minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 81

Un aspetto di cui si parla poco – in realtà sono più aspetti, eterogenei – è ciò che questa situazione limite, la pandemia, la reclusione, la chiusura, determina. Se è bene organizzare la memoria, da un lato, raccogliendo i materiali che caratterizzano questo periodo (mascherine, disinfettanti, guanti, tute, respiratori, manifesti, fotografie, avvisi eccetera. vedi 30 aprile), dall’altro bisognerebbe anche prendere in considerazione gli aspetti, personali e collettivi, che sono stati investiti e messi sotto pressione dal lockdown, dalla malattia, dalla distanza dalle altre persone: una situazione estrema, per molti versi paradossale, come quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, esercita una spinta formidabile in tutte le direzioni e preme, preme, preme fino a disarticolare condizioni già traballanti e rende più complessi contesti già di per sé difficili. Penso, per esempio, alle violenze domestiche (semplifico riferendomi solo a quelle degli uomini sulle donne, la gran parte), donne già vittime di abusi o percosse da parte dei mariti e compagni che si sono trovate recluse – in questo caso il termine è ancora più denso di significato – in casa con il loro aguzzino. Oltre alla difficoltà della convivenza, l’impossibilità di chiedere e ricevere aiuto, di denunciare, di prendere le distanze. Non a caso, in questi mesi le denunce sono crollate, è difficile fare una telefonata ai carabinieri o alla polizia in queste condizioni e il rischio di essere scoperti è molto alto. So che sono stati attivati dei protocolli di sicurezza per cui è possibile chiamare una farmacia qualsiasi e chiedere «una mascherina 1522», sarà poi il farmacista ad attivarsi per avvisare chi di dovere. Ma è un passo difficile in un quadro normale di cose, figuriamoci ora o nelle settimane scorse. Dall’inizio della pandemia, la media è stata un femminicidio alla settimana che è un dato persino inferiore alla media normale. Anche le violenze psicologiche hanno avuto la loro parte, è difficile immaginare un contesto peggiore da questo punto di vista di una reclusione forzata. Un’amica, arrivata finalmente al passo di lasciare il marito e andare a vivere con i bambini da un’altra parte, si è trovata imprigionata in casa a cose già fatte, mancava solo il trasferimento, in circostanze ancor più difficili di prima. Senza arrivare a situazioni così drammatiche, la casistica legata alle abitazioni è poi varia: c’è chi aveva deciso di cambiare casa e si è trovato a metà del guado, con due affitti da pagare e un trasloco fatto solo in parte, né di qua né di là; chi, come me, si è trovato rinchiuso in una casa che doveva essere di transizione con solo due paia di mutande, un libro e poco più per quasi tre mesi (iddiobenedicaicomputer), niente di grave; chi ha dovuto optare per soluzioni intermedie pur di dare un qualche tipo di compagnia ai figli unici; chi è rientrato precipitosamente in Italia pur di trascorrere vicino ai genitori anziani un periodo che si preannunciava, ed è stato, difficoltoso, mettendo in conto di non tornare per parecchio. Un’altra situazione limite messa a dura prova dalle condizioni imposte dalla pandemia è quella dei malati di qualsiasi patologia non covid-19: nell’arco di pochissime settimane si sono trovati abbandonati. Gli ospedali sono stati rapidamente convertiti, tutti i reparti non fondamentali sono stati chiusi o riadattati, tutti gli appuntamenti annullati (non spostati, annullati), i medici riallocati, i controlli sospesi. La scala delle priorità è stata riformulata e chi non fosse contagiato o ferito al punto da richiedere la terapia intensiva è stato parcheggiato in attesa di tempi migliori. A dire il vero, anche i malati di covid-19 non gravi hanno sperimentato l’abbandono, visto che nei casi più fortunati hanno ricevuto assistenza telefonica dal medico di base e basta, il resto ai familiari, ammesso che ce ne fossero. Mi riferisco ai pazienti con patologie serie, che richiedono controlli serrati, soprattutto agli oncologici, che si sono trovati all’improvviso al di fuori di quei protocolli che, invece, servono così tanto a gestire la malattia dal punto di vista medico e psicologico. Saltati tutti i controlli, le visite, e pure le terapie in molti casi. E quando si parla di chemioterapie, per esempio, il frangente è davvero difficoltoso, perché oltre al dato di sé della mancanza della terapia si porta dietro incertezza e insicurezza spaventose. Per non parlare, poi, di tutti coloro che a casa ci sono morti, di malattia, di vecchiaia, di entrambi, senza avere l’assistenza piena che avrebbero meritato, circondati solo dall’affetto dei propri cari nelle situazioni più felici. Ammesso che la situazione negli ospedali vada migliorando, ci vorrà molto tempo per tornare alla normalità delle cose, anche per un giusto timore prudenziale di smantellare le strutture senza essere certi che vi possa essere una seconda ondata di contagio. A un’amica che doveva fare una risonanza urgente, tre settimane fa, è stato detto non solo che la cosa sarebbe andata per le lunghe ma che era del tutto impossibile ipotizzare una data, essendo saltati anche i calendari e, in certi casi, i reparti stessi in cui fare gli esami. Buona parte delle visite, oggi, si fanno fuori dagli ospedali, che sono considerati, ancor più del solito, luoghi malsani per tutti coloro che non sono contagiati dal covid-19.

Il New York Times è uscito con una copertina che sarà ricordata: sei colonne di brevi necrologi per segnare il raggiungimento dei centomila morti negli Stati Uniti. È stata una scelta voluta, per mettere un punto e creare un’immagine che si fissi nella memoria collettiva. La stampa americana, meritevole, ha questa consuetudine da decenni, penso per esempio alla copertina tutta nera di Spiegelman per il New Yorker dopo l’attentato alle torri gemelle, ma se ne potrebbero citare decine di casi. In questo caso, oltre alla memoria, il segnale è per il loro presidente megalomane che, come un Fontana in scala, continua a ripetere di aver gestito al meglio tutta la situazione. I fatti dicono ovviamente un’altra cosa. In Italia, invece, in cinque aree non si sono verificati nuovi casi positivi (Marche, Umbria, Valle d’Aosta, Basilicata e Bolzano) mentre in nove regioni non ci sono state vittime. Infine, per restare alle polemiche sugli assembramenti, a Milano e in altre città sono state emesse ordinanze che vietano l’asporto degli alcolici, che limitano gli orari e che impongono la sedia per consumare l’aperitivo. Invece di prendere provvedimenti per alcune zone delle città che da sempre danno questo tipo di problemi, come dicevo l’altro ieri, per esempio il Gianicolo a Roma, o piazzale Michelangelo a Firenze, colpiscono indistintamente e vengono a rompere le palle a me, con la mia birretta all’aperto in una via periferica a distanza di mezzo chilometro da chiunque altro. Va bene, gaudeamus anche di questo.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 81

  1. Periodo che vai, abitudine che trovi

    Continua inesorabile, talvolta in modo lento talaltra in maniera abbastanza repentina, il cambio di mentalità e di abitudini in questa incerta stagione del covid. Fino a poco tempo fa andavano moltissimo di moda i teleaperitivi e le videochiamate tramite skype, zoom, google-meet e chi più ne ha più ne metta. Ora sono divenuti una totale rarità. Va bene, si dirà, adesso ci si può vedere e quindi non ce n’è più bisogno. Ma non è esattamente così. Intanto, alcune persone, tra cui ad esempio anch’io, finora non hanno abbassato troppo il livello di guardia ed evitano ancora il più possibile le occasioni conviviali non controllate, tra cui appunto gli aperitivi (soprattutto quelli in gruppo e al chiuso) sono in cima alla lista. E poi ci sono, e ci saranno sempre, persone che non riesci a vedere di persona – vuoi perché sono in un’altra città, vuoi perché diviene troppo oneroso uscire di casa – e con le quali tuttavia avresti piacere a brindare e a fare due chiacchiere. In tutte queste circostanze l’aperitivo telematico avrebbe tuttora una sua evidente utilità, del resto egregiamente sperimentata nel periodo del lockdown. Eppure, adesso proporre una cosa del genere, me ne rendo conto io per primo, suona inevitabilmente più “strana”: è tornata ad essere un surrogato inappagante e persino un po’ imbarazzante, anche se onestamente proprio non dovrebbe.
    Altra differenza, stavolta di ordine positivo. Vi ricordate quando, prima che partisse il casino vero qui in Italia ma dopo che era già scoppiato in Cina, progressivamente i negozi dei cinesi (a dire il vero: di tutti gli asiatici), in particolare i ristoranti, avevano chiuso le serrande perché per un verso non ci andava più nessuno e per altro verso temevano (giustamente) atti di vandalismo e stupida “rappresaglia”? Bene, ora hanno riaperto, in tutta tranquillità e la gente è tornata beatamente a ordinare riso cantonese, gamberi al vapore e deliziosi (?) piatti di sushi e sashimi, come se niente fosse (lo si può facilmente osservare anche solo confrontando i dati di justeat: nel lockdown c’era un solo ristorante da asporto per questi prodotti su tutta Brescia, oggi si è ritornati pressoché ai livelli pre covid). Abbiamo rivalutato lo scrupolo igienico dei cinesi? Ci fidiamo di più perché ormai siamo “fratelli in covid”? Non saprei. Personalmente tendo a credere che, dopo un po’, “fotte sega”: si tende semplicemente a rimuovere e a riprendere gli schemi usuali. Certo è che impressiona notare quanto l’umore e l’istinto spesso ci condizionino più della razionalità, in un senso o nell’altro.
    A tal proposito – cioè a proposito dell’incerta razionalità che guida le nostre azioni e valutazioni – continua l’altalena dei dati in Lombardia, che stanno avendo l’ennesimo andamento schizofrenico. Facciamo sempre più della metà dei nuovi contagi in Italia, ma va sempre tutto bene. C’è una spiegazione semplice per tutto, anche quando i nuovi positivi – come oggi a Brescia e ieri a Bergamo – raddoppiano in un giorno solo: è il frutto dei tamponi effettuati a chi era risultato positivo ai test sierologici effettuati dai privati nei giorni precedenti (quindi, quando si andava praticamente “a botta sicura”). A me sta benissimo crederci, ma siccome, ancora una volta, che questa sia davvero la causa è impossibile controllarlo con gli elementi a disposizione del cittadino, torna la solita domanda: facciamo a fidarci? Non lo dico mica per me, la mia fede in Fontana e Gallera è incrollabile, ma poi va a finire che c’è sempre qualche ente scienziologo megalomane, come oggi è accaduto con la fondazione Gimbe, che effettua uno studio nel quale si ipotizza, con dovizia di dettagli, che i dati in alcune regioni siano “aggiustati” per evitare spiacevoli chiusure. Calunnie, certo, sulle quali indagherà proficuamente la magistratura.

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