ecco, adesso ho l’ansia (il prototipo del piccolo uomo)

L’editoriale di Giovanni De Mauro su Internazionale di venerdì scorso:

Mai fidarsi della prima impressione. Lo storico Timothy W. Ryback, di cui la settimana scorsa abbiamo pubblicato un articolo che raccontava i cinquantatré giorni bastati ad Adolf Hitler per rovesciare la democrazia in Germania nel 1933, torna su quel periodo per descrivere in che modo la stampa aveva parlato del dittatore nazista prima che arrivasse al potere e subito dopo. In un articolo uscito sull’Atlantic, Ryback scrive che “uno dei più grandi errori giornalistici di tutti i tempi fu commesso da una delle più grandi giornaliste di tutti i tempi. Nel dicembre del 1931 la leggendaria reporter statunitense Dorothy Thompson si assicurò un’intervista con Adolf Hitler, il cui partito nazionalsocialista era in piena crescita. ‘Ero convinta di incontrare il futuro dittatore della Germania. In meno di un minuto fui certa che non lo era. Mi ci volle un attimo per misurare la sorprendente insignificanza di quest’uomo che stava mettendo in agitazione il mondo intero’”. Nell’articolo uscito su Cosmopolitan, Thompson lo descrisse così: “È scostante e volubile, maldisposto e insicuro. È il prototipo del piccolo uomo”. La giornalista non fu l’unica a sbagliarsi. Arrivarono alle stesse conclusioni gran parte della stampa tedesca, dei corrispondenti stranieri e molti osservatori politici. Il settimanale Die Weltbühne titolò: “Adolf è l’uomo delle occasioni mancate. Nel 1932 aveva la strada spianata. È inciampato. È caduto”. Il piccolo uomo ridicolizzato da Thompson era lo stesso poi diventato cancelliere nel 1933. Scrive Ryback: “L’uomo non era cambiato, erano cambiate le circostanze. Ed era rimasto costante il legame emotivo di Hitler con i suoi sostenitori”. Vista con gli occhi di oggi, l’ascesa di Hitler sembra ineluttabile, e in un certo senso lo fu. “Ma immaginare in anticipo la serie di eventi che portò al potere una figura tanto improbabile avrebbe richiesto straordinarie doti di chiaroveggenza”.

Mi scuso con Internazionale per la ripubblicazione integrale – ho lasciato passare una settimana – ma, come detto, mi è venuta l’ansia.

il grande Bernie Sanders

È apparso a sorpresa sul palco del Coachella.

This country faces some very difficult challenges” ha detto, “and the future, what happens to America, is dependent on your generation“. Ma attenzione: “And you can turn away and ignore what goes on, but if you do that, you do that at your own peril“. Sanders ha ottantatre anni e si impegna in lotte che spetterebbero a noi, a me per primo. Quando ha citato il presidente, il pubblico è scoppiato in un enorme buuu, ha aspettato la fine e ha detto: “I agree“. Quest’uomo è un colosso in un piccolo corpo e dovremmo imparare da lui, santoddio, invece di star qui a scrivere post come sto facendo io.

oggi qui si festeggiano i cosmonauti

Oggi è il giorno del cosmonauta ed è giorno di festa, qui. Ricordo che non basta fare il corso per essere cosmonauti, bisogna proprio esserci stati. E Yuri ci fu, perdio, eccome, il 12 aprile 1961, come annuncia festante il Daily Worker del giorno dopo.

E allora per far festa, su subito Gagarin dei Public Service Broadcasting, che ascolto a volume alto e il cui video mi fa ridere parecchio:

Evviva i cosmonauti, evviva il comunismo, evviva chi si è sposato oggi e pace per tutte le donne e gli uomini della terra.

hic sunt… leones?

Io a Nîmes ci andrei a vivere di corsa. Unico difetto per me? Essere un po’ fuori dalle direttrici di trasporto, non è comodo andare ovunque. Ma, forse, questo è anche il motivo per cui è rimasta una città così vivibile, fuori dalle mire dell’overtourism.

L’elemento più noto della città, con la maison carrée, è l’arena. Imponente, bella, mantenuta. Lì dentro di boiate ne fanno un sacco, ancora oggi, una meno e di certo scenografica è l’UTS Bastide Médical Nimes, torneo di tennis su due giorni, proprio dentro dentro.

Anche il colpo d’occhio generale non è per niente male, certi chiamati Romanes avrebbero un punto interrogativo sulla testa. Oggi ha vinto il più grande giocatore norvegese di tutti i tempi, Casper Ruud.

Dopo, gita fuori porta allo strepitoso Pont du Gard.

la felicità è un diritto di tutti

Oppure: perché usare il cavo FG17 al posto del FG17? O ancora: è giusto cambiare un Differenziale di Tipo AC o Tipo A con uno di Tipo F? Eh, sì, no, chissà. Saperlo. Siccome, però, c’è un sogno per ogni persona, una storia per ogni individuo, c’è anche un podcast per ogni crapa: ‘elettricista felice‘ di Alessandro Bari è il podcast “di idee, novità e cazzeggio per elettricisti felici”.

Sottotitolo: “Che guardi su YouTube ed ascolti su Spotify mentre guidi il furgone”, ovviamente bianco. A un centimetro dal mio baule a centoquaranta all’ora, ci scommetto.

art nouveau inglese: un negozio a Nottingham

Tra gli edifici inglesi costruiti in stile art nouveau uno dei più significativi fu disegnato da Albert Nelson Bromley a Nottingham per Boots the Chemist, prima una modesta farmacia che vendeva decotti e poi un’enorme multinazionale ancora esistente. L’edificio, del 1902-05 tra High e Pelham Street, fu venduto nel 1972 e ora è di un’altra nota multinazionale.

All’interno sono ancora visibili le colonne in ferro, in stile anch’esse. Le delicatissime colonnine di legno tra le vetrine sono notevoli e ancor di più è che si siano salvate. Non solo il negozio è gradevole ma l’edificio tutto, di interesse storico di secondo grado.

Partendo da Nottingham, appunto, poi Bromley fece molti negozi per Boots the Chemist in Gran Bretagna, diventandone di fatto l’architetto di fiducia. Boots è ancora un colosso e la si ricorda, tra le altre cose, per aver sviluppato l’ibuprofene negli anni Sessanta.

minidiario scritto un po’ così di un breve giro yorkshiriano: quattro, è possibile nutrirsi in maniera più equilibrata e sensata?

Presente quei musei in cui all’inizio della parete c’è un disegnino che riproduce le posizioni dei quadri numerati e che riporta tutte le didascalie insieme? Io li trovo di una scomodità estrema anche se, in effetti, mi costringono a guardare le opere come dovrei fare sempre, disinteressandomi della notorietà dell’autore e valutandole per il loro valore intrinseco. Comunque, la Graves gallery di Sheffield è organizzata così e trattandosi della collezione del signor Graves, ricco mecenate che, caso raro a Sheffield, fece fortuna non con l’acciaio ma con la posta, c’è di tutto, accostato senza remore cronologiche.

Mi accorgo di una cosa, finisco con calma il mio giro mentre organizzo mentalmente la complessa spiegazione e poi avvicino l’impiegata alla porta: salve, stavo osservando le due stampe di Dürer e mi sono accorto che sono invertSaynomore, mi dice allargandosi in un sorriso di soddisfazione, lo sa e da tempo ha segnalato la cosa. Si alza e mi stringe con convinzione la mano e, non placata, chiama la direttrice, anch’essa prodiga di pubbliche manifestazioni di affetto, contenta forse che qualcuno abbia guardato la loro collezione con un minimo di attenzione. Le due xilografie di Dürer sono invertite rispetto allo schemino delle didascalie, io che sono cresciuto nel brodo primordiale del cattolicesimo romano ben distinguo un Noli me tangere da una cacciata di Adamo ed Eva, non che serva molto. Lo sanno, evidentemente stanno attendendo il Royal Switcher da Londra, il solo autorizzato e competente per togliere una cornice da un chiodo e appenderla all’altro, rifacendo l’operazione in senso opposto. Mi viene voglia di chiedere da quanto tempo l’incresciosa situazione permanga ma l’insinuazione si farebbe esplicita e potrebbero non apprezzare. Saluto cordialmente e mi allontano da eroe culturale del giorno, indietreggiando lentamente facendo cenni con la mano. Fare il gesto del podio, con le mani unite a destra e sinistra della testa sarebbe forse eccessivo.

Bene, ora che sono le quattro passate da poco e che ho raccontato il sapido aneddoto – e ho cercato di farlo alla maniera del DFWallace di Una cosa divertente come mio divertismento – è ora di spiegare in dettaglio il mio piano nutritivo cui accennavo qualche giorno fa: il monopasto estemporaneo.

L’immagine è esemplificativa e riguarda la dieta inglese che sto facendo io in questi giorni e che non raccomando a nessuno sano di mente. Ecco invece la mia teoria nutritiva che tanto bene porterebbe all’umanità se divulgata: una sobria colazione, caffè o tè, yogurt o frutto, e poi un unico pasto da consumarsi all’ora del giorno che si predilige, senza farsi frenare da trite convenzioni. In esso, è lecito mescolare elementi nutritivi e culturali del mattino, pranzo, sera e dopocena senza remore e senza ordine: cappuccino, bistecca, gin, insalata, pesce, minestre, torta pastiera, anche come rivolta verso le convenzioni e le abitudini. Per esempio, io a una colazione prima delle otto faccio seguire il monopasto verso le quattro, ovvero circa otto ore dopo, così da avere poi tempo dopo per andarmene a spasso, scrivere, leggere abbondantemente prima della notte. Il fatto di non consumare nulla tra questo monopasto e la colazione del mattino successivo è un elemento che concorda anche con le attuali raccomandazioni all’intermittenza. Si tratta, dunque, di formalizzare per il turbamento delle nostre madri un Unico Fuoripasto, se possibile da consumare senza ripetere un orario ma facendolo slittare ogni giorno un po’ in avanti o indietro, a seconda. Il pasto stesso deve esulare da ogni forma di ripetizione: sostanzioso se la fame è molta, poco punto se lo stomaco non chiede. La sola difficoltà dell’Unico Fuoripasto sono le abitudini alimentari e culturali: più facile nei paesi nordici dove le cucine sono aperte quasi tutto il giorno, più complesso nei paesi in cui, come l’Italia, si attribuisce a orari e abitudini una certa sacralità culturale che è proprio quella che io, con la mia teoria nutrizionale, voglio abbattere. Gli elementi di contrasto con l’attività lavorativa – scusa sto mangiando a un’ora qualsiasi – e con la rete relazionale – venite a cena da noi alle tre e mezza, stavolta? – troveranno poi spontanea sistemazione una volta che l’Unico Fuoripasto diventerà sistema.

Lascio Sheffield, le sue industrie e la sua scena musicale – alcuni nomi: Def Leppard, Joe Cocker, Arctic monkeys, the Human League, Heaven 17, Thompson twins, Pulp, Cabaret Voltaire, tutti nomi datatini ma così lo sono io – e mi dirigo a Lincoln, città distante poco più di un’ora di treno e al centro, appunto, del Lincolnshire. Ogni ascendenza da qui su città, presidenti, auto americane è reale. C’è anche una Boston a poca distanza da qui. Lincoln è città romana e celtica ancor prima, è nota per essere una gradevole città media con una cattedrale normanna colossale e impressionante. Nonostante sia difficilmente fotografabile, causa dimensioni e vicinanza delle case, provo a cadaunarne una foto, perché una facciata così proprio mai mai vista:

Narrano alcune cronache che la guglia centrale, alta centosessanta metri, sia stata per un paio di secoli l’edificio più alto del mondo dall’epoca delle piramidi prima di rovinare a terra a metà Cinquecento. Ma va detto che non ci sono prove inconfutabili di questa cosa, a parte qualche testimonianza sporadica. La cattedrale, protetta da una porta e una cinta di mura proprie, spavalda a fronte del castello, è talmente enorme e ricca e slanciata da causarmi una piccola sindrome di Stendhal, per cui mi rendo conto che tutta l’archeologia industriale degli ultimi tre giorni non basta, almeno a me, a colmare le necessità e le aspirazioni estetiche ed emotive. Il numero di elementi e di dettagli di interesse è talmente sovrumano che richiederebbe una guida apposita e, siccome esistono, è a quelle che rimando.

Dopo qualche muro romano resto di basilica, due righe di Tennyson che veniva da queste parti, una torre dell’acquedotto in stile, una discesa ardita, me ne vado a camminare, come ormai d’abitudine, sul bacino locale, il Brayford Pool, e lungo il canale principale, il Foss Dyke. Il canale, oltre alla ragione industriale come gli altri visti finora, avrebbe ragion d’essere nell’unire i fiumi Trent e Witham e per questo motivo sarebbe molto molto più antico, risalendo a certi chiamati Romanes che quando qui vestivano ancora le pelli di pecora scavavano canali e costruivano ponti e strade. Il che farebbe del Foss Dyke il canale ancora in uso più antico d’Inghilterra, condizionale perché anche qui gli studi e le fonti non concordano. Per quanto riguarda me, figuriamoci se non ci vado a camminare.

Il sistema di cose ha senso, il canale romano incontra a Lincoln la strada romana, la Fosse Way, che parte a Exeter e passando da Bath arriva fin qui. La strada non si scosta mai più di sei miglia dalla precisa linea retta e se non è romano questo, non so. Anche il canale è davvero rettilineo, la cattedrale si staglia là in fondo, bella visibile da lontano.

Ecco, ho scelto l’unica foto da cui si vede che curva. Immagino quante volte nella storia un mercante, pellegrino, chierico vagante, barcarolo si sarà sentito dire di proseguire dritto finché non avesse visto le torri della cattedrale emergere dalla piana. E così è anche per me. Per vedere quella dopo, intendo di cattedrale, bisogna andare a Durham, più su, uno dei miei prossimi obbiettivi. Mi raccontano la bella storia di William Ross Hendry che condusse la sua barca, la Mary Gordon, per migliaia di volte lungo il Foss Dyke tra Lincoln e Saxilby, portando turisti, cittadini che andavano per il mercato o una bella bevuta lungo il canale al Pyewipe Inn, scolari. Hendry, un vecchio marinaio già naufragato due volte, sulla sua Mary Gordon faceva sempre suonare e cantare, di giorno e di notte, descrivendo la sua attività come la più bella di tutte. E dicendo fino alla fine: “Come non siamo mai andati a sbattere o affondati non lo saprei proprio dire”. Che bello spirito.

In onore di Hendry, della sua barca e del suo atteggiamento verso la vita e gli altri ma, anche, verso il canale, i Romanes, la cattedrale, i normanni e i lavoratori dell’acciaio, i vescovoni, i contadini e chiunque mi venga in mente, vado all’Horse & Groom, come si conviene, e dopo un certo tempo consumare il mio quotidiano Unico Fuoripasto. Domani, poi, un treno con destinazione Cardiff per scendere prima, a Birmingham, un breve giro sui canali se il tempo lo concede, un ascolto a British steel dei Judas Priest, tutto locale, e bon, si torna. C’è una morale, un insegnamento, un consiglio, alla fine di questi giorni? No, non c’è. È stata una scampagnata, bella, come spero ce ne saranno molte altre, in giro per quel sacco di mondo là fuori che merita di essere visto. Beh, però, a parte l’unico vero fondato sano e valido suggerimento: la pratica dell’Unico Fuoripasto. Quello sì.


uno | due | tre | quattro

una cosa tra te e me (XXI)

Il presunto autoritratto di Van Eyck è di certo una cosa che apprezzavi o potresti aver. Secondo me la prima, che le Fiandre le avevi approfondite. Lo sguardo dell’uomo è diretto, potente, uno dei pochi che possa competere con Antonello da Messina. E quel misterioso turbantone che ogni domanda rende lecita è un elemento che avremmo, senz’altro anche questo, apprezzato entrambi.