Il treno completa la traversata e io sono nella mia nona ex-repubblica sovietica: la Moldavia. A lungo principato autonomo, poi tributario dell’Impero ottomano, venne spartita nel 1812 fra turchi e russi – la Bessarabia – e austriaci – la Bucovina -; nel 1918, entrò a far parte del Regno di Romania, nel 1940 occupata dall’Unione Sovietica, temporaneamente da tedeschi e italiani durante la guerra, poi reintegrata nell’URSS e trasformata in una Repubblica Socialista Sovietica. La Bessarabia meridionale, o Bessarabia storica, fu assegnata alla RSS Ucraina, fu indipendente dal 1991. Vicende travagliate, per nulla risolte oggi: come la Georgia con l’Abkhazia e l’Ossezia del sud, la Moldavia non controlla un pezzo del proprio territorio, la Transnistria, autodichiaratasi indipendente dall’URSS persino prima della Moldavia stessa ma non riconosciuta e al contempo protetta dai russi e governata da un regime molto restrittivo. I moldavi la chiamano “Unità amministrativa della riva sinistra del Dnestr”. Ho terminato in questo momento di leggere Back in the USSR. Heroic Adventures in Transnistria di Rory MacLean strabuzzando più volte gli occhi, leggendo delle posizioni filorusse transnistriche che considerano gli ucraini nazisti, esatto e attenzione: al 97% della popolazione, e Putin il restauratore del potere russo, intendasi imperiale, cioè russo non sovietico, e delle ingerenze della Sheriff, una holding padrona di tutto, nell’amministrazione del paese. Per non parlare dei transnistrici che vorrebbero riconosciuta anche l’indipendenza linguistica, ovvero la lingua transnistrica. Peccato sia identica al moldavo e, quindi, al romeno.
L’arrivo in stazione a Chişinău è davvero caratteristico nelle forme di un mercatino di vestiti e oggetti nella migliore tradizione sui marciapiedi, con lenzuola a far da banco: i grandi classici, attrezzature fotografiche, ottiche, per misurazione, adesso informatiche dal mouse senza rotella a schermi improbabili, oltre a vestiti che presuppongono un inverno rigido in arrivo. Dei tre grandi alberghi sovietici in città, due sono abbandonati, il Cosmos e il Național (ex Intourist), e uno resta, il Chişinău, ovvio sia il nostro. L’arcigna signora alla reception è un’altra pietra angolare sulla quale è stato edificato il socialismo, si racconta abbia vagamente sorriso una volta nel 1974 e poi mai più; ancora prima di presentarci sa chi siamo e dove dobbiamo andare, non ci rivolge mai lo sguardo. È evidente che consideri il suo sottoposto un coglione, come considera noi, del resto. Il ‘coglione’ è più che altro un uomo con delle incertezze tipo la cortesia e in italiano ci dice di aver fatto il badante a Orvieto, «un sacrificio» lo definisce e lo posso ben capire. La reception, coeva, mi fa sentire subito a casa.

Memorabile il cartello appeso al vetro che dice, in inglese, per avere acqua calda in bagno è necessario aprire entrambi i rubinetti di lavandino e vasca verso il rosso e lasciar scorrere l’acqua per dieci-venti minuti. Davvero.
Dieci-venti minuti. La città, grande di circa settecentomila abitanti, un terzo del paese, è sviluppata lungo una strada principale e quella doveva essere, almeno fino ai russi, la struttura generale; ortogonalmente si dipartono le varie zone della città, a est la parte più residenziale ed elegante, con università stile-politecnico sovietico e magnifico lago, a ovest la parte più rurale, un tempo, e ora in fase di ampia espansione edilizia come a nord e sud. Impressionante il numero di condomini in costruzione o recenti, evidentemente l’inurbazione dev’essere poderosa. Tra le case conservate, poche, simili in tutto alla Romania rurale orientale, più che a quella austroungarica occidentale, quella di Puškin, che vi passò del tempo tra 1820 e 1823, percependone la perifericità e l’isolamento – scrisse: «Oh Kišinev, oh città oscura! […] Maledetta di Kišinev, la lingua non si stanca mai di insultarti!» innescando la reazione dei locali, di cui si fece portavoce il poeta e scrittore Vasile Alecsandri che rispose prontamente: «Sei più nero degli zingari, / tu che hai mendicato da noi per anni, / tu che sei stato accolto / e che non ci hai detto neanche “grazie”», dandogli infine del «porco». Never be rude to a moldovan. Tra gli edifici di epoca sovietica, il circo di Stato risalta sicuramente per bellezza, è magnifico, e per funzione.

Bisogna dire sempre grazie ai moldavi – a tutti in realtà – e così facciamo. Ciò nonostante, salta all’occhio la differenza di trattamento ricevuto da persone con una funzione, la receptionist, la controllora sull’autobus, le venditrici al mercato, la bigliettaia al museo, negozianti varie, quasi tutte donne ora che ci penso, gelide e con sguardo irritato – sarà perché noi uomini? – e invece l’impressione di simpatia generale ricevuta in giro, corroborata anche dall’incontro mattutino con A. e V., giovane e vitale coppia chisinausina con cui è stato un piacere far colazione con caffè e porchetta e chiacchierare di viaggi e di fatti moldavi.

Di soddisfazione la visita al Muzeul Național de Artă, qui sotto un bell’autoritratto serio di Boris Nesvedov, di nascita ucraina. C’è molta arte di impronta russa che non conosciamo, anche il museo di Yerevan era stato pieno di interessanti scoperte, la mostra a Chemnitz di questa primavera illuminante in questo senso.

La cosa che balza più agli occhi a Chişinău, a essere onesto, è la quantità di studi dentistici privati, tra quelli apparentemente più affidabili ai sottoscala che nemmeno con una Colt puntata alla testa. Non escluderei che vi si contribuisca parecchio anche noi, come popolazione italiana, con viaggi della speranza da otto impianti in un pomeriggio, per la sola ragione di risparmio presunto. Ma uno ogni strada, davvero, che probabilmente a ben cercare le lauree saranno stampate in serie, piuttosto ridicolo anche perché non ho notato sorrisi particolarmente smaglianti nei moldavi in generale. Oddio, correggo: nelle ragazze giovani sì, bianchi e allineati, perché tra unghie, cosmesi, capelli e vestiti sono sempre collocate tra l’impeccabile, meno, e l’estetica contemporanea tra Drive In e la Russia attuale di qualche moglie di oligarca. Forse una parte degli introiti dei dentisti viene da lì.

Con un’ottima plăcintă, anzi una ancor più tipica plăcintă cu varză – una focaccia ripiena buona e tipica dalla Serbia a qui e sì, l’etimo con l’italiano è proprio quello, una cosa che ne contiene un’altra – sul lago Valea Morilor, ex Komsomol, all’ombra di una bella e paterna statua di Lenin tra le poche rimaste, consumiamo il resto di una giornata con un clima meraviglioso in una città tutto sommato piacevole e accogliente, con elementi interessanti per un breve soggiorno senza dover essere per forza appassionati dello sfascio ex-sovietico, come me e R. La prossima volta, perché potrebbe ben essercene una, visita a Tiraspol, capitale diciamo della Transnistria, e visita ai Gagauzi, una popolazione turcofona di fede ortodossa concentrata nel sud del paese. Magari farò una guida di dettaglio all’uso del treno Prietenia, chissà, grazie a chi ha seguito.































