Dopo il provvedimentone di blocco delle telefonate moleste da numeri mobili, due settimane fa, direi che non solo non siano diminuite ma siano, anzi, aumentate. Almeno per me. Come per tutti, adesso arrivano da Belgio, +32, Francia, +33, Spagna, +34, vari tra cui Lussemburgo +351 eccetera. Ovvero tutti quei prefissi che fanno sembrare il numero chiamante quello di un cellulare italiano. Non c’è che dire, sono avversari di valore. Rompimaroni ma di una certa innegabile abilità.
Mi è capitato ieri sotto mano un mio vecchio post in cui mi felicitavo per essermi appena iscritto al neoistituito Registro delle Opposizioni, che ingenuità, che fiducia nel futuro, che speranza nell’avvenire. Avevo io e avevamo tutti, speranzosi di vivere in un mondo telefonico migliore. So com’è andata e lo sappiamo, è pure peggio perché almeno allora qualcuno lavorava, pagato da fame ma lavorava e se andava bene recitava in un film di Virzì, oggi chiama direttamente Skynet. Quel che mi colpisce è la data della mia iscrizione: 22 febbraio 2012. Quasi quattordici anni fa. Quattordici. QUATTORDICI. E non ero stato nemmeno tra i primi, l’avevo scoperto dopo qualche mese. Quattordici anni che abbiamo a che fare con questa iattura. E non basterebbe nemmeno proibire i contratti al telefono, che comunque…, perché l’ultima mi ha proposto un incontro con un incaricato. Vivo? Persona? Aspirapolvere robò? Chissà.
Se per il musicista le parole collettive sono tutte elogiative, e ci mancherebbe, l’uomo è meno noto. Animo fluttuante, spirito progressista, vero primo professionista indipendente nella musica, in definitiva uomo libero. Nel frattempo, lungo il 2025 le sue composizioni riconosciute come originali sono passate da 626 a 721, l’attenzione è alta, e finalmente la Serenade in C che si pensava scomparsa è riapparsa, riferiscono gli specialisti. Il suo Lacrimosa resta ineguagliato, va in direzioni che non ci si aspetta e poi invece risultano essere quelle più naturali. In merito all’uomo, cito lui citando me: capace di sontuosità musicali e di pensiero, «Viviamo in questo mondo per imparare e per illuminarci l’un l’altro» e di luminose verità, «Insomma, quando ci si è svuotati, la vita torna a sorridere». Quali siano le une e quali le altre, a ciascuno secondo.
Emil Zatopek, mezzofondista e maratoneta cecoslovacco, detto appunto per la sua abilità ineguagliata nella corsa e perché sbuffava, era noto anche per una certa qual poca grazia nel correre. Non tutto, le gambe andavano bene, era il torso che sbandierava qua e là, le braccia in giro, la testa dondolante e un’espressione in agonia perenne.
Czech athlete Emil Zatopek (L) during the Humanite cross country run. He won the event. (Photo by Universal/Corbis/VCG via Getty Images)
Ognuno corre come vuole e se uno, poi, come lui vince quasi qualsiasi gara a volte doppiando il secondo, ha evidentemente ragione di fare quel che lo faccia sentire meglio. Alle olimpiadi del 1952 a Helsinki vinse 5mila, 10mila metri e maratona mentre la moglie Dana vinceva l’oro nel giavellotto femminile, per dire. Lui disse di averla ispirata, lei rispose: «Davvero? Prova a ispirare qualche altra ragazza e guarda un po’ se riesce a tirare un giavellotto a cinquanta metri». Niente male.
Comunque, il motivo per cui sto scrivendo qui di Zatopek, il calzolaio socialista poi regalato alla corsa, è per le descrizioni che i giornalisti sportivi e commentatori ne diedero, vedendolo correre. Jean Echenoz scrisse: «procede in maniera pesante, scomposta, sofferta, a scatti. Non nasconde la violenza di uno sforzo che gli si legge sul viso contratto, irrigidito, stravolto, continuamente distorto da un rictus penoso a vedersi. I lineamenti sono alterati, come dilaniati da una spaventosa sofferenza, a tratti ha la lingua fuori, come avesse uno scorpione in ogni scarpa». Per Gianni Brera faceva «le smorfie più angosciose e rattristanti» e «pare vecchio slombato e pronto a crepare sul margine del prato come un ronzino esausto». Pierre Magnan scrisse che era «l’uomo che correva come tutti noi», che non è esattamente un complimento. Per molti altri, era l’uomo che correva peggio di noi, alcuni commenti sparsi che ho trovato qui scrissero: correva come «che è stato appena accoltellato al cuore», ahah, come uno «che sta lottando contro un polpo su un nastro trasportatore», come uno con «un cappio attorno al collo», che si dimena per liberarsene. Come «un pugile che combatte contro la sua ombra», come «uno che stia per fare il proprio ultimo passo». Ahah, polpi, scorpioni e ronzini. Il New York Times in occasione della sua morte scrisse che era stato «forse il miglior corridore da lunghe distanze di sempre, di sicuro il più sgraziato».
Zatopek, dalla sua, ribatteva che «l’atletica non è il pattinaggio sul ghiaccio: non serve sorridere e fare delle belle facce per i giudici»; una volta smesso di correre si avvicinò a Dubcek e alle sue posizioni più libertarie che portarono alla Primavera di Praga. Con l’arrivo dei sovietici fu esiliato, punito e messo poi a fare lo spazzino. Si racconta che le persone per strada si fermassero ad aiutarlo a raccogliere la spazzatura, il grande Zatopek, la locomotiva umana. Fu riabilitato, ebbe qualche incarico di prestigio, fece una pubblicità dai toni insensati per Adidas. E la migliore risposta alle osservazioni dei commentatori la diede lui, riconoscendo quanto dicevano pur mantenendo il proprio orgoglio: «Non avevo abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo». Che poi non era poi nemmeno così vero. Il grande Zatopek.
La riflessione sulle città fondate sui fiumi e soprattutto alle confluenze dei fiumi è una costante per me e man mano che ne scopro di nuove me le segno. Più esplorazione che riflessione, a onor del vero. Tra le nuove viste in tempi recenti, York fresca fresca, una gentile confluenza tra due placidi fiumi di campagna inglese, e ben più in là nel tempo Ratisbona che sorge nella parte centrale della Baviera alla confluenza del Danubio con il suo affluente Regen. Da cui il nome in tedesco della città, Regensburg. Entrambe le città sono notevoli, di origine romana, placide sui fiumi circondate da campagna gradevole e rilassante, quella tedesca ha un gran ponte, dato che il Danubio, per quanto nel suo alto corso, è bello largo.
La confluenza di York tra Ouse e Foss:
e quella di Ratisbona (Dieta!), la foto non è proprio precisissima ma metto solo le mie:
Aggiornamento grazie alle mie pensatone e ai contributi ricevuti:
Confluenze di tre fiumi: – Passau: Danubio, Inn e Ilz
Confluenze di due fiumi che ne generano uno nuovo: – Pittsburgh: Allegheny e Monongahela generano l’Ohio
Confluenze di due fiumi: – Belgrado: Danubio e Sava – Bressanone: Isarco e Rienza – Coblenza: Reno e Mosella – Duisburg: Reno e Ruhr – Gand: Leie e Schelda – Kaunas: Nemunas e Neris – Lione: Saona e Rodano – Magonza: Reno e Meno – Mannheim: Reno e Neckar – Montréal: San Lorenzo e Outtawa – Ratisbona (Regensburg): Danubio e Regen – Treviso: Sile e Botteniga (sub iudice, il Botteniga è lungo due chilometri) – Washington: Potomac e Anacostia – York: Ouse e Foss
Da questi ultimi aggiornamenti, ho imparato che è bello vivere in una città con un fiume, ancor più bello se i fiumi sono due e confluiscono attorno. Non l’ho imparato stavolta, è vero, ne ho però avuto conferma, ancora. York e Regensburg sono piccoline, piacevoli, ottimi posti in cui rilassarsi e andare a spasso per sentieri lungo i fiumi, farsi passare i bollori e respirare.
Questa guida sarà meno inutile di altre, e probabilmente meno allegra, perché conterrà indicazioni precise per compiere il viaggio sull’ultimo treno sovietico d’Europa, il Prietenia. Fedele alle mie funzioni di servizio, condivido: chi vorrà cogliere e andare ne avrà congrua ricompensa. Va da sé che se qualcuno usasse queste informazioni e poi facesse il viaggio senza tornare qui e raccontarlo, allora l’ingrata peste moldava lo colga nelle parti più molli.
Il passato, anche se passa, lascia tracce, magari flebili e per trovarle bisogna saper guardare ma ci sono. Spesso anche la storia lo fa e, in questo caso, anche la Storia, nessuno si senta offeso: un paese glorioso, ricco di idee e di speranze, di tensione all’uguaglianza e alla giustizia, a lungo proiettato verso un trionfo ideologico dell’avvenire e poi crollato miseramente sotto un’affannata corsa che non poteva vincere con le matite, azzoppato anche da corruzione e potere scellerato. L’URSS ha lasciato molto e molto è stato cancellato e rifiutato, per chi ne abbia voglia serve cercare, a volte un simbolo, un edificio, una via, una statua, un relitto, un luogo abbandonato. Stavolta, un treno. Ecco come fare un viaggio nel tempo e, con calma, molta calma, nello spazio. Garantisco soddisfazione per i cuori puri.
Le indicazioni utili, perché la storia del mio viaggio l’ho già raccontata. Servono tre giorni per fare bene tutta la faccenda ma anche due, per i frettolosi, possono bastare. Bisogna prima arrivare a Bucarest. Ci si può arrivare in molti modi, c’è anche un lungo treno diretto Bratislava-Brașov per gli amanti del genere, e se no non saremmo qui a scriverne, per chi preferisce il volo suggerisco di scegliere come punto di arrivo il minuscolo, antico e magnifico nonché sovietico – quindi in perfetto pendant con il resto del viaggio – aeroporto Băneasa Aurel Vlaicu, praticamente in centro a Bucarest, bello e comodo, rispetto a quello internazionale più a nord, anonimo come tutti i non-luoghi contemporanei. Wizz air tra alcune altre vola lì.
Da questo momento in poi e come impiegherete la giornata a Bucarest non è affar mio, se sarete davvero fortunati ci saranno i Ricchi e poveri in città, l’appuntamento è alla Gara de Nord verso sera, perché il treno parte puntualissimo alle 19:10. Com’è noto, serve un biglietto per salire sul treno e, soprattutto in questo caso, è scelta saggia possederlo ben prima di arrivare in stazione. Ecco dunque il modo più semplice: andare sul sito delle ferrovie rumene, quello dei collegamenti internazionali (Bilete trafic international) perché ci sono due siti, e acquistare online il biglietto da Bucuresti Nord a Chişinău. C’è solo il treno internazionale 402, il leggendario Prietenia, il treno dell’amicizia ed è proprio quello. Ciascun decida per sé, io suggerisco cuccetta – ci sono scompartimenti da uno, due e quattro – e crepi l’avarizia anche la prenotazione, che è meglio avere un posto certo. È un treno di lavoratori transfrontalieri che, a fine settimana, finiscono il lavoro in Romania, quindi in UE, dove si guadagna molto di più, quindi ci sono anche i sedili senza prenotazione.
Ma voi, come me, siete ricchi europei in vacanza alla ricerca dell’esperienza autentica e i circa centonovanta lei rumeni per cuccetta in scompartimento da quattro e prenotazione, trentasette euro e qualcosa, ve li potete permettere. E il più è fatto. Unica attenzione particolare: il biglietto, una volta acquistato, va attivato sul sito, in un tempo variabile tra i due minuti e le ventotto ore verrà generato un pdf e da quel momento il biglietto non sarà più rimborsabile. Per il viaggio basta la carta di identità di un paese UE, purché elettronica e valida per l’espatrio.
Una volta saliti, verrete dotati di un pacchetto contenente le lenzuola, sopra e sotto, una federa e un asciugamanino dal potere assorbente pari a quello di un asse. Tutto pulito, tutto bene. In caso perdeste anche solo uno di questi oggetti di proprietà delle ferrovie moldave, verrete deportati su una piattaforma petrolifera al largo del Mar Nero. Il mio amico R. non trovava più l’asciugamanino e ha visto la sua intera vita di prima scorrergli davanti agli occhi mentre io gridavo prendetelo, prendetelo. La cuccetta è dotata di materasso svolgibile, probabilmente dell’età zarista ma è comodo e fa quel che deve. Idem il cuscino. Il treno è splendidamente riscaldato a legna e carbone, ha dei bagni funzionali, è ancora lussuoso in ambito sovietico e nulla manca. C’è anche il vagone ristorante e non ho dubbi che molti viaggiatori, per intoppi di lingua, ne abbiano fatto la sola esperienza-base, ovvero birre, vodka e snacks. In rete si possono trovare numerosi viaggiatori che consigliano di portarsi del cibo a bordo, sostenendo che non ve ne sia. Fossero comunque anche solo vodka e snacks sarebbe già comunque più che soddisfacente, consiglio birre locali di qua e di là, come Timiṣoreana e Chişinău, per non fare torti a nessuno. Ma trivigante, fedele alle proprie funzioni di servizio anche stavolta, vi offre l’occasione di una cena meravigliosa: ecco la fotografia di quello che non saprete chiedere e non sarà segnato su alcun menu, che nemmeno esiste, il piatto sontuoso del Prietenia. Vi basterà mostrare la fotografia al cuoco gestore del vagone ristorante facendo uscire appena la linguetta dalla bocca o ruotando più volte il palmo della mano sullo stomaco e vualà, buona cena.
Se il cuoco gestore del vagone ristorante è una persona gentile, solida che assomiglia un po’ al Syd Barrett degli anni finali, come ha notato l’attento R., mescolato a una premurosa massaia siberiana allora è il nostro stesso, siete stati fortunati. Si può pagare con carta, quando il treno aggancia un qualche tipo di connessione.
Durante la notte verrete svegliati più volte, sia per il controllo di frontiera rumeno che per quello moldavo: un militare o simile o anche un tizio in tuta prenderà il vostro documento e sparirà nella notte per ore e ore, lasciandovi a chiedervi dove diavolo siate già prefigurandovi una lunga camminata nella notte per la pianura carpatica alla ricerca di un posto civile qualsiasi. Tornano, la maggior parte delle volte, non mi preoccuperei più del necessario. La sveglia più interessante della notte sarà invece poco dopo la frontiera moldava: con grande stupore e l’eccitazione dovuta a mille ruspe che scavano insieme, il treno verrà sollevato di circa un metro e mezzo con voi dentro, vagone per vagone, i carrelli sfilati da sotto e inseriti i nuovi carrelli con lo scartamento russo. A quel punto, il treno verrà fatto scendere e adagiato sulle nuove ruote a passo più largo. Beh, un’esperienza notevole che sarà molto difficile fare in altre occasioni. Io ancora me la sogno di notte, essere cullato dalla forza tecnologica sovietica su un treno sospeso.
Poi, dopo qualche ora di bella campagna moldava, l’arrivo a Chişinău; previsto per le nove meno un quarto, più facile sia due ore dopo, Ma cos’è il tempo a fronte dello scorrere potente delle forze della Storia? Chi siete, voi, io, per pretendere puntualità da cose molto più grandi di voi, noi? Infatti. Dalla capitale moldava, che merita comunque del tempo, sarà poi facile prendere un volo per una destinazione qualsiasi, è un aeroporto internazionale che offre molte tratte ed è facilmente raggiungibile in autobus. Soldi? Non è mai stato necessario cambiare o usare contanti, nemmeno ai tanti baracchini del caffè per strada, né in Romania né in Moldavia, quindi senza accollarsi monete da smaltire alla fine. Unico momento: sull’autobus a Chişinău, nessuna macchinetta per i biglietti, abbiamo pagato la signora controllora con degli euro, probabilmente dieci volte il costo effettivo, per avere in cambio un pezzo di rotolino di biglietto e un’espressione infastidita. Tanto ci avrebbe considerati dei ritardati in ogni caso, già si vedeva, niente di compromesso. Pernottamento? Se volete l’esperienza postsovietica completa, e noi la volevamo, essendo i leggendari alberghi Cosmos e Național chiusi definitivamente, come tutta la catena Intertourist sovietica, la soluzione perfetta è il Chișinău Hotel, splendido esempio rimasto di ospitalità sovietica. La prenotazione dal sito non funziona, probabilmente si può anche prenotare sulle piattaforme di ospitalità, io ritengo che comunicare con la reception sia il modo migliore e così abbiamo fatto: mail all’hotel in inglese (hotelchisinau@mail.ru), vi risponderanno solo ‘OK’ a ogni domanda ma gli accordi saranno presi. Cinquanta euro a camera doppia per una radiosa, spumeggiante e del tutto soddisfacente esperienza socialista. Una cosa essenziale? I tappi per le orecchie. R., non ti ringrazierò mai abbastanza. In caso un occupante (un’occupante) di una cuccetta del vostro scompartimento abbia, diciamo, qualche difficoltà di respirazione e non ve la sentiare di sopprimerlo/a. Credo sia tutto, dopo aver segnalato l’ottimo racconto dello stesso viaggio di R., per chi avesse voglia. Più di così, vengo a casa vostra e vi cucino una plăcintă. Buon divertimento.
Vicino a Ravenna c’è un paesello di duemila e rotti abitanti, San Pietro in Vincoli.
Tra la Conad verso Forlì e il campo di pomodori verso Cesena, la chiesa di San Lorenzo in Vado Rondino, più anticamente pieve di San Lorenzo in Vado Rondino, nota anche come chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli, è nota poiché contiene una delle sculture più famose del mondo, il Mosè di Michelangelo:
Migliaia e migliaia sono i turisti che ogni anno si recano a San Pietro in Vincoli in provincia di Ravenna per vedere il gruppo scultoreo della tomba di papa Giulio II, che tanti tormenti diede al suo autore Michelangelo, e ammirare la nobile ieraticità del Mosè. La raccolta di fotografie su gugolmaps, caricate dai turisti entusiasti, rende bene la curiosa relazione tra un esterno da chiesa provinciale, addirittura da diocesi più che locale, in forme romaniche e l’interno sontuoso di basilica antichissima paleocristiana rivista in forma rinascimentali magnificenti, degne di una grande basilica romana. Senza dimenticare il pomodoro, tipico frutto delle campagne circostanti.
Non manca, tra le immagini, tra la BMW del Pistozzi e la vigna dei Montanari, il palazzo dei Borgia, vera gloria locale, la teca che contiene le catene – i vincula del nome, appunto – e il trattore New Holland T7200 di Tino Benazzi, noto a tutti in paese. È proprio vero che l’Italia è un museo diffuso.
Gia alcune incertezze, lo spazio dopo l’apostrofo, l’accento-apostrofo, annunciavano il disastro, poi puntualmente pervenuto. Nemmeno il dubbio tra “efficace” ed “efficacie”, perlomeno. E stampa e attacca tutto e poi è efficiace.
Se l’obbiettivo era dunque celebrativo di coloro che sono tutela dei cittadini, presidio delle istituzioni, difensori della patria mi sento di certificare che non sia stato raggiunto.
Il volto ovale, il baffo cartoonesco, il braccio snodabile, la gamba tagliata, l’otre infiammato, la legnosità complessiva rimandano più a Pinocchio – e poi ti dichiaran pazzo – che all’Arma sugli attenti, nell’esercizio delle proprie funzioni. Certo, dovrebbero essere in coppia, due almeno, come le migliori barzellette raccomandano: uno fa una cosa, l’altro l’altra. E in due, fanno uno. Ma anche per la scorta, uno di qua e uno di là. Tra l’altro, oltre ad avere fattezze da disegno, questo carabiniere sembra pure di cioccolata, verrebbe voglia di dare uno sgagno. Che non sta bene, a un rappresentante dell’Arma. Dunque, nella mia bidecennale ricerca sull’estetica e la retorica patria applicata ai monumenti, più che altro ai caduti, questo momumento non si direbbe riuscito. Dal mio punto di vista personale, invece, riuscitissimo.
Questo è il sepolcro di Beda il venerabile. Dopo diverse disputazioni, la spuntò la cattedrale di Durham e da allora il venerabile pare stia qui.
Riuscì persino a far parlare le pietre, il venerabile B., attento e curioso alle cose della vita e dopo essa, sapiente e mai pomposo. Ma ancor di più ti piacerebbe la cattedrale che lo contiene, dritta sul fiume al punto che la facciata si vede solo da lì e dalla riva opposta. Un luogo che si accorda allo spirito, nonostante le dimensioni monumentali, quando ancora – pre-controriforma – la Chiesa e la vita si parlavano e si capivano.
A Newcastle c’è un castello, ovvio, visto che si chiama così. La cosa che mi fa ridere è quando bisogna nominarlo.
Il Newcastle castle, il Niucàssol càssol. Scusi, lei sa dove sia il?
Che, poi, come ho avuto modo già di raccontare, è stato proprio fatto a fette dalla ferrovia. Praticamente due Niucàssol càssols.
Sembra una filastrocca di Rodari, al castello di Nuovocastello… O, anzi, quasi Edward Lear, un limerick: c’era un castello a Nuovocastello / che era alto e certamente molto bello / il treno l’aveva diviso a metà / che per la cosa rideva tutta la città / povero quel castello a Nuovocastello.
facciamo 'sta cosa
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