca.


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