«L’Agilo di Böcker trasporta i tuoi tesori fino a un carico di 400 chilogrammi a una velocità di 42 metri al minuto, e lo fa in silenzio, grazie al motore elettrico da 230 volt», così dice l’azienda tedesca Böcker che produce il montacarichi qui sotto, utilizzato nel furto dei gioielli imperiali al Louvre di domenica scorsa.
In effetti, è una buona occasione per farsi pubblicità: in sette minuti i ladri hanno compiuto il furto e nel video disponibile si vedono scendere con calma proprio con il montacarichi dalle finestre del primo piano del museo. Visto che nessuno si è fatto male, il mezzo mostra la sua efficacia: «Quando devi fare in fretta», azzeccato.
Quando si dice ‘Venezia del nord’ è piuttosto vero, almeno per quanto riguarda il centro: difficile svicolare tra Tussaud’s, musei delle torture, localini hot e fumerie d’accatto, ristoranti italiani da mangia-quel-che-puoi, negozi di souvenir in cui troneggiano più che altro peni colorati e oggetti con foglie di marijuana, negozietti di superalcolici da asporto, crocierette con mobili bar al centro della barca, insomma tutta la parata possibile di trappolone per turisti. Per il resto no, a differenza la città è grande, soprattutto abitata e vivace invero. Non c’è quell’aria malinconica da tinta per i capelli che cola sul viso. In effetti, Amsterdam è un’invenzione piuttosto recente, festeggia ora i settecentocinquant’anni dalla fondazione. Perché una volta qui, ragazzo mio, era tutto mare. Poi alcuni intraprendenti strapparono la terra al mare chiudendo certi varchi sabbiosi a nord e grazie alla concomitante decadenza di Anversa prima e di Delft poi una modesta città delle province settentrionali divenne ricca e prosperosa. Il ‘dam’ del nome è appunto la diga. Poi periodi di grande successo, commerciale e artistico nel Seicento, coloniale e imprenditoriale poi, di nuovo artistico e architettonico tra Otto e Novecento. Certo, le Fiandre sono più fini, questo è certo. Qui è il posto dove Chet Baker muore poco in sé, ed era qui per lo stesso motivo di molti.
Dunque, può essere l’occasione per esplorare parti della città che non ho mai visto e che non si vedono mai. Per esempio, il Zuid, un’ampia parte residenziale senza troppi canali, verde e ben abitata, ricca di negozi e locali accattivanti, attraversata dall’Amstel. Eh sì, c’è un fiume in città e pure bello grosso che diventa indistinguibile a un certo punto dai canali del mare. È grazie a quello se ci sono certi pond coltivati a rettangoli regolari in questa parte della città, appena a nord dell’arena dedicata a Johan Cruijff in cui gioca l’Ajax. Oppure a est, arrivo fino a Flevopark, oltre Zeeburg. Qui la situazione è diversa, pur residenziale ma di case di meno pregio e abitate, mi par tutte, da immigrati. Oddio, non ho la consapevolezza per distinguere le generazioni di immigrati qui, quali di prima o più generazione, se da colonie o ex o invece da altri paesi. Di sicuro ci sono indiani e pachistani, molti negozi sono loro, alternati a qualche giovane nederlandico che propone bagels e felicità, il candido. Tutta la faccenda pare più abbordabile dal punto di vista economico anche se, a differenza di anni fa, ora il fatto che i nostri stipendi non si siano alzati in relazione all’inflazione si sente, eccome.
Se il Rijksmuseum è sempre un gran piacere, basterebbe la galleria centrale con i Vermeer a sinistra, gli Hals a destra e la Ronda in fondo, dritta, stavolta sono andato per la prima volta al Van Gogh museum, sempre sulla spianata dei musei. Non che abbia nulla in contrario, per carità, anzi ne apprezzo il tratto straordinario. Dico che però è uno che si capisce, cioè non serve uno sforzo sovrumano per cogliere gli aspetti principali della sua pittura, basta studiare e vedere qualcosa. Quindi non ho mai anelato l’approfondimento, sono sincero. Stavolta ho i biglietti per i motivi detti, ne ho ben cinque, vado una volta. Bella la struttura, belli anche molti dei dipinti, specie dei primi periodi, diciamo fino ad Arles. Difficile parlare di ‘primi periodi’ per uno che è vissuto trentasette anni, in effetti. Comunque, i più noti sono a Parigi, i girasoli vari, le notti stellate, i campi, qui ci sono quelli prima; che non sono niente male, per carità, descrittivi, tratto che comincia a diventare peculiare. Una volta ne vale la pena, senza troppo rapimento mistico, ecco.
Diciamo che Van Gogh rientra nelle categorie apprezzate nei nostri tempi, quelle dei genii irregolari ed eclettici, tutti genio appunto e sregolatezza per come ci piace descriverli e catalogarli oggi. Leonardo, Einstein, Caravaggio con i suoi contrasti, van Gogh e i suoi colori, il manicomio e l’orecchio. Ovviamente non è così, vedi il detto del novantacinque per cento del sudore nel cosiddetto genio, ma importa poco: è uno dei nomi che richiama folle e visitatori in ogni dove, al solo nominare. E di conseguenza, vengono ideate mostre farlocche dai titoli evocativi, per esempio: ‘Lo stupore da Nefertiti a Van Gogh’, che sottintendono quattro opere già in magazzino e il resto fuffa. Furfantelli.
Bene, anche stavolta il mio giro è finito, piglio su le mie cose e torno a casa, che a breve ne ho uno davvero bello, un bel progettino da tre giorni che non vedo l’ora di fare. Al parcheggio trovo l’auto segnata da un ignoto le cui capacità, evidentemente, non sono al livello tecnico del parcheggio, e ciao biglietto o altro. È un periodo in cui gli altri interferiscono pesantemente con me, spesso in forma anonima, non so che dire. Mi porto a casa e con me comunque la soddisfazione del giro. Grazie a chi ha seguito.
Il tipo del ristorante libanese assomiglia ad Antonio Catania da giovane. Oddio, ristorante: più che altro da asporto e consegne, ha tre tavolini in croce e un poster storto di Beirut. Si mangia molto bene, la cucina libanese ne batte parecchie. Lui, il gestore e cameriere, sa molte cose che io non so. A parte la differenza tra baba ganush e hummus, ovviamente. Parla arabo, francese, inglese, ovviamente olandese, anche italiano perché c’è stato. Ha vissuto in molti paesi e ne ha sperimentato la burocrazia e le leggi, ha affittato e disdetto, ha comprato e venduto licenze, ha cucinato per molti. Ha visto parecchio mondo per davvero. E a differenza mia sa una cosa fondamentale: che le cose cambiano. E in fretta, pure. Questa è la cosa del mondo e della vita che io non so, che mi sarebbe utile sapere. Per me, europeo, solo la morte e la malattia, un rovescio finanziario se si è imprudenti, cambiano le cose. Ci sono volute una crisi economica disastrosa – “non può fallire un paese”, dicevamo -, una pandemia – “non si può chiudere un paese”, sempre per non vedere l’evidenza – e ora una crisi climatica – ma il numero degli orsi polari non sta calando, si scrive – per intravedere qualcosa. E ovviamente non posso e non voglio contemplare la possibilità di una guerra, non rientra nei miei orizzonti. Che la facciano gli altri. Lui invece tutte queste cose le sa, che poi è solo una consapevolezza determinante: le cose cambiano. E come lo sa lui, lo sa la maggior parte del mondo là fuori, teniamoci strette le scarpe.
E sembra un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato… Ah no, non italiano, olandese. Ecco come si compone un sabato utrechtiano o amsterdamiano: si noleggia un barcone, diciamo da dieci persone, lo si riempie di lattine di birra in un fattore almeno di cinque a uno con i presenti – lattine da mezzo, gente – e si percorrono in tondo i canali della città per ore, fino al termine del carico o finché qualcuno non cada in acqua. Attenzione, però: la cosa va fatta facendo distinzione assoluta tra maschi e femmine, non si mischiano mai. Il perché non lo so, visto che da fuori se non per estetica non si notano differenze. Sarà che si parla meglio, sarà che si fa più camerata. Sarà che così le coppie durano di più.
A Utrecht, dove sono passato di ritorno, le cose stanno come le ricordo: bella città ma non ci vivrei, molto turistica. I canali sono magnifici e hanno avuto la lungimiranza di tornare su decisioni prese, scoprendo vie d’acqua ricoperte d’asfalto decenni fa, in pieno fervore automobilistico. Quando passai di qui erano in vigore le norme di distanziamento con la polizia per strada e sotto erano tutti al bar a bere birra in allegria, città universitaria, che ci vuoi fare? Oggi uguale, per le rive dei canali si cammina a stento. Così, per divertimento la stessa foto di cinque anni fa.
Ad Amsterdam fa freddo. Freddino, diciamo. I corridori della maratona hanno facce e gambe rosse, per lo sforzo e per il freddo. Sono talmente tanti che non c’è modo di attraversare, serve cercare ponti per scavalcarli.
Dopo anni di bagordi e di promozione dissennata della città, oggi Amsterdam sta cercando di superare l’immagine di luogo dove venire a sballarsi e a eccedere il più possibile per una clientela più posata e danarosa che crei meno problemi. Per carità, una parte centrale della città, aggrumata di turisti come forse solo Venezia e piena di locali per addii al celibato e bevute leggendarie di alcolici sottomarca, ancora esiste, si percepisce fin dall’aereo, con Barcellona – altro luogo che cerca di proporsi in modo diverso – è ancora uno dei tunnel del divertimento europeo. Un divertimento sottocosto, fatto di offerte discount e di spasso più da raccontare che da vivere. Il punto di una scelta di riqualificazione è trovare il modo giusto, che non sia sempre lo stesso: alzare i prezzi. E così è, qualcuno non se la può più permettere, tutti gli altri pagano, soprattutto i cittadini e le botteghine. Ed è qui che, per età e capacità di spesa, mi sento ancora chiamato in causa. Lo ero allora, per spendere poco e senza agio, lo sono oggi per sistemazioni comode e confortevoli, care per quanto acquistato.
Dovevamo essere cinque, sull’aereo salgo uno. La destinazione scelta doveva far piacere in particolare a due compagne di viaggio, alla scoperta di una capitale ancora ignota, ci vado io che ignota proprio non è: facendo mente locale, a occhio posso dire 2004, 2015, 2020 (due volte, una a ridosso del covid, l’altra a risarcimento), 2023, 2024, che mi par fin giusto metterci il 2025, quasi ormai un appuntamento annuale. È dunque un minidiario a bassa intensità, nessuna grande scoperta presumo, avventure ridotte ma mai dire mai, come diceva quello, che non si sa mai quello che al mondo ci può capitar, dicevano quegli altri. Organizzata come una visita classica da prima volta, ci sono alcuni appuntamenti inderogabili: due grandi musei prenotati, albergo preso. Quindi pochi giri fuori, va bene così, avevo già fatto una allegra ma inutile guida sul concatenamento Haarlem, Leida, Delft, ed ecco svelata la destinazione: Amsterdam. Ho sentito che possa andare peggio. Vediamo che riesco a organizzare nell’unico giorno libero da cose in città. Perché, dunque, farne un minidiario? Ma che ne so, devo sempre rispondere a tutto io? Vado, è bello, sto a zonzo, i giorni erano tenuti liberi apposta, qualcosa succederà. E se non, racconterò il non. Mica è sempre Caucaso, per fortuna. E poi poche sbruffonate, la città è talmente enorme che ne resta molta e inaspettata, basterebbe il Zuid. Comunque, l’avventura vera sarebbe stata la compagnia e il diletto dei miei compagni di viaggio, a loro dedico questo breve giro in attesa di recuperare quanto prima l’occasione ora sfuggita.
Sebbene spietatamente piatti e per buona parte appoggiati su fondamenta di sabbia, il paesaggio naturale è predominante nei Paesi bassi. Certo, educato e organizzato, il canale qui e il confine lì, il ponticello e la strada senza dimenticare una qualche grossa azienda sullo sfondo, ma ciò che si coglie di più è il verde di campi, prati e boschi, il marrone di piante, canali e mattoni, il riflesso del cielo nell’acqua, un certo silenzio generale che da noi esiste solo la mattina del primo dell’anno. Ora che cadono le foglie, gialle e di mille aranci, è una successione di cartoline di quiete e ordine aggraziato. Considerato che in un’ora al massimo di treno da Amsterdam si arriva ovunque nei Paesi, tutto viene facile. Per la gita fuori porta di oggi sono venuto ad Amersfoort, graziosa cittadina a est di Utrecht, che ebbe un certo ruolo durante la guerra, testimoniato dai resti di un campo di prigionia tedesco e da un esteso cimitero di guerra con una vasta parte sovietica. E città natale di Mondrian, en passant, per fare della cultura.
Tutto è confortevole, facile, sorrido con un cenno del capo all’uomo con il barattolo di pittura, faccio due chiacchiere con l’aviere in divisa che scatta la mia stessa foto del campanile sul canale, saluto la donna con la bambina piccola quando mi sorridono, osservo curioso l’enorme negozio di attrezzi per il giardinaggio, ho accettato di buon grado di pagare un euro in più per il doppio espresso da portar via in un contenitore riutilizzabile, così tornerò, cedo il passo alla coppia paonazza in volto che attraversa il ponte sul canale in bici. Le biciclette scorrono via silenziose, difficile venga in mente a qualcuno di mettere una carta tra i raggi per fare casino, qui. Tutto molto riposante, le tinte scelte per questo paesaggio nederlandico autunnale inducono a calma e serenità.
È tuttavia una facilità che costa, serve che il sistema non abbia troppe interferenze esterne perché regga, le risorse devono entrare e devono uscire prodotti se si vuole mantenere l’equilibrio. Vado a memoria, tre delle prime dieci aziende del mondo per fatturato sono olandesi, questa pace fatta di vacche, acqua, formaggio e casette stupende da qualche parte si deve alimentare.
Sarà che sto leggendo Our daily war di Andrei Kurkov, diario scritto dall’Ucraina assediata, sarà che ripenso ai miei viaggi recenti, alle pianure del centro Asia, al nordafrica, alle ex repubbliche sovietiche, non posso non notare quanto carburante, metaforico e non, serva per tenere in equilibrio un sistema come questo. Io sono uno di loro, europeo, vivo più o meno allo stesso modo, anche fisicamente gli assomiglio, per quello mi salutano. Sono cortesi e amichevoli, rispettosi e quieti come già più a sud non siamo ma, l’ho già detto in tutte le salse, tendiamo a scambiare indifferenza per tolleranza. Le relazioni tra estranei si fermano a un punto ben preciso. E non c’è niente di male, sia chiaro. Basta essere coscienti di vivere in un sistema abbastanza chiuso, permeabile alle merci ma meno alle persone. Facendo della facile retorica, il baretto fatto di quattro sedie, una bombolona di gas e l’ombra di un fico nel niente azerbaigiano, che appena ci si avvicina si anima, si alzano tutti, ti cedono una sedia e poi si brinda fino allo sfinimento con interminabili sorrisi e pacche sulle spalle senza che nessuno capisca un’acca di quel che si dice, beh, qui non c’è.
Niente di male, ripeto, è anzi pure più faticoso il baretto sociale, è solo che siamo un po’ tutti uguali e tutti un po’ spompati, qui. Con la nostra copertina sulle gambe, è iniziato il freschino, fuori dal caffè sul canale, chiacchieriamo piacevolmente scegliendo tra dolce e salato, ci godiamo il sole, il vento e il glicine rigoglioso sopra la testa, con una vaga e poco confortevole sensazione di fondo che le cose, nel frattempo, sotto sotto e piano piano, stiano un po’ sfuggendo al nostro controllo.
A metà settembre è mancato Fausto Amodei, cantautore e politico di sinistra italiano, autore della canzone di protesta “Per i morti di Reggio Emilia”. La canzone, scritta per ricordare le vittime della strage in cui morirono cinque operai del PCI colpiti dalla polizia durante una protesta sindacale contro il governo Tambroni appoggiato dall’MSI, è secondo me la canzone politica più bella del dopoguerra. Nel senso politico della cosa ma anche in quello musicale, a me piace proprio anche per quello. Interessante quanto disse lo stesso Amodei a tal proposito: «Per ribadire anche musicalmente il carattere resistenziale e neo-partigiano della canzone e dei fatti narrati, partii dalla constatazione che la più celebre canzone partigiana, Fischia il vento, si serviva di una melodia russa, Katiuscia, imparata presumibilmente da alpini dell’ARMIR […] e volli dare un carattere decisamente di inno sovietico alla melodia, prendendo a prestito un breve risvolto melodico tratto da I quadri di un’esposizione di Modesto Musorgskij».
Già è difficile normalmente, se poi recensore e recensito sono due picchiatori verbali le cose non possono che migliorare. Nel 1971 Norman Mailer pubblicò Il prigioniero del sesso, pamphlet polemico nei confronti della letteratura femminista del tempo. La «New York Review of Books» chiamò per la recensione Gore Vidal, allora i rapporti tra i due dovevano ancora iniziare e lo fecero nel migliore dei modi: Vidal definì la lettura del saggio come un’esperienza simile a «tre giorni di flusso mestruale». Nel 1977 a una festa, Mailer stese con un diretto Vidal ma nel mezzo ce ne furono di ogni colore e gusto. Le racconta Giulio Passerini in ‘Inimicizie letterarie’.
Dice Le Pen: «La cosa che forse le invidio – dice Le Pen – è l’enormità del piano di rilancio che ha riguardato l’Italia e che noi, la Francia, andremo a pagare. Con 240 miliardi di Pnrr ricevuti dall’Unione europea è più semplice». Come nel 2024, il sospetto è quello dell’asse Le Pen-Salvini, il presidente lui italiano si irrita, Conte titolare della pratica al tempo si sente di dover intervenire e bon, quelle piccolezze lì.
Sala da ballo prima, poi da concerti, la Barrowland Ballroom o Barrowlands di Glasgow è un magnifico posto in cui andare a sentire concerti ballando – e io lo feci, per fortuna, con Alison Goldfrapp -, si guardi Waterfront dei Simple minds, il video, per conferma. Famosa l’insegna che, narra la leggenda, fu spenta durante la guerra perché usata come riferimento dai bombardieri tedeschi. Con quella ‘r’ lampeggiante così appropriata.
Fifty-nine seconds of anything, whether or not it has any intrinsic meaning and something to immortalize. Preferably with the smallest means possible.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più compassionevole dello scendiletto, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.
Ovvero la magia e il mental coaching. Come resistere?
Mi scrive questo Rolfo la cui qualifica professionale non può lasciarmi indifferente:
Sì, ingegnere della felicità con le solite maiuscole a caso. Perché “la felicità è una scelta”, come dice l’ingegnere, scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo. Vado. Ma se poi sto bene sul posto di lavoro non è che poi sto lì di più?
facciamo 'sta cosa
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