La sagoma del denkmal che celebra la vittoria nella battaglia delle Nazioni del 1813, un monumentone panettone alto novanta metri in granito che mi ricorda quello dei boeri a Johannesburg, si staglia sulla pianura. Con la grazia dell’atteggiamento e dello stile fin de siècle tedesco, statue di nibelunghi barbuti con gli spadoni e i leoni seguono fedeli un arcangelo Michele alto un tot che pare uscito dalle monate di Jackson nel signore degli anelli, sotto la scritta ‘Gott mit uns’ e qui un pezzetto di AfD si spiegherebbe già. Ci credo bene che ogni qualche decennio venga loro il desiderio di sottomettere il mondo, da qui a Coblenza è pieno di ‘ste boiate guglielmine nazionaliste. Giro attorno e alla larga col treno perché vado a sud, a Chemnitz, la Manchester della Sassonia, e la ragione è politico-sentimentale. Nel frattempo, mi stupisco ancora una volta guardando dal finestrino del fatto che loro, in Germania, hanno ancora le foreste, fitte fitte, e i boschi, integri e belli. Ogni volta una sorpresa un po’ dolorosa, quando torno.

Vale la pena, a questo punto, provare ad affrontare la questione: perché AfD, Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra, vince e cresce dappertutto nella parte est della Germania, ricalcando geometricamente i territori dell’ex-DDR? Eh, bravo, adesso lo spiego io, altro che i fior di analisti. Beh, però, visto che son qui tanto vale dare un’annusata, snocciolo qualche dato fornitomi dal Dipartimento analisi economiche di trivigante. Lo stipendio medio nell’est della Germania è inferiore di circa tredicimila euro lordi rispetto a quelli dell’ovest e a Lipsia è il più basso delle grandi città tedesche, circa trentottomila euro all’anno. Non a caso BMW come molte altre aziende tedesche aprono fabbriche qui, costano meno e un filo scoccia. Il divario è un forte crescita, negli ultimi tre anni è aumentato di oltre duemila euro all’anno, non si può non percepire (e infatti). Soprattutto considerando l’alto livello di tassazione tedesco, addirittura di poco superiore a quello italiano secondo l’OCSE, attorno al 38% per questa fascia di reddito. Se la disoccupazione in Germania è al 6,2%, a est la media è del 16%, con punte del 21 in Sassonia Anhalt, del 20 in Mecklemburgo e del 19 in Turingia, il dato che ho non è però recentissimo, dovrebbe essere in ribasso a Lipsia e dintorni. E già qualcosa qui si inizia a capire. Per carità, non è che i servizi non ci siano, si vedono eccome, trasporti pubblici, pulizia, stato delle città, ma non ho modo di provare ad avere un medico di base o chiedere la disoccupazione. Però il costo della vita, secondo gli indicatori tipici triviganteschi in viaggio, è abbastanza vicino a quello dell’ovest: un biglietto urbano dell’autobus tre euro e cinquanta, un espresso doppio da bere per strada tra i tre e i quattro euro, una bistecca del contadino sassone e due birre in una keller da ottomila posti circa, in centro certo ma loro non fanno differenza, circa cinquanta euro. Eh. Alberghi esplosi ovunque, non contano. Da una breve incursione in un paio di negozi di case, l’affitto è tra i mille e i milleecinque per appartamento, stanze a quattro-seicento, mica bazzeccole.
Chemnitz, che sta sul fiumicello Chemnitz, ai tempi della DDR si chiamava Karl Marx Stadt, non perché ci fosse mai stato o avesse relazione, quanto per i lavoratori delle fabbriche, numerosissime qui, il centro dell’auto dell’est, Barkas, non Trabant. Ed è così che davanti al palazzo del partito nel 1970 fu installata un’enorme parete con il suo ‘proletari di tutto il mondo unitevi’ in quattro lingue, che capissero anche fuori, e sotto un bel testone del filosofo economista che mi piace moltissimo per forme, proporzioni ed espressione. Ho una foto dei miei lì sotto che riguardo di tanto in tanto con affetto. L’allora Karl Marx Stadt, come Lipsia, fu teatro delle proteste del lunedì che portarono alla caduta del muro e al primo giorno utile cambiò nuovamente il nome in Chemnitz con plebiscito mentre non ci fu una posizione netta sul mantenere o meno la testona dov’è e così resto lì. Per fortuna sua e mia. È ancora corrucciato, Karl, perché lo stato dei lavoratori lo preoccupa anche ora ma se dovessi stabilire lo stato di salute del socialismo dalle sue condizioni attuali, direi che non è che vada benissimo.

Già. Cappellone e manona sono i simboli della festa in corso in città, perché Chemnitz quest’anno è capitale europea della cultura. E siccome già l’UE colpevolmente attribuisce il titolo a città medie senza prerogative culturali particolari ma per rilanciarle turisticamente, anche qui confondono cultura con intrattenimento e la festa sono bancarelle di artigianato casalingo, materassoni per il parkour, quattro tizi vestiti da mona e una quantità di cibo imbarazzante. E il socialismo a ramengo, sconfitto dal bratwurst. In realtà la cultura c’è, forse non così da farne una capitale, ma c’è: il museo Gunzenhauser, dalla collezione del gallerista, la più ricca del mondo di opere di Otto Dix. Lo so che nessuno lì si piglierà la briga di venire a Chemnitz per vedere una mostra, pazienza, la promuovo lo stesso: formidabile, pittura realista europea degli anni Venti e Trenta, da Stoccolma a Sofia, raggruppata per temi: un primo piano di autoritratti eccezionali, poi la vita sociale accesa dopo il disastro della guerra, le fabbriche e il lavoro, il tempo libero, la scoperta dello sport e degli hobbies.

Strepitosa, anche l’edificio modernista aiuta. Se il catalogo non pesasse ottocento chili ci farei un pensiero e poi mi rendo conto di quanto pensi vecchio, lo compro online e lo metto in viaggio verso casa mentre io sono ancora qui. Giornata decisamente portata a casa, ed è solo mezzogiorno, da adesso è tutto ricavo. Nei due anni successivi alla caduta del muro a Chemnitz furono lasciati a casa settantamila operai, per dare una dimensione alla faccenda. Con l’indotto familiare, significava tutta la città con il culo per terra, per dirla in termini economici.

La città, rasa al suolo durante la guerra, perché qui si costruivano i motori del panzer Tiger, fu ricostruita come città modello socialista e c’è una parola che definisce lo stile dei palazzoni dell’epoca, lo scopro ora: il Plattenbau. Ovvero a pannelli di calcestruzzo prefabbricato per pareti, soffitti e pavimenti. Oggi li abbiamo colorati ma quelli sono, ancora numerati come allora, e la cosa che balza agli occhi è che nel consumismo l’altezza delle balaustre dei balconi dev’essere più alta che nel socialismo, li hanno alzati tutti con barre di metallo. Allora la.vita individuale contava meno, forse. Come per le fermate degli autobus, vorrei fare reportages fotografici delle entrate ai condomini socialisti, veri simboli delle comunità fondanti lo stato socialista.

Il castello del principe è stato abbattuto come simbolo borghese ma sono rimasti il parco e il lago, dove scopro i rododendri, tutti fioriti tra il rosa e il viola e tutti velenosi, scopro poi. Vagolando per l’ameno finisco al Centro dei Cosmonauti intitolato, giustamente, a Sigmund Jähn, il primo cosmonauta tedesco della DDR, doveva essere la Soyuz 31. Proprio quello Jähn che divenne presidente in ‘Goodbye Lenin’, quello delle avventure di Sabbiolino, che vedo al Centro. Che gloria, Jurij, Valentina, Sigmund, i cosmonauti tutti, che cavalcata leggendaria furono quegli anni. Frotte di bimbi domenicali usano gli strumenti dei cosmonauti e la DDR è ancora qui tra noi, per la parte buona.

Mentre scrivo questo minidiario sotto un tiglione, Lipsia significa posto dove crescono i tigli, immagino per estensione valga anche qui, il cielo si rannuvola e arriva un acquazzone che una volta avremmo avuto ad agosto e ora lo abbiamo ora. Scappo in stazione e torno a Lipsia per la serata che dedico all’Auerbachs Keller, storica birreria cinquecentesca citata anche nel ‘Faust’ di Goethe e in cui il diavolo è dipinto dappertutto. E si sa, poi non è brutto tanto quanto, quindi bene.