Emil Zatopek, mezzofondista e maratoneta cecoslovacco, detto appunto per la sua abilità ineguagliata nella corsa e perché sbuffava, era noto anche per una certa qual poca grazia nel correre. Non tutto, le gambe andavano bene, era il torso che sbandierava qua e là, le braccia in giro, la testa dondolante e un’espressione in agonia perenne.

Ognuno corre come vuole e se uno, poi, come lui vince quasi qualsiasi gara a volte doppiando il secondo, ha evidentemente ragione di fare quel che lo faccia sentire meglio. Alle olimpiadi del 1952 a Helsinki vinse 5mila, 10mila metri e maratona mentre la moglie Dana vinceva l’oro nel giavellotto femminile, per dire. Lui disse di averla ispirata, lei rispose: «Davvero? Prova a ispirare qualche altra ragazza e guarda un po’ se riesce a tirare un giavellotto a cinquanta metri». Niente male.
Comunque, il motivo per cui sto scrivendo qui di Zatopek, il calzolaio socialista poi regalato alla corsa, è per le descrizioni che i giornalisti sportivi e commentatori ne diedero, vedendolo correre. Jean Echenoz scrisse: «procede in maniera pesante, scomposta, sofferta, a scatti. Non nasconde la violenza di uno sforzo che gli si legge sul viso contratto, irrigidito, stravolto, continuamente distorto da un rictus penoso a vedersi. I lineamenti sono alterati, come dilaniati da una spaventosa sofferenza, a tratti ha la lingua fuori, come avesse uno scorpione in ogni scarpa». Per Gianni Brera faceva «le smorfie più angosciose e rattristanti» e «pare vecchio slombato e pronto a crepare sul margine del prato come un ronzino esausto». Pierre Magnan scrisse che era «l’uomo che correva come tutti noi», che non è esattamente un complimento. Per molti altri, era l’uomo che correva peggio di noi, alcuni commenti sparsi che ho trovato qui scrissero: correva come «che è stato appena accoltellato al cuore», ahah, come uno «che sta lottando contro un polpo su un nastro trasportatore», come uno con «un cappio attorno al collo», che si dimena per liberarsene. Come «un pugile che combatte contro la sua ombra», come «uno che stia per fare il proprio ultimo passo». Ahah, polpi, scorpioni e ronzini. Il New York Times in occasione della sua morte scrisse che era stato «forse il miglior corridore da lunghe distanze di sempre, di sicuro il più sgraziato».
Zatopek, dalla sua, ribatteva che «l’atletica non è il pattinaggio sul ghiaccio: non serve sorridere e fare delle belle facce per i giudici»; una volta smesso di correre si avvicinò a Dubcek e alle sue posizioni più libertarie che portarono alla Primavera di Praga. Con l’arrivo dei sovietici fu esiliato, punito e messo poi a fare lo spazzino. Si racconta che le persone per strada si fermassero ad aiutarlo a raccogliere la spazzatura, il grande Zatopek, la locomotiva umana. Fu riabilitato, ebbe qualche incarico di prestigio, fece una pubblicità dai toni insensati per Adidas. E la migliore risposta alle osservazioni dei commentatori la diede lui, riconoscendo quanto dicevano pur mantenendo il proprio orgoglio: «Non avevo abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo». Che poi non era poi nemmeno così vero. Il grande Zatopek.