minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 90

Novanta. La paura. No, a parte la smorfia, nessuna paura, al momento. Perché i dati sono sempre in calo e se i contagiati sono in aumento è perché sono stati fatti molti tamponi. Quindi, tutti tranquilli. Due parole sulla situazione negli Stati Uniti perché servono: da noi tutti indignati per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia americana e il primo pensiero che viene da fare – sia per il colore della pelle che no – è che al primo barcone con cinquanta, dico cinquanta, persone che naufraga nel Mediterraneo i commenti saranno, invece, che facevano meglio a stare a casa loro; a Buffalo la polizia, che immagino dovrebbe essere piuttosto cauta vista la situazione, non trova di meglio che spingere con violenza in terra un settantacinquenne che si era avvicinato gentilmente. Il tutto in favore di video, ovviamente. L’operazione-simpatia della polizia americana subisce un’altra battuta d’arresto. Suggerimenti per i prossimi giorni, per la polizia di ogni stato americano ma preferibilmente di quelli centrali: prendere a manganellate un panda; marciare in formazione sul corpo di un unicorno strappandogli l’arcobaleno; sparare proiettili di gomma su una donna paraplegica in fuga; urinare sulla torta di mele di nonna Papera; sparare lacrimogeni su una folla di monaci nani. Vabbuò, non c’entra molto con la pandemia ma è uno dei temi del momento. I fascisti ultrà nel frattempo scendono a Roma per fare casino e poi, son fascisti e pure ultrà, non trovano di meglio che pestarsi tra loro, coinvolgendo poi giornalisti e ovviamente polizia. Ma da noi la polizia non ama uccidere le persone di destra e, infatti, non accade. Felicitazioni, per Cucchi e Aldrovandi fino a Pinelli ne parliamo in altra sede. Pandemia, d’accordo: se ripresa dev’essere, sia; se riapertura dev’essere, sia. E così è: io e il mio amico F. usciamo a cena, andiamo in un posto che ci piace, in collina, il cielo la luce la brezza la temperatura la distanza da tutti gli altri tavoli il tramonto le stelle sono tutte perfette, ordiniamo cose buone ma soprattutto carnazza, che l’ultima carne mangiata per me risale al 7 marzo, la sera della Lombardia zona rossa. Un paio di affettati nel mentre ma niente di più. Carnazza e vino, dunque, e all’idea di uscire a cena all’aperto come si faceva un tempo erano addirittura giorni che ero un po’ emozionato. Per tradurre, poi, l’emozione in fatti concreti, ci siamo scolati due bottiglie in due e amen, lode alla riapertura. Quando prenoto, al telefono dal ristorante mi ringraziano almeno tre volte, sono davvero prostrati per essere così cerimoniosi. Una volta lì i posti occupati sono ben meno della metà, ovvero della capienza prevista dalle norme, non si può dire che le persone si siano rituffate ai ristoranti. Così, ci spiega uno dei gestori, riescono a coprire le spese – dipendenti, costi fissi, fornitori – e forse forse il bilancio va a pari. Con le tasse no, quelle non ci stanno. Non dico nulla, non faccio notare che lo stesso discorso la loro categoria lo faceva anche prima ma apprezzo molto i toni e i modi, sono gentili, rispettosi e modesti, anche nel raccontare le proprie difficoltà. Prima non era così, prima erano dei gradassi tremendi e si davano di gomito sull’evasione fiscale. Finita la cena, poi, andiamo a vedere le lucciole in collina ed è un momento strepitoso, emozionante e pieno della magia della natura nella sua piena espressione, complice poi una luna da competizione la giornata finisce in gloria. Grazie.

È proprio finito il lockdown. Ormai è inutile opporsi, i comportamenti collettivi sono un misto di abitudine e di volontaria ricerca di normalità, la cautela va ogni giorno a farsi friggere un pochino di più. Se razzoliamo noi, inutile predicare bene alle persone cui teniamo, anche se ovviamente le situazioni non sono esattamente le stesse e il grado di rischio nemmeno. Come andrà? Nessuno lo sa, ma per davvero: non c’è alcun elemento oggettivo per poter fare previsioni, chi parla di «seconda ondata» lo fa sulla base dell’esperienza dell’influenza, probabilmente fa pure bene ma non ci sono sufficienti elementi per poterlo affermare con sicurezza; chi parla di indebolimento del virus lo fa a sproposito, lo dico con un discreto grado di certezza; chi dice che il virus non c’è mai stato, ecco, quelli parlano perché viviamo in tempi democratici e io spesso ho parecchi dubbi su questo. L’Austria, nel frattempo, non riapre i confini con noi e ben se ne guarda, la Svizzera pure, tranne che per i lavoratori transfrontalieri, ai quali però è proibito fare acquisti in Italia, la Francia scoraggia, alcune nazioni impongono la quarantena a veneti, piemontesi, lombardi e spesso emiliani, altri no. Insomma, un certo caos negli spostamenti, cosa che io tengo d’occhio perché vorrei raccontare l’Europa in tempo di covid-19 e avrei desiderio di scollinare le Alpi in direzione nord, appena possibile, e andare di fondaco in fondaco. Con passaporto libanese, probabilmente, e bandiera liberiana, perché al momento la mia residenza suscita ansia a livello planetario. Forse solo Wuhan vince ma noi siamo a poche incollature.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 90

  1. Che fare?

    Oggi i nuovi casi di contagio sono tornati ad aumentare, 89 solo a Brescia, ma ecco che arriva puntuale la spiegazione: sono aumentati i tamponi (da 3.400 a 19.400: poffarbacco!) e se si guarda al rapporto tra tamponi effettuati e casi di positività riscontrati si è scesi da 1/41 a 1/48. È persino inutile tornarci sopra: più sono gli indicatori disponibili, più è probabile che – a meno di catastrofi – ce ne sarà sempre almeno uno incoraggiante, da offrire al pubblico per rassicurarlo o quanto meno per temperare la delusione. Ovviamente, il giochino è abbastanza scoperto e potrebbe benissimo funzionare anche all’opposto – per istillare preoccupazione invece che placarla –, ma in questo momento il vento tira in una direzione ben precisa e allora via, avanti verso la fiducia e la ripresa.
    Parlando con un amico, col quale condivido quotidianamente queste riflessioni, concordavamo ieri sera sul fatto che nell’attuale contesto, a discutere di simili tematiche, ci si trova spesso davanti un muro di gomma. La gente, in un modo o nell’altro, ha già deciso come comportarsi e allora o è d’accordo con te senza nemmeno dover discutere del perché, o, in modo altrettanto netto, è in disaccordo e non è più tanto disponibile a discuterne i motivi. Instaurare un confronto sul tema si rivela un atto intrinsecamente molesto, al pari di quanto lo sarebbe chiedere spiegazioni per l’altrui fede in dio.
    Mi interrogo sulla mia possibile ritrovata mobilità, sul fatto che prima o poi forse converrà fare un salto in Emilia, non foss’altro per recuperare alcune cose da casa a Bologna o dallo studio in università a Modena. Certo, il desiderio di cambiare aria c’è, e per forza dopo tutto questo tempo, a maggior ragione rispetto a mete che da tempo fanno parte di un rituale di quotidianità bruscamente interrotto a fine febbraio. Al tempo stesso, l’idea di tornare in questi luoghi con delle limitazioni, giuridiche e soprattutto mentali, un po’ mi disturba e mi trattiene: non sarà meglio aspettare un altro po’? Cosa avrei davvero da fare in questi posti, nelle attuali condizioni? Mi sentirei davvero a casa mia o sarei come uno straniero che attracca nel suo fondaco e che poi trascorre lì tutto il suo tempo? Il gioco vale la candela? Già il fatto di pormi questi interrogativi mi induce a procrastinare sine die il momento della scelta. Non c’è niente di peggio che andare a una festa quando non si è dell’umore adatto.
    Un amico mi raccontava ieri di sua moglie, insegnante in una scuola elementare emiliana, che ha dovuto ricondurre a più miti consigli una rappresentante di classe che voleva organizzare una festa di fine anno, con tanto di mega vaschetta di gelato da condividere tra gli alunni. All’ovvia obiezione della maestra che faceva presente come niente del genere fosse possibile per via del divieto di assembramento e del rispetto delle più banali regole igieniche, ha corrisposto lo sguardo sbigottito della mamma-rappresentante, che beatamente ha replicato: “ma scusi, tanto non è tutto finito?”. Ecco, appunto.
    No, credo che la mia dimensione sarà ancora per un po’ quella dei piccoli passi, di una ripresa graduale della socialità in ambienti il più possibile protetti, di qualche cena all’aperto in luoghi selezionati, di notturne passeggiate in un mare di lucciole e soprattutto di progressivo distacco dai mezzi di non-informazione, ormai tornati pericolosamente vicini ai loro consueti standard. Forse la “normalità”, di cui tanto si parla, per me è proprio questa.

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