minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: tre, Chişinău

Il treno completa la traversata e io sono nella mia nona ex-repubblica sovietica: la Moldavia. A lungo principato autonomo, poi tributario dell’Impero ottomano, venne spartita nel 1812 fra turchi e russi – la Bessarabia – e austriaci – la Bucovina -; nel 1918, entrò a far parte del Regno di Romania, nel 1940 occupata dall’Unione Sovietica, temporaneamente da tedeschi e italiani durante la guerra, poi reintegrata nell’URSS e trasformata in una Repubblica Socialista Sovietica. La Bessarabia meridionale, o Bessarabia storica, fu assegnata alla RSS Ucraina, fu indipendente dal 1991. Vicende travagliate, per nulla risolte oggi: come la Georgia con l’Abkhazia e l’Ossezia del sud, la Moldavia non controlla un pezzo del proprio territorio, la Transnistria, autodichiaratasi indipendente dall’URSS persino prima della Moldavia stessa ma non riconosciuta e al contempo protetta dai russi e governata da un regime molto restrittivo. I moldavi la chiamano “Unità amministrativa della riva sinistra del Dnestr”. Ho terminato in questo momento di leggere Back in the USSR. Heroic Adventures in Transnistria di Rory MacLean strabuzzando più volte gli occhi, leggendo delle posizioni filorusse transnistriche che considerano gli ucraini nazisti, esatto e attenzione: al 97% della popolazione, e Putin il restauratore del potere russo, intendasi imperiale, cioè russo non sovietico, e delle ingerenze della Sheriff, una holding padrona di tutto, nell’amministrazione del paese. Per non parlare dei transnistrici che vorrebbero riconosciuta anche l’indipendenza linguistica, ovvero la lingua transnistrica. Peccato sia identica al moldavo e, quindi, al romeno.

L’arrivo in stazione a Chişinău è davvero caratteristico nelle forme di un mercatino di vestiti e oggetti nella migliore tradizione sui marciapiedi, con lenzuola a far da banco: i grandi classici, attrezzature fotografiche, ottiche, per misurazione, adesso informatiche dal mouse senza rotella a schermi improbabili, oltre a vestiti che presuppongono un inverno rigido in arrivo. Dei tre grandi alberghi sovietici in città, due sono abbandonati, il Cosmos e il Național (ex Intourist), e uno resta, il Chişinău, ovvio sia il nostro. L’arcigna signora alla reception è un’altra pietra angolare sulla quale è stato edificato il socialismo, si racconta abbia vagamente sorriso una volta nel 1974 e poi mai più; ancora prima di presentarci sa chi siamo e dove dobbiamo andare, non ci rivolge mai lo sguardo. È evidente che consideri il suo sottoposto un coglione, come considera noi, del resto. Il ‘coglione’ è più che altro un uomo con delle incertezze tipo la cortesia e in italiano ci dice di aver fatto il badante a Orvieto, «un sacrificio» lo definisce e lo posso ben capire. La reception, coeva, mi fa sentire subito a casa.

Memorabile il cartello appeso al vetro che dice, in inglese, per avere acqua calda in bagno è necessario aprire entrambi i rubinetti di lavandino e vasca verso il rosso e lasciar scorrere l’acqua per dieci-venti minuti. Davvero.
Dieci-venti minuti. La città, grande di circa settecentomila abitanti, un terzo del paese, è sviluppata lungo una strada principale e quella doveva essere, almeno fino ai russi, la struttura generale; ortogonalmente si dipartono le varie zone della città, a est la parte più residenziale ed elegante, con università stile-politecnico sovietico e magnifico lago, a ovest la parte più rurale, un tempo, e ora in fase di ampia espansione edilizia come a nord e sud. Impressionante il numero di condomini in costruzione o recenti, evidentemente l’inurbazione dev’essere poderosa. Tra le case conservate, poche, simili in tutto alla Romania rurale orientale, più che a quella austroungarica occidentale, quella di Puškin, che vi passò del tempo tra 1820 e 1823, percependone la perifericità e l’isolamento – scrisse: «Oh Kišinev, oh città oscura! […] Maledetta di Kišinev, la lingua non si stanca mai di insultarti!» innescando la reazione dei locali, di cui si fece portavoce il poeta e scrittore Vasile Alecsandri che rispose prontamente: «Sei più nero degli zingari, / tu che hai mendicato da noi per anni, / tu che sei stato accolto / e che non ci hai detto neanche “grazie”», dandogli infine del «porco». Never be rude to a moldovan. Tra gli edifici di epoca sovietica, il circo di Stato risalta sicuramente per bellezza, è magnifico, e per funzione.

Bisogna dire sempre grazie ai moldavi – a tutti in realtà – e così facciamo. Ciò nonostante, salta all’occhio la differenza di trattamento ricevuto da persone con una funzione, la receptionist, la controllora sull’autobus, le venditrici al mercato, la bigliettaia al museo, negozianti varie, quasi tutte donne ora che ci penso, gelide e con sguardo irritato – sarà perché noi uomini? – e invece l’impressione di simpatia generale ricevuta in giro, corroborata anche dall’incontro mattutino con A. e V., giovane e vitale coppia chisinausina con cui è stato un piacere far colazione con caffè e porchetta e chiacchierare di viaggi e di fatti moldavi.

Di soddisfazione la visita al Muzeul Național de Artă, qui sotto un bell’autoritratto serio di Boris Nesvedov, di nascita ucraina. C’è molta arte di impronta russa che non conosciamo, anche il museo di Yerevan era stato pieno di interessanti scoperte, la mostra a Chemnitz di questa primavera illuminante in questo senso.

La cosa che balza più agli occhi a Chişinău, a essere onesto, è la quantità di studi dentistici privati, tra quelli apparentemente più affidabili ai sottoscala che nemmeno con una Colt puntata alla testa. Non escluderei che vi si contribuisca parecchio anche noi, come popolazione italiana, con viaggi della speranza da otto impianti in un pomeriggio, per la sola ragione di risparmio presunto. Ma uno ogni strada, davvero, che probabilmente a ben cercare le lauree saranno stampate in serie, piuttosto ridicolo anche perché non ho notato sorrisi particolarmente smaglianti nei moldavi in generale. Oddio, correggo: nelle ragazze giovani sì, bianchi e allineati, perché tra unghie, cosmesi, capelli e vestiti sono sempre collocate tra l’impeccabile, meno, e l’estetica contemporanea tra Drive In e la Russia attuale di qualche moglie di oligarca. Forse una parte degli introiti dei dentisti viene da lì.

Con un’ottima plăcintă, anzi una ancor più tipica plăcintă cu varză – una focaccia ripiena buona e tipica dalla Serbia a qui e sì, l’etimo con l’italiano è proprio quello, una cosa che ne contiene un’altra – sul lago Valea Morilor, ex Komsomol, all’ombra di una bella e paterna statua di Lenin tra le poche rimaste, consumiamo il resto di una giornata con un clima meraviglioso in una città tutto sommato piacevole e accogliente, con elementi interessanti per un breve soggiorno senza dover essere per forza appassionati dello sfascio ex-sovietico, come me e R. La prossima volta, perché potrebbe ben essercene una, visita a Tiraspol, capitale diciamo della Transnistria, e visita ai Gagauzi, una popolazione turcofona di fede ortodossa concentrata nel sud del paese. Magari farò una guida di dettaglio all’uso del treno Prietenia, chissà, grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: due, il treno magico del tempo

Un missile lanciato nelle piane carpatiche, un’idea socialista scagliata nel futuro, una capsula proiettata nello spazio e nel tempo, cioè nel tempo eccome, nello spazio non tanto, con i suoi trentacinque chilometri all’ora di media: è il Prietenia, il treno che stiamo per prendere e che costella i miei migliori sogni di pianura ex-sovietica da molte notti.
Ogni sera, alle 19:10 dalla Gara de Nord di Bucarest parte il treno notturno per Kyiv via Chişinău e così al contrario il giorno dopo e via così da decenni e, spero, per altri decenni. Il tempo è stato clemente con questo treno nel senso che è sì trascorso, e si vede, ma non è passato, nel senso che non è svanito: è lì, tutto da vedere. La politica con i propri simboli è ancora lì; l’attitudine al lavoro anche, quel modo tutto socialista non solo di non svicolare la fatica ma renderla anzi un momento nobile della vita e della giornata, sulla quale costruire un sistema; la tecnologia pure, perché è quella in ghisa che prima di deformarsi devono passare le ere. Eccoci qua.

All’annuncio del binario, il cinque, una folla ammandriata con valigie ponderose, trolley importabili, sacchetti di plastica intrecciata, borsine e ceste si lancia ai vagoni, probabilmente non avendo affrontato la spesa della prenotazione. Noi esitiamo, anche perché i vagoni non sono numerati e il nostro, l’uno, non è né all’inizio né alla fine, ma più o meno in mezzo. Non sarà l’ultimo dei misteri, ci sono cose che sa solo il capotreno e noi non siamo nessuno per obiettare. Non è un treno per deboli o malfermi o, men che meno, disabili, il primo gradino è sopra il ginocchio stando sulla banchina, allego foto all’arrivo a Chişinău con luce a dimostrazione.

Ma se la meccanica non aiuta, il socialismo non lascia indietro nessuno, e chi ha la gamba molla o corta viene aiutato con dignità e rispetto, perché alcuno rimanga indietro. Già capire quali siano le nostre cuccette non è banale, sia perché le targhette sono in mezzo a due scompartimenti, potrebbe essere di qua come di là, sia perché una delle nostre cuccette è già occupata da una ragazza, perplessa quanto noi dalla commistione di genere. Ma benedetta, visto che parli la lingua approfondisci dunque e scopri l’arcano. Lo fa solo dopo molti pensamenti e se ne va due scompartimenti più in là, vitdevuimen, dice. Giusto. Tempo cinque minuti e arriva uno dei nostri compagni di stanza ed è un giovanile lavoratore di frontiera moldavo che torna da una settimana in Romania a paga maggiore verso casa ed è, urrà, appestato come non mai, naso gola bronchi peste bubboni vari. Parla qualcosa di italiano, dobbiamo essere cauti nei commenti e discorsi e respirare il meno possibile di ciò che lui emette. Il capovagone ci consegna una bustina ciascuno che contiene una federa, un lenzuolo sotto e uno sopra, un asciugamanino, su ogni cuccetta c’è un cuscino e un materasso arrotolato che, come minimo, è servito alle truppe in difesa di Stalingrado. Siamo in estasi.
Il treno parte, sobbalzando come se i freni staccassero di botto, e prosegue con un curioso andamento, muovendosi in avanti e indietro nella direzione del moto, non tra destra e sinistra come ci si aspetterebbe. Il capovagone ci fa capire che dovremmo stare quieti nello scompartimento mentre noi percorriamo ogni spazio in lungo e in largo preda di entusiasmo beota per la novità e creiamo scompiglio nell’ordine delle cose con cui il socialismo procede per viaggi quinquennali. Fuori è completamente buio ma c’è sempre qualche luce artificiale che annuncia impianti di qualche tipo sparsi nella pianura carpatica rumena. Il corridoio di ogni vagone è coperto da un lungo tappeto tessuto appositamente, così come ogni scompartimento, ogni finestrino è contornato da tende beige molto spesse con il marchio delle ferrovie moldave, ogni vetro ha due bandierine colorate con i simboli moldavi, le cuccette sono in pelle bordeaux, c’è persino una manopola con su scritto радио, ‘radio’ in russo, c’erano anche sui nostri treni, e delle prese elettriche, chissà se abbiano mai funzionato. Il tavolino nel mezzo ha una tovaglia uguale alle tende. Tutto quanto descritto ha almeno vent’anni più di me, come minimo. Il nostro compagno di scompartimento si mette a dormire, sono le otto, e noi continuiamo a scoprire meraviglie che ci comunichiamo tutti eccitati.

Solitamente affido alle parole la descrizione di ciò che vedo, senza inserire fotografie che diano la percezione esatta, volendo bastanti le parole appunto, però stavolta farò un’eccezione per questo treno perché mi rendo conto che l’immaginazione spesso non possa raggiungere certe vette della realtà. Ecco dunque il corridoio del vagone, agghindato come detto:

Il tappeto del pavimento è ricoperto perché non venga sporcato, a mattina il capovagone lo rimuoverà quando raccoglierà le lenzuola, contandole tutte. E lo scompartimento, a quattro cuccette, il massimo ottenibile per mescolarsi il più possibile.

Mancano ancora molti gradini per il raggiungimento della meraviglia complessiva, vorrei dunque documentare il bagno, non troppo dissimile dai nostri, se non fosse per le indicazioni di water e lavandino.

Lo scarico è il pedale a fianco della tazza e per compiere l’operazione complessa dello scarico, in cui di fatto si ribalta il coperchio al fondo del water scaricando tutto sui binari, queste sono le istruzioni:

Chissà il manuale di procedure di sicurezza di Chernobyl. Ma la seconda cosa che ci manda più in estasi è il riscaldamento del vagone, un vano a fianco dell’entrata che contiene una vera, unica, intoccata e socialista caldaia a legna o carbone, a seconda della disponibilità.

Ovvero esattamente come funziona la MIR. Avarija, avarija. Sistemati i letti, messo a nanna il nostro compagno habitué che ha ormai perso il senso della meraviglia – sai com’è, trivigante, lui lavora -, resta una sola cosa da fare: andare al vagone ristorante. La vera perla di tutto il treno e di tutto il viaggio.
Formica, legno, bottiglie di alcoolici dalla vodka alla birra in ogni formato possibile, bicchieri di vetro spaiati, tavolini senza sedie, snacks dal biscotto al cioccolato alle patatine alla paprika, luci al neon, tutto è perfetto e non potrebbe essere meglio.

Anzi sì, lo può. Quando appare il barista, ristoratore dalla notte dell’Unione sovietica tutto assume un’altra aria: solido e bonario, vestito di una meravigliosa maglietta con scritto ‘fearless‘ in ogni colore e chiaramente strizzatoci dentro, e di un grembiule fatto della stessa stoffa delle tende che lo rende una specie di massaia siberiana accondiscendente e spietata allo stesso momento, ci serve le quattro birre con cui inauguriamo il viaggio, due Chişinău e due Timisoreana per il nostro litro cadauno.

Una ragazza olandese, una famiglia rumena con due bambini e una coppia di inglesi sono i nostri compagni di carrozza ristorante. Oddio, bar, diremmo finora. Finché non succede l’inaspettato: la famiglia rumena, che capisce quel che si dice, ordina da mangiare e l’uomo dietro il banco, la colonna angolare sulla quale questo treno si regge in piedi, l’uomo per cui l’Unione sovietica sarebbe ancora in piedi se fosse per lui, colui che avrebbe potuto salvare il socialismo e portare uguaglianza nel mondo, si reca nel retro del suo bugigattolo e con congruo tempo e modestia di mezzi prepara il piatto unico del treno magico:

È l’accadimento più bello ci potesse capitare, facciamo immediatamente gesto di altridue per noi e ci predisponiamo al momento sublime, ordinando nell’attesa un altro paio di Timisoreana. Mentre il padre della famiglia rumena consuma solitario gli otto chili di verza avanzata dai suoi familiari noi consumiamo la cena più buona e soddisfacente di sempre. Evviva il comunismo e la libertà, perdio. Lanciati per la pianura verso il confine, immaginiamo quante migliaia, centinaia di migliaia di persone avranno dormito ai nostri posti e mangiato il nostro piatto, sperato in un futuro migliore, sognato pace e serenità a bordo di questo treno. La proporzione dà alla testa, anche il treno procede a balzi nella sua media turbinosa e talvolta si ferma in un nulla misterioso che davvero è difficile interpretare. Non potrebbe essere meglio di così.

Non vorremmo andare a dormire, non vorremmo dormire mai più, tutto dovrebbe restare acceso per sempre. Ma la levataccia del mattino, la giornata in giro per Bucarest, l’economia del domani ci suggeriscono che sia meglio andarci, a dormire, e così è. Passata una mezz’oretta nel sonno dei giusti un po’ ubriachini il nostro compagno appestato comincia a russare come una locomotiva guidata a tutto vapore dal compagno Stachanov verso il sol dell’avvenire e fischi, versi e porconi non servono a nulla. Ed è qui che R. compie il gesto più generoso a premuroso che la storia umana ricordi: con sforzo titanico solleva la cuccetta con base-ghisa, con la mano restante fruga nella borsa e mi porge un paio di tappi per le orecchie, atto del quale non riuscirò mai a esprimergli compiutamente la riconoscenza che provo.
I tappi funzionano talmente bene che non mi sveglio nemmeno quando il capovagone passa di scompartimento in scompartimento ad accendere tutte le luci e a svegliarci, avvisandoci del border control: comincia così un processo di durata variabilissima per cui tra l’annuncio e la comparizione dei militari di frontiera passa un’ora, poi un appuntato raccoglie una pila così di documenti dei viaggiatori e si dilegua nel buio per un tempo indistinto ma non inferiore all’ora e mezza, io avrei bisogno di andare in bagno ma vengo rudemente dissuaso con il gesto della ‘x’ con gli avambracci avanti dal capovagone, la tengo coraggiosamente. Molto tempo dopo i documenti ci vengono restituiti, e la sensazione non è mai bella, essere senza documenti nel nulla senza il possesso della lingua, e noi dormiremmo anche, se non che ci viene preannunciato l’altro controllo, quello della frontiera moldava. Ah, che bravi, io nel frattempo valuto l’opportunità di farmela addosso, il che non mi pare nemmeno male come prospettiva, al momento. Il border control moldavo non è da meno e il tempo non è inferiore, la scomparsa identica, con la differenza di una poliziotta tozza che dice qualcosa in ogni scompartimento. Sembra passino giorni, le luci accese, ogni tanto un vociare e qualcuno che cammina nel corridoio, qualche cane abbaia, un tonfo ogni tanto, il treno irrimediabilmente fermo. So dove siamo, in prossimità di Albița, sul fiume Prut che fa da confine ma queste sono informazioni da carta, davvero chissà dove siamo, chissà che c’è là fuori. Chissà dove sono i nostri documenti. E mistero al mistero, il nostro coinquilino impacchetta la sua borsa e scompare. Non lo vedremo più.

Poi il treno si muove – ripeto: i documenti, madonna – e succede l’ultima cosa strepitosa del viaggio, l’attendevamo. Uomini all’ascolto, attenzione: questa sono più di mille cantieri messi insieme, più di cento ruspe enormi che lavorano all’unisono, è forse comparabile al solo Bagger 288 al lavoro, il valico insuperabile delle meccaniche in funzione. Il treno viene sollevato, vagone per vagone, di almeno un metro e mezzo, noi tutti dentro, e i carrelli europei sotto sfilati e sostituiti con quelli sovietici più larghi di dieci centimetri. Noi basiti facciamo foto e video e commentiamo a monosillabi estatici, vediamo un altro treno a fianco sollevato allo stesso modo. Ecco qua, la differenza: il molle mondo capitalista, avvezzo a schivare il lavoro più che si può, mondo ormai molle e putrescente, avrebbe messo due treni, uno di qua e uno di là e ci avrebbe fatto cambiare; il mondo socialista no, due volte al giorno solleva un treno intero e sostituisce tutte le ruote con la calma e la forza che il solo popolo unito può dare in nome del comune lavoro per uno scopo, facendo della fatica stessa una nobile motivazione. Che mondo, che politica, che persone, che unità. R. lancia un auspicio nel vuoto che i carrelli siano sistemati bene, ecco, che sarebbe importante, che non credo venga raccolto da alcuno. Ma meglio dirlo, comunque.

Tornano i documenti, le ruote sono quelle giuste, possiamo ripartire verso la meta, Chişinău e la Moldavia, ancora nel buio della profonda notte. Crolliamo, le emozioni sono state tante e incomparabili, rivolgiamo un pensiero interrogativo al nostro amico di scompartimento scomparso nella notte alla frontiera e ci chiediamo quale sia stata la sua fine, poi i binari proseguono e ciao, andiamo avanti. Ognuno badi alla propria pelle e alla propria valigia.
Sorge il sole e rivela una bella pianura tutta fatta di variazioni di marroni e arancioni autunnali, noi facciamo colazione con quel che avevamo comprato in stazione fidandoci di chi diceva che sul treno non ci fosse cibo – non fidatevi di quel che leggete in rete, tranne me in questo momento – e attendiamo l’arrivo alla stazione di Chişinău, dopo solo quindici ore e mezzo di viaggio per quattrocento chilometri, tra utopie, sogni ugualitari, amicizie tra popoli e persone, idee perenni e il tempo e lo spazio che ci circondano e che ci portano, come questo treno meraviglioso, dove vogliono e come vogliono.

In aggiunta e infine a quanto raccontato, il video di Zdob și Zdub e i fratelli Advahov, girato e scritto in parte sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico dei sogni e in parte sul diurno in senso opposto. È subito Kusturica.

Ricorderò tutto ciò con gioia, che tutti voi sopra e attorno al magico treno abbiate vita lunga e felice e sempre un piatto così da mangiare e una Timisoreana fresca.


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minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: uno, Bucuresti

Atterriamo all’aeroporto di Bucarest Băneasa Aurel Vlaicu, scelto apposta rispetto a quello grande perché sovietico nelle forme, coerente con il viaggio e vetusto nel tempo, secondo o terzo aeroporto ancora in uso più vecchio del mondo. Magnifico. Magnifico e piccolo, perfetto.

La Bucarest di oggi, rispetto a quella che ricordo nel 2003, è una città simile, schiacciata da cinquant’anni di dittatura insensata, il cui centro fu raso al suolo per farne un immenso viale trionfale che portasse al palazzo del parlamento, delirio finale di un regime ormai tumescente. A differenza di allora, la città è però piena di merci, di negozi che vendono merci, di ristoranti e bar che propongono merci, di grandi magazzini. Allora, e già era meglio di quindici anni prima, c’era poco e niente, molto grigio e palazzoni scoordinati. La devastazione ceauseschiana ebbe il suo fulcro negli anni Ottanta, con la costruzione del mastodonte palazzo, secondo o primo al mondo per volume, primo sicuro per pesantezza, e delle quinte scenografiche del vialone che a esso porta, tutti palazzi bianchi a sei o sette piani che fanno da cornice per alcuni chilometri. Scenografie perché il retro è piatto, non decorato. Le facciate, invece, essendo della fase tarda del regime e l’architettura locale contaminata da quegli anni, sono un misto tra un’esposizione di mobili a Dalmine, elementi neobabilonesi un po’ a casaccio, certe radio tonde e colorate della Philips di quegli anni, decorazioni da architetto lissonese che non ce l’ha fatta.

Un po’ Teheran, un po’ Dušanbe, un po’ Corviale. Si dice siano state abbattute trentottomila abitazioni per realizzare questa esuberanza di potere statale, peraltro decadente perché alla fine, Ceausescu e moglie sarebbero stati fucilati pochi anni dopo. La moglie Elena a proposito: la vera iena della coppia, ed è tutto dire, quarta elementare debolmente portata a casa, si fregiava di essere una testa fina appassionata di scienza al punto da costringere, dalla sua posizione, scienziati e ricercatori a pubblicare i propri studi a nome di lei che, così, incassava deferenti lauree ad honorem e titoli accademici, tutti prontamente ritirati cinque minuti dopo la fucilazione.

Alcuni cortili di palazzi enormi hanno ancora i segni degli spari all’interno. Sempre meno, perché il furore cementizio è ovunque e anche qui hanno ben compreso che per avere il turismo qualificato serve una città romantica che ha salvato il passato e insieme moderna contemporanea che trasudi aziende dinamiche. Al momento, il grosso del turismo sono ragazzotti europei che hanno già visto Amsterdam e che qui sognano grandi bevute e grandi conquiste. Avranno grandi conti da pagare.

Nella sala da concerti più bella della città, sovietica e attraente, sono esposti i manifesti degli spettacoli da qui a natale. Il nostro occhio locale ne coglie al volo due: dopodomani Al Bano e il 17 novembre i Ricchi e poveri. Ci sarebbe da fermarsi. Il bacino cantautorale è enorme, dal Kazakistan a Mosca a qui, avevo visto loro foto nell’albergo di Tashkent e manifesti ovunque, a Riga c’è un ristorante di Al Bano o che, comunque, ne propone i vini. Mancherebbe Pupo, mi chiedo che faccia, a questo punto.

Dopo tre magnifiche polpette di prugne ricoperte di crumble e cannella, scaldate e lasciate nella panna acida – R. mi spiega che esistono identiche a Trieste, gnocchi di prugne -, ottima merenda, ci avviciniamo allo scopo della nostra presenza qui, la Gara de Nord, la stazione da cui alle sette e dieci partirà il lanciatissimo per Kyiv, Kiev come abbiamo detto finora alla russa e come dovremmo smettere di dire. Via Chişinău, che è dove ci fermeremo.

Questo è il fulcro del viaggio, il senso, sono e siamo abbastanza emozionati, c’è un treno da prendere, la freccia dei Carpazi che parte da qualche binario qui davanti. È ora.


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minidiario scritto un po’ così del viaggio sul Prietenia, l’ultimo treno sovietico: zero, trenulețul

Tornato dal Caucaso col fervore delle repubbliche ex-sovietiche, mi imbatto qualche mese fa in un breve post di un viaggiatore rumeno che racconta di aver preso l’ultimo treno sovietico d’Europa. Drizzo le antenne, annuso la preda. Ne fa un accenno ma quanto dice mi basta per trovare ciò che mi serve e per mettere in moto un nuovo piccolo progetto di viaggio, ci vuol poco. Ma in che senso sovietico? Nel senso dell’intoccato, del treno rimasto come era, cristallizzato nella formica degli anni Cinquanta, l’equivalente dell’esperienza autentica di viaggio per chi va a incontrare la tribù di Ubangi in Banzania. Ah, che sapore. Guardo qualche foto e non posso resistere, devo prenderlo, devo andare.
Ne parlo con R., ci siamo conosciuti in Azerbaijan e per quanto mi riguarda è stata comunanza immediata, confermata poi dai fatti. Non ci pensa su più di otto secondi, è a bordo del progettino, con entusiasmo. Lui come me scrive, fotografa, viaggia, si chiede e tutto questo lo fa con moderato garbo e con rispetto, per cui è un piacere confrontarsi anche su questo, non bastasse compone anche musica, c’è un pezzo ancor più profondo. Una novità, da un po’ tempo non faccio viaggi di esplorazione con qualcuno.

Il Prietenia è letteralmente ‘il treno dell’amicizia’ – la versione socialista del ‘Peace train’ stevensiano o del ‘Magic bus’ degli Who, ma c’era anche la ‘nave dell’amicizia’ che portava derrate americane a Napoli finita la guerra – e l’amicizia era tra la Repubblica Socialista di Romania e la Repubblica Socialista Sovietica Moldava, RSS Moldava, peraltro già unite a forza dopo la prima guerra mondiale. Ogni collegamento, ponte o treno o strada, tra paesi o repubbliche sovietiche problematiche di solito veniva battezzato in nome dell’amicizia, ancora oggi certi passaggi davvero complicati, per esempio il ponte a Termez tra Uzbekistan e Afghanistan – lo raccontavo qui – o quello sulla Narva tra Estonia e Russia, qui, mantengono la denominazione: più i rapporti erano rognosi e più era amicizia. Non si fraintenda, non era solo ipocrisia statale, parole vuote, l’aspirazione sottostante all’unione politica era davvero di relazioni pacifiche e di sviluppo comune, almeno nelle versioni più ideali del socialismo di quel tempo, chiaro che poi nella pratica le derive staliniane mostravano il contrario nonostante Chruščëv abbia provato a invertire un poco la rotta.

Farò una guida al ritorno, così che chi lo voglia possa ripetere agevolmente l’esperienza dell’ultimo treno sovietico d’Europa. Perché un progetto di viaggio è un progetto e vale la pena farlo al meglio, cioè così che ogni tassello sia al posto giusto; nel mio caso, in questo caso, per dirne tre: arrivare all’aeroporto giusto a Bucarest, il più bello e in tema tra i due; prenotare il posto migliore sul treno, così che il viaggio sia il più foriero di esperienze possibile, vale a dire lo scompartimento più numeroso disponibile; prenotare l’albergo a Chişinău più sovietico che ci sia, districandosi tra i relitti dismessi, maledizione, il Cosmos non c’è più. Io domani vado e vedo com’è, quando posso racconto che al di là le connessioni saranno più ballerine e saremo comunque in due, più scambio e confronto, meno tempo per scrivere e rimuginare del solito. Sono già proiettato nel mondo di Kusturica, il supermissile spaziale dei Carpazi mi porterà nel magico mondo della vodka, degli spari, dei bagni nel ghiaccio, dell’amicizia a pugni, nell’estetica dello sfascio che tanto apprezzo. Oltre a tutto, scelta non casuale se per me avesse un qualche tipo di senso, passare la notte degli spiriti e dei morti e dei vampiri su un treno notturno nelle pianure carpatiche spalando carbone sarebbe una cosa memorabile. Mi manca il costume, ora che ci penso. Cosa, dunque e in complesso, potrei chiedere di meglio?


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rappresentare sé stessi: Van Gogh e il costume favoloso

Qualche giorno fa al museo di Amsterdam ho fotografato uno degli autoritratti di Van Gogh, quello noto come ‘Autoritratto con cappello di feltro grigio’, dipinto a Parigi tra la fine del 1887 e l’inizio del 1888. Eccolo:

Straordinaria la resa con le pennellate circolari sullo sfondo e concentriche sul viso e giacca. Bellissimo davvero, oltre al mio apprezzamento generico per il genere autoritratto – per esempio -, questo in particolare è davvero notevole.

Non posso dunque non decretare ‘costume vincente di halloween 2025’ questo di questo signore che si è vestito da ‘Autoritratto con cappello giallo’, sempre VG:

Prestare attenzione, niente AI: il signore si è proprio dipinto e truccato alla maniera, collo, camicia, barba faccia cappello sopracciglia, senza risparmiarsi. Fantastico.

Ancora più in dettaglio:

Eccezionale. Per coprire le braccia ha dipinto dei guanti e idem le scarpe e la pipa.

Beh, non si può battere. Più che un costume, direi che sia diventato proprio un progetto artistico, ben riuscito.

«quando devi fare in fretta»

«L’Agilo di Böcker trasporta i tuoi tesori fino a un carico di 400 chilogrammi a una velocità di 42 metri al minuto, e lo fa in silenzio, grazie al motore elettrico da 230 volt», così dice l’azienda tedesca Böcker che produce il montacarichi qui sotto, utilizzato nel furto dei gioielli imperiali al Louvre di domenica scorsa.

In effetti, è una buona occasione per farsi pubblicità: in sette minuti i ladri hanno compiuto il furto e nel video disponibile si vedono scendere con calma proprio con il montacarichi dalle finestre del primo piano del museo. Visto che nessuno si è fatto male, il mezzo mostra la sua efficacia: «Quando devi fare in fretta», azzeccato.

minidiario scritto un po’ così di un breve giro nederlandico: tre, quartieri nuovi

Quando si dice ‘Venezia del nord’ è piuttosto vero, almeno per quanto riguarda il centro: difficile svicolare tra Tussaud’s, musei delle torture, localini hot e fumerie d’accatto, ristoranti italiani da mangia-quel-che-puoi, negozi di souvenir in cui troneggiano più che altro peni colorati e oggetti con foglie di marijuana, negozietti di superalcolici da asporto, crocierette con mobili bar al centro della barca, insomma tutta la parata possibile di trappolone per turisti. Per il resto no, a differenza la città è grande, soprattutto abitata e vivace invero. Non c’è quell’aria malinconica da tinta per i capelli che cola sul viso.
In effetti, Amsterdam è un’invenzione piuttosto recente, festeggia ora i settecentocinquant’anni dalla fondazione. Perché una volta qui, ragazzo mio, era tutto mare. Poi alcuni intraprendenti strapparono la terra al mare chiudendo certi varchi sabbiosi a nord e grazie alla concomitante decadenza di Anversa prima e di Delft poi una modesta città delle province settentrionali divenne ricca e prosperosa. Il ‘dam’ del nome è appunto la diga. Poi periodi di grande successo, commerciale e artistico nel Seicento, coloniale e imprenditoriale poi, di nuovo artistico e architettonico tra Otto e Novecento. Certo, le Fiandre sono più fini, questo è certo. Qui è il posto dove Chet Baker muore poco in sé, ed era qui per lo stesso motivo di molti.

Dunque, può essere l’occasione per esplorare parti della città che non ho mai visto e che non si vedono mai. Per esempio, il Zuid, un’ampia parte residenziale senza troppi canali, verde e ben abitata, ricca di negozi e locali accattivanti, attraversata dall’Amstel. Eh sì, c’è un fiume in città e pure bello grosso che diventa indistinguibile a un certo punto dai canali del mare. È grazie a quello se ci sono certi pond coltivati a rettangoli regolari in questa parte della città, appena a nord dell’arena dedicata a Johan Cruijff in cui gioca l’Ajax. Oppure a est, arrivo fino a Flevopark, oltre Zeeburg. Qui la situazione è diversa, pur residenziale ma di case di meno pregio e abitate, mi par tutte, da immigrati. Oddio, non ho la consapevolezza per distinguere le generazioni di immigrati qui, quali di prima o più generazione, se da colonie o ex o invece da altri paesi. Di sicuro ci sono indiani e pachistani, molti negozi sono loro, alternati a qualche giovane nederlandico che propone bagels e felicità, il candido. Tutta la faccenda pare più abbordabile dal punto di vista economico anche se, a differenza di anni fa, ora il fatto che i nostri stipendi non si siano alzati in relazione all’inflazione si sente, eccome.

Se il Rijksmuseum è sempre un gran piacere, basterebbe la galleria centrale con i Vermeer a sinistra, gli Hals a destra e la Ronda in fondo, dritta, stavolta sono andato per la prima volta al Van Gogh museum, sempre sulla spianata dei musei. Non che abbia nulla in contrario, per carità, anzi ne apprezzo il tratto straordinario. Dico che però è uno che si capisce, cioè non serve uno sforzo sovrumano per cogliere gli aspetti principali della sua pittura, basta studiare e vedere qualcosa. Quindi non ho mai anelato l’approfondimento, sono sincero. Stavolta ho i biglietti per i motivi detti, ne ho ben cinque, vado una volta. Bella la struttura, belli anche molti dei dipinti, specie dei primi periodi, diciamo fino ad Arles. Difficile parlare di ‘primi periodi’ per uno che è vissuto trentasette anni, in effetti. Comunque, i più noti sono a Parigi, i girasoli vari, le notti stellate, i campi, qui ci sono quelli prima; che non sono niente male, per carità, descrittivi, tratto che comincia a diventare peculiare. Una volta ne vale la pena, senza troppo rapimento mistico, ecco.

Diciamo che Van Gogh rientra nelle categorie apprezzate nei nostri tempi, quelle dei genii irregolari ed eclettici, tutti genio appunto e sregolatezza per come ci piace descriverli e catalogarli oggi. Leonardo, Einstein, Caravaggio con i suoi contrasti, van Gogh e i suoi colori, il manicomio e l’orecchio. Ovviamente non è così, vedi il detto del novantacinque per cento del sudore nel cosiddetto genio, ma importa poco: è uno dei nomi che richiama folle e visitatori in ogni dove, al solo nominare. E di conseguenza, vengono ideate mostre farlocche dai titoli evocativi, per esempio: ‘Lo stupore da Nefertiti a Van Gogh’, che sottintendono quattro opere già in magazzino e il resto fuffa. Furfantelli.

Bene, anche stavolta il mio giro è finito, piglio su le mie cose e torno a casa, che a breve ne ho uno davvero bello, un bel progettino da tre giorni che non vedo l’ora di fare. Al parcheggio trovo l’auto segnata da un ignoto le cui capacità, evidentemente, non sono al livello tecnico del parcheggio, e ciao biglietto o altro. È un periodo in cui gli altri interferiscono pesantemente con me, spesso in forma anonima, non so che dire. Mi porto a casa e con me comunque la soddisfazione del giro. Grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro nederlandico: due, cose che dovrei sapere

Il tipo del ristorante libanese assomiglia ad Antonio Catania da giovane. Oddio, ristorante: più che altro da asporto e consegne, ha tre tavolini in croce e un poster storto di Beirut. Si mangia molto bene, la cucina libanese ne batte parecchie. Lui, il gestore e cameriere, sa molte cose che io non so. A parte la differenza tra baba ganush e hummus, ovviamente. Parla arabo, francese, inglese, ovviamente olandese, anche italiano perché c’è stato. Ha vissuto in molti paesi e ne ha sperimentato la burocrazia e le leggi, ha affittato e disdetto, ha comprato e venduto licenze, ha cucinato per molti. Ha visto parecchio mondo per davvero. E a differenza mia sa una cosa fondamentale: che le cose cambiano. E in fretta, pure. Questa è la cosa del mondo e della vita che io non so, che mi sarebbe utile sapere. Per me, europeo, solo la morte e la malattia, un rovescio finanziario se si è imprudenti, cambiano le cose. Ci sono volute una crisi economica disastrosa – “non può fallire un paese”, dicevamo -, una pandemia – “non si può chiudere un paese”, sempre per non vedere l’evidenza – e ora una crisi climatica – ma il numero degli orsi polari non sta calando, si scrive – per intravedere qualcosa. E ovviamente non posso e non voglio contemplare la possibilità di una guerra, non rientra nei miei orizzonti. Che la facciano gli altri. Lui invece tutte queste cose le sa, che poi è solo una consapevolezza determinante: le cose cambiano. E come lo sa lui, lo sa la maggior parte del mondo là fuori, teniamoci strette le scarpe.

E sembra un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato… Ah no, non italiano, olandese. Ecco come si compone un sabato utrechtiano o amsterdamiano: si noleggia un barcone, diciamo da dieci persone, lo si riempie di lattine di birra in un fattore almeno di cinque a uno con i presenti – lattine da mezzo, gente – e si percorrono in tondo i canali della città per ore, fino al termine del carico o finché qualcuno non cada in acqua. Attenzione, però: la cosa va fatta facendo distinzione assoluta tra maschi e femmine, non si mischiano mai. Il perché non lo so, visto che da fuori se non per estetica non si notano differenze. Sarà che si parla meglio, sarà che si fa più camerata. Sarà che così le coppie durano di più.

A Utrecht, dove sono passato di ritorno, le cose stanno come le ricordo: bella città ma non ci vivrei, molto turistica. I canali sono magnifici e hanno avuto la lungimiranza di tornare su decisioni prese, scoprendo vie d’acqua ricoperte d’asfalto decenni fa, in pieno fervore automobilistico. Quando passai di qui erano in vigore le norme di distanziamento con la polizia per strada e sotto erano tutti al bar a bere birra in allegria, città universitaria, che ci vuoi fare? Oggi uguale, per le rive dei canali si cammina a stento. Così, per divertimento la stessa foto di cinque anni fa.

Ad Amsterdam fa freddo. Freddino, diciamo. I corridori della maratona hanno facce e gambe rosse, per lo sforzo e per il freddo. Sono talmente tanti che non c’è modo di attraversare, serve cercare ponti per scavalcarli.

Dopo anni di bagordi e di promozione dissennata della città, oggi Amsterdam sta cercando di superare l’immagine di luogo dove venire a sballarsi e a eccedere il più possibile per una clientela più posata e danarosa che crei meno problemi. Per carità, una parte centrale della città, aggrumata di turisti come forse solo Venezia e piena di locali per addii al celibato e bevute leggendarie di alcolici sottomarca, ancora esiste, si percepisce fin dall’aereo, con Barcellona – altro luogo che cerca di proporsi in modo diverso – è ancora uno dei tunnel del divertimento europeo. Un divertimento sottocosto, fatto di offerte discount e di spasso più da raccontare che da vivere. Il punto di una scelta di riqualificazione è trovare il modo giusto, che non sia sempre lo stesso: alzare i prezzi. E così è, qualcuno non se la può più permettere, tutti gli altri pagano, soprattutto i cittadini e le botteghine. Ed è qui che, per età e capacità di spesa, mi sento ancora chiamato in causa. Lo ero allora, per spendere poco e senza agio, lo sono oggi per sistemazioni comode e confortevoli, care per quanto acquistato.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro nederlandico: uno, ogni cosa è dove è sempre stata

Dovevamo essere cinque, sull’aereo salgo uno. La destinazione scelta doveva far piacere in particolare a due compagne di viaggio, alla scoperta di una capitale ancora ignota, ci vado io che ignota proprio non è: facendo mente locale, a occhio posso dire 2004, 2015, 2020 (due volte, una a ridosso del covid, l’altra a risarcimento), 2023, 2024, che mi par fin giusto metterci il 2025, quasi ormai un appuntamento annuale. È dunque un minidiario a bassa intensità, nessuna grande scoperta presumo, avventure ridotte ma mai dire mai, come diceva quello, che non si sa mai quello che al mondo ci può capitar, dicevano quegli altri. Organizzata come una visita classica da prima volta, ci sono alcuni appuntamenti inderogabili: due grandi musei prenotati, albergo preso. Quindi pochi giri fuori, va bene così, avevo già fatto una allegra ma inutile guida sul concatenamento Haarlem, Leida, Delft, ed ecco svelata la destinazione: Amsterdam. Ho sentito che possa andare peggio. Vediamo che riesco a organizzare nell’unico giorno libero da cose in città. Perché, dunque, farne un minidiario? Ma che ne so, devo sempre rispondere a tutto io? Vado, è bello, sto a zonzo, i giorni erano tenuti liberi apposta, qualcosa succederà. E se non, racconterò il non. Mica è sempre Caucaso, per fortuna. E poi poche sbruffonate, la città è talmente enorme che ne resta molta e inaspettata, basterebbe il Zuid. Comunque, l’avventura vera sarebbe stata la compagnia e il diletto dei miei compagni di viaggio, a loro dedico questo breve giro in attesa di recuperare quanto prima l’occasione ora sfuggita.

Sebbene spietatamente piatti e per buona parte appoggiati su fondamenta di sabbia, il paesaggio naturale è predominante nei Paesi bassi. Certo, educato e organizzato, il canale qui e il confine lì, il ponticello e la strada senza dimenticare una qualche grossa azienda sullo sfondo, ma ciò che si coglie di più è il verde di campi, prati e boschi, il marrone di piante, canali e mattoni, il riflesso del cielo nell’acqua, un certo silenzio generale che da noi esiste solo la mattina del primo dell’anno. Ora che cadono le foglie, gialle e di mille aranci, è una successione di cartoline di quiete e ordine aggraziato. Considerato che in un’ora al massimo di treno da Amsterdam si arriva ovunque nei Paesi, tutto viene facile. Per la gita fuori porta di oggi sono venuto ad Amersfoort, graziosa cittadina a est di Utrecht, che ebbe un certo ruolo durante la guerra, testimoniato dai resti di un campo di prigionia tedesco e da un esteso cimitero di guerra con una vasta parte sovietica. E città natale di Mondrian, en passant, per fare della cultura.

Tutto è confortevole, facile, sorrido con un cenno del capo all’uomo con il barattolo di pittura, faccio due chiacchiere con l’aviere in divisa che scatta la mia stessa foto del campanile sul canale, saluto la donna con la bambina piccola quando mi sorridono, osservo curioso l’enorme negozio di attrezzi per il giardinaggio, ho accettato di buon grado di pagare un euro in più per il doppio espresso da portar via in un contenitore riutilizzabile, così tornerò, cedo il passo alla coppia paonazza in volto che attraversa il ponte sul canale in bici. Le biciclette scorrono via silenziose, difficile venga in mente a qualcuno di mettere una carta tra i raggi per fare casino, qui. Tutto molto riposante, le tinte scelte per questo paesaggio nederlandico autunnale inducono a calma e serenità.

È tuttavia una facilità che costa, serve che il sistema non abbia troppe interferenze esterne perché regga, le risorse devono entrare e devono uscire prodotti se si vuole mantenere l’equilibrio. Vado a memoria, tre delle prime dieci aziende del mondo per fatturato sono olandesi, questa pace fatta di vacche, acqua, formaggio e casette stupende da qualche parte si deve alimentare.

Sarà che sto leggendo Our daily war di Andrei Kurkov, diario scritto dall’Ucraina assediata, sarà che ripenso ai miei viaggi recenti, alle pianure del centro Asia, al nordafrica, alle ex repubbliche sovietiche, non posso non notare quanto carburante, metaforico e non, serva per tenere in equilibrio un sistema come questo. Io sono uno di loro, europeo, vivo più o meno allo stesso modo, anche fisicamente gli assomiglio, per quello mi salutano. Sono cortesi e amichevoli, rispettosi e quieti come già più a sud non siamo ma, l’ho già detto in tutte le salse, tendiamo a scambiare indifferenza per tolleranza. Le relazioni tra estranei si fermano a un punto ben preciso. E non c’è niente di male, sia chiaro. Basta essere coscienti di vivere in un sistema abbastanza chiuso, permeabile alle merci ma meno alle persone. Facendo della facile retorica, il baretto fatto di quattro sedie, una bombolona di gas e l’ombra di un fico nel niente azerbaigiano, che appena ci si avvicina si anima, si alzano tutti, ti cedono una sedia e poi si brinda fino allo sfinimento con interminabili sorrisi e pacche sulle spalle senza che nessuno capisca un’acca di quel che si dice, beh, qui non c’è.

Niente di male, ripeto, è anzi pure più faticoso il baretto sociale, è solo che siamo un po’ tutti uguali e tutti un po’ spompati, qui. Con la nostra copertina sulle gambe, è iniziato il freschino, fuori dal caffè sul canale, chiacchieriamo piacevolmente scegliendo tra dolce e salato, ci godiamo il sole, il vento e il glicine rigoglioso sopra la testa, con una vaga e poco confortevole sensazione di fondo che le cose, nel frattempo, sotto sotto e piano piano, stiano un po’ sfuggendo al nostro controllo.


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