minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: sei, vecchie foto, stazioni di sosta, mani, grotte altrui, agnelli e belve

In una specie di bar vedo una fotografia. La didascalia dice: il fotografo Standhardt, il colono Andreas Madsen, i restanti sono escaladores, lago Viedma. È il 1959, probabilmente, e los escaladores immagino siano Maestri, Egger e Fava, al tempo del primo discusso tentativo al cerro Torre. A due di loro sono oggi dedicati un cerro e una torre, la salita più difficile di tutte.

Lungo la ruta 40, piccole casette al limite della baracca garantiscono la sopravvivenza lungo la strada, dal rasoio alla marmellata al paio di scarpe. Serve un tagliere con la faccia di Messi o un coltello appena appena sotto il machete? I soliti adesivi delle spedizioni ricordano gruppi di ogni nazionalità che con ogni mezzo sono venuti a vedere la fine del mondo. La più bella finora a Bajo Caracoles.

In questa fine del mondo, cui comunque manca ancora parecchio, l’umanità si è impegnata a sopravvivere fin dall’inizio. Una delle testimonianze più commoventi della volontà umana di lasciare un segno, di mostrare ai posteri una traccia di sé, sono las manos dipinte.

Fin dal novemilacinquecento avanti cristo le popolazioni indie locali Tehuelce dipinsero le tracce delle proprie mani sulle pareti rocciose protette da sole e acqua, usando cannucce per spruzzare la vernice attorno alle mani appoggiate. Ce ne sono di grandi, di piccine, con sei dita, pitturate con il gesso, bianche, con l’ossido di rame, verdi, di ferro, rosse, nere. Per migliaia di anni, una a fianco dell’altra, migliorando la tecnica con il tempo, fino a millecinquecento anni fa. Qualche guanaco, scene di caccia, lucertole, luna e sole accompagnano le mani. Emozionante e commovente insieme, quante vite, desideri, aspirazioni, rimpianti.

I canyons sono strepitosi e non hanno nulla da invidiare alla mesa centro e nordamericana. Un fiume sul fondo crea una strada verde, motivo della presenza qui delle popolazioni indie. A girare un po’, le mani sono dappertutto, bisognava muoversi e cacciare. E sfuggire al puma, tra l’altro.

In lontananza, le cime del San Lorenzo, quelle più alte della Patagonia, se non ci sono nuvole si vedono da ogni luogo. L’autista prima mette Mercedes Sosa, poi si rompe le balle e sentiamo Vasco Rossi.

Dalla Cueva de las manos scendo a Bajo Caracoles lungo la ruta 40 e poi la provinciale 39 fino a Hipólito Yrigoyen, nella provincia di Santa Cruz. È un villaggio non tanto ridente, ora noto come il lago che ha vicino, il lago Posadas. Un po’ per vedere il lago e un po’ perché da qualche parte bisogna pur dormire. Faccio un giro per il paese, un posto di polizia, un bar che fa empanadas, un paio di hoteles, per i turisti lacustri, è un reticolo di cinque strade sterrate per altre cinque altrettanto sterrate, ortogonali. In venti minuti le giro tutte, sistematico, con la solita sottile tensione per i cani randagi. A in certo punto ne esce uno di corsa verso di me abbaiando e mostrando i denti, mi irrigidisco non poco, per fortuna si intraversa, si ferma e poi va via. Qui tutti fanno spallucce sulla faccenda dei cani, noi europei facciamo fatica a gestire la cosa. Il tempo peggiora, comincia a piovigginare. Il lago Posadas è separato da un altro lago da una sottile striscia di terra, di là c’è il lago Cochrane, parte cilena, e lago Pueyrredón lato argentino. Questo è poco profondo, quindi azzurro, quello molto, blu blu blu. Un bel colpo d’occhio.

In fondo al lago una hacienda prepara l’agnello in croce, si capisce perché.

Per smaltire la sbornia d’agnello, devo camminare. Julian mi porta per le colline, senza sentiero tra i cespugli, fino alle pareti rocciose sulle quali non è difficile scorgere altre mani dipinte. Poi arriviamo a una specie di lago fatto di gesso sul quale con acuto istinto d’osservazione scorgo delle tracce.

Può essere una cosa sola: puma. Molto bene. Qualcuno dice per certo che siano vecchie, qualcuno dice che facendo rumore la bestia si allontana, qualcuno dice che così qualcuno cosà, stare fermi, saltare, secondo me vale il principio dell’orso: sentiamoci liberi di fare quel che ci va, tanto decide lui. E per non farci mancare nulla saliamo alla cueva del puma, toponimo che chissà perché, dentro ci sono ordinate delle ossa, costole e colonne vertebrali, dall’altra parte feci. Preciso, il puma. Poi, altre mani di chissà quando. Il tempo varia, sul lago piove, si vede. Da ore il telefono non prende, il meteo tocca farselo da soli. In peggioramento.


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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: sei, vecchie foto, stazioni di sosta, mani, grotte altrui, agnelli e belve

  1. L’orrore del semplice accostamento fra Mercedes Sosa e Vasco Rossi mi manda fuori di testa. Con le mie meno profonde scuse per i vascorossiani.

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