Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. Vado a Jena, sulla scorta della sua famosa università – basti citare la triade Fichte, Schelling e Hegel – più che per informazioni attuali. A volte è meglio andare a vedere di persona. Fu a Jena nel 1806 che Hegel vide sfilare Napoleone e lo definì, è noto, “anima del mondo”, concentrato in quel punto esatto, in quel momento, mentre andava a cogliere una delle vittorie più clamorose delle sue campagne, dissolse in sostanza l’esercito prussiano, ormai lontano dalla disciplina e abilità di Federico il Grande. E andiamola, ‘sta Jena.
Era l’università di Heidelberg, forse di Jena, cantava il grande Ricky Gianco in Fango, ma in programma c’erano i cubi, purtroppo. Gran canzone. A Jena trovo pochetto, lo sospettavo dalle scarse notizie, un bell’osservatorio dovuto a Carl Zeiss, il migliore fornitore di lenti mai avuto, e poco altro, il centro è sconnesso, i dintorni graziosi ma residenziali, l’università imponente e ancora prestigiosa. Capita di esaurire le visite in poco, piglio la via delle colline per vedere meglio e sgranchirmi ma ci metto comunque poco a capire che non varrebbe la pena fermarmi qui un giorno. Stazione, treno, prossima tappa: Dessau.
Quando nel 1925 la neoamministrazione destrorsa di Weimar diede lo sfratto alla Bauhaus, parecchie città si offrirono di accogliere la scuola. Per posizione, offerta, connessione industriale la spuntò Dessau. Ed eccomi qui. C’è una zona a nord della città, verso l’Elba, in cui la scuola, le case dei docenti, le strutture per gli studenti, le abitazioni costruite da Bauhaus per le aziende della città, le vie, le zone di espansione, tutte parlano la lingua della Bauhaus.
I balconi della scuola, ancora quelli ed evidentemente solidi, in alcune fotografie d’epoca raccontano anni di gioia, comunanza ed esplosione creativa, nonostante alcune nubi che già si percepivano.
Perché l’esperienza della scuola, soprattutto nei primi anni di Weimar, era un’esperienza totale: non solo principi di progettazione tecnica, di architettura, di scienza dei materiali ma, insieme, scenografia, disegno di costumi, progettazione dei font e di tutta la grafica, organizzazione dell’annuale festival Bauhaus con tanto di gara di aquiloni. Era il posto giusto in cui essere, avendo un minimo di fantasia e aspirazione. Vicino alla scuola, all’inizio del bosco, quattro case – ovviamente in stile Bauhaus – dedicate agli alloggi degli insegnanti. In una di esse, la doppia ai civici sei e sette della via, abitarono a un certo punto porta a porta Klee e Kandinsky. Buongiorno Paul, tutto bene? Non me ne parlare, Vasilij, oggi ho quattro ore e la correzione dei compiti.
All’inizio degli anni Novanta, alla caduta della DDR, erano in condizioni disastrose, qualcuno allora potendo le comprò e oggi ci vive. Con qualche vincolo, immagino, ma non dev’essere malaccio, immagino osservando la donna che fuma da una delle finestre.
Tutta la città doveva essere in condizioni miserevoli sotto la DDR, immagino osservandola com’è ora. Si dev’essere presa una bella dose di bombe alleate, data l’industria e la vicinanza al fiumone, deve aver subito una ricostruzione al minimo con i classici spazi vuoti e condomini corvialoni infilati negli spazi, poi dopo il novantuno, come sempre, centri commerciali nei vuoti e tutto sommato un’aria disarticolata ancora oggi. In piazza, una buffa statua di Gorbaciov magrissimo con indosso un piumino di quelli di oggi, sottili e a quadratini. Va’ a sapere lo scultore. Bello il museo dedicato alla Bauhaus, non molto differente da quello di Weimar, sono le strutture però che meritano una visita. Ora, le riflessioni di fine giornata, domani spostamento ancora un po’ più a nord.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. Dopo dodici minuti di treno da Erfurt sono, di nuovo, a Weimar. Di nuovo perché ci fui nel maggio 2008 (undici), rimando ad allora per descrizioni più piane e complete. Di Weimar dico che è la Gardaland della cultura, nel senso che è tutto talmente fitto che basta scegliere le attrazioni che si preferiscono: la casa di Goethe? Basta attraversare la strada e c’è quella di Schiller. E Bach? Là dietro, due vie più in là c’è casa e la chiesa dove suonava. Ne dico un po’: Cranach, Lutero, Bach, Wieland, Herder, Wagner, Liszt, Strauss, Nietzsche, Mann, Goethe, Schiller, Heine, Puhskin, Klee, Gropius, Kandinsky, i principi di Turingia, forse Shakespeare, Schweitzer, sono solo alcuni, quelli che conosco io, di coloro che vissero o passarono da Weimar. E poi la Repubblica, la fondazione del Bauhaus, Buchenwald è la dietro il bosco di faggi, appunto. Il tutto in un paesotto che è più piccolo di Colgate al Piano. Se uno, me, ha proprio voglia di camminare, si fa tutto il parco del palazzo del principe e in fondo in fondo entra nella cappella dove è sepolta la dinastia e Goethe e Schiller lo sono fianco a fianco. Difficile di più.
C’è un libro ben riuscito che parla di questo, del decennio favoloso in cui le intelligenze tedesche si ritrovarono nello stesso quartierino e inventarono l'”io”: è Andrea Wulf, Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’Io, è un libro molto piacevole, come il suo precedente su von Humboldt. La concentrazione è pazzesca, nemmeno il Brasile del 1970 aveva così tanti fuoriclasse in formazione, impossibile dimenticare lo sketch dei Monty python in cui la nazionale tedesca dei filosofi stracciava quella greca antica. E qui non c’era Marx.
Nel 2008 il museo sulla Bauhaus era un museino ospitato temporaneamente nella sede della Repubblica, oggi è un museo e in apposita sede architettonicamente coerente per cui vado senz’altro. Forse non tutti sanno che la Bauhaus sia nata a Weimar e non altrove. Forse non tutti sanno che sia la Bauhaus, come ho appena appurato al telefono e davo scioccamente per scontato, ma a quello non sta a me mettere una toppa qui. Lamentavo nel 2008 come non avessero del merchandise appropriato al bookshop, visto che Bauhaus di fatto e già merchandise pronto, almeno parlando di tazze e oggettistica varia. Oggi hanno recepito, bravi, e il negozio è grande tanto quanto il museo. Bauhaus fu una scuola di arti applicate, in relazione alla nascente produzione industriale e allo sviluppo tecnologico dei materiali, e fu una fucina di innovazione clamorosa, sempre attenta all’aspetto umano. La necessità della produzione in serie, soprattutto in ambito abitativo per rispondere alla grande domanda di case dopo la prima guerra mondiale e in momento di iperinflazione, di fatto nascendo da propositi umanissimi e progressisti in realtà offrì una sponda effettiva al nascente nazionalsocialismo e alla massificazione del popolo. Gropius, che fu direttore e mente della Bauhaus, disegnò il maggiolone che poi, vedi tu, diventò l’auto dei nazisti, per fare un esempio piccolo e sciocco. Due nomi tra gli insegnanti alla Bauhaus? Intendo quelli che ti entrano in classe e ti spiegano le cose dalla cattedra, sì: Klee e Kandinsky. Capito che roba?
Tanta cultura servì poi a evitare derive reazionarie? Ovviamente no. Non appena fu eletta un’amministrazione più a destra a Weimar già nel 1925 ci mise pochissimo a tagliare i fondi alla Bauhaus e a farla sloggiare. Tutti i Goethe del mondo non bastarono, o probabilmente fu proprio per quello, e a pochi chilometri dalla città fu aperto il campo di concentramento di Buchenwald, maggio 2008 (dodici), ne scrissi pagine che considero decentemente ispirate. Nel 2008 là feci un giuramento, a fianco di quelli che lo fecero l’11 aprile 1945, bene ricordarmelo – perché non è che io stia facendo granché – e rinnovarlo ancor più di questi tempi in cui il settantanove per cento degli israeliani si dichiara ‘non turbato’ dalla situazione umanitaria a Gaza. Mica è solo Netanyahu, eddai.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza, strappo i giorni che riesco. La mia tappa successiva del concatenamento di città medie tedesche della Turingia e Assia è Erfurt. La città è graziosa, con tutte le cose giuste al proprio posto, la via Regia che l’attraversa e il famoso ponte medievale.
Su un canaletto derivato dal fiume Gera per dotare il centro città di una via d’acqua, che a dirla onesta sarà profonda al massimo otto centimetri nelle zone delle rapide tumultuose, sorge il Krämerbrücke, il ponte dei bottegai. Bello, cinque arcate di pietra e case addossate ai lati che pare di essere in una via normale, quando nei pannelli lo storico dell’amministrazione locale lo promuove come ‘unico al mondo’ verrebbe da aggiungere Firenze e aggiungo io, che un paio di ponti con le botteghe li ho visti, il Pulteney bridge a Bath. In piazza, la pizzeria Pavarotti fronteggia spavalda il ristorante Fellini e io non potrei proprio essere più orgoglioso dei miei connazionali. Ho una storia su Erfurt, mi è tornata in mente, e, prima di raccontarla che è difficile, vorrei celebrare ancora una volta i supermercati tedeschi, in cui si può pigliare una ciotola, media o grande, riempirla delle verdure che si prediligono, condirle, pesarla, prendere posate e quanto serva gratuitamente, pagare e andare felici a consumarla ove si preferisca.
Ci fosse in Italia, ci pranzerei e cenerei ogni giorno.
Ecco la storia. La ditta J.A. Topf und Söhne di Erfurt, fondata a fine Ottocento e che produceva prodotti per il riscaldamento, colse una certa opportunità commerciale con l’avvento del nazionalsocialismo, anzi in particolare con una certa politica nazista di eliminazione delle persone. Perché non fare confluire le competenze dell’azienda nella costruzione di forni crematori e camere a gas? Un successone, commesse per i campi di Auschwitz, Birkenau, Mauthausen, Dachau, Gusen, Buchenwald e così via, maggiori e minori. D’altronde non solo la competenza era di alto livello ma anche la dedizione dell’azienda con cui si applicava nel trovare soluzioni tecniche ai problemi dovuti a un numero sempre crescente di persone da liquidare era davvero straordinaria. Trovarne di fornitori così. Innovativi sistemi di ventilazione dei forni e delle camere a gas, così che gli operatori, per carità, non corressero alcun rischio; la felice intuizione di accostare le camere ai forni così da utilizzare il calore di questi per innescare la sublimazione dei cristalli di gas alla giusta temperatura; qualora questo non fosse possibile, comode tabelle per sapere quante persone andassero stipate per metro quadro nelle camere a gas per scaldare a sufficienza i cristalli e innescare la reazione a gratis, che convenienza. Tanta e tale bravura fu premiata, la divisione aziendale che si occupava di forni divenne leader di mercato e l’azienda nel 1942 depositò l’innovativo progetto di “un forno di cremazione di massa e continua di corpi”. Così tante teste dedicate a così tante innovazioni. Capito come si fa a non vedere? Basta mettere le banconote sugli occhi. La prima difesa dei fratelli e figli Topf ad aprile 1945 fu sostenere che non sapessero a cosa sarebbero poi serviti i forni, poi, constatata l’insensatezza delle parole e delle tesi, a fine maggio, fu tirarsi un colpo in testa un Topf e fuggire l’altro. Erfurt rimase in Germania est e i sovietici, i cattivi, chiusero tutta la fabbrica e processarono fino all’ultimo dei dirigenti, a ovest, dove c’erano i buoni che per carità i lavoratori, fu permesso a un paio di Topf scappati di là di reimpiantare l’azienda, forni per pizza?, fallita poi nel 1996 per mancanza di liquidità. I nipoti chiedono ancora la restituzione di ville e soldi ma per fortuna qualche bravo giudice dice ancora di no e spiega loro il giusto senso delle cose.
Erfurt ha un’enorme cittadella fortificata che la domina e che deve aver ospitato guarnigioni e guarnigioni alla bisogna, raramente ne ho viste di così grandi. E sì, ha un ascensore per arrivarci, per chi non se la sentisse di farla a piedi, questo lo dico per chi vivesse in città in cui si discuta dell’argomento. Anche il centro è grazioso e come già dicevo ha tutto al posto giusto. Ma la cosa più bella del giorno è una giovane mamma che si toglie uno zaino gigantesco dalle spalle, peserà almeno venticinque chili, si toglie gli scarponi ed entra nell’acqua del canale per rinfrescare i piedi. Attorno, tipo anatroccoli, tre ragazzini ciascuno con il proprio zainetto colorato, con dentro chissà quali cose utili, probabilmente la dotazione minima cappello-panino-acqua, che le girano attorno e tentennano sul discorso piedi-nell’acqua. Se, come presumibile, lei si sta portando i tre giovani virgulti in vacanza a piedi in giro per la via Regia o quella barocca o comunque per queste zone, beh, ha tutta la mia sconfinata e sincera ammirazione. Donne coraggiose e ricche di iniziativa, quante ce ne servono. La sua presenza mi rimette anche un po’ a posto il magone per i Topf e quel genere di umanità lì. Grazie. Ora vado a pensarci come faccio ogni sera.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Proseguo il concatenamento di città tedesche dell’Assia e della Turingia e da Fulda vado a Gotha, saltando Eisenach. Forse un errore.
Gotha, anche nelle sue varianti di Gotham e Golgota, per Gugol e assessori alla cultura improvvisati, è proverbiale proprio perché a metà Settecento qui si compilò e si continuò a stampare l’almanacco della nobiltà europea ed era fondamentale essere menzionati. Essere nel Gotha, dunque, ovvero essere nell’empireo di qualcosa, nel gruppo ristretto, significa avercela fatta, in qualche maniera e se ovviamente uno ci tiene.
Io no, non desidero far parte di alcun gruppo ristretto, anzi preferisco annacquarmi nei gruppi e nelle categorie più ampie possibile, tant’è che per dire scrivo queste cosette in forma anonima da una vita. Quindi non sono qui per controllare l’almanacco ma per completare una visita di quattro anni fa a Coburgo: poiché il Casato è di Sassonia-Coburgo e Gotha, ovvero i discendenti dei Wettin che regnano tutt’ora su Belgio e Inghilterra, per via dell’Alberto di Vittoria, volevo vedere l’altra parte. Per chiarire, se io devo guardare alla nobiltà, direi che il mio punto di vista sia quello di un bolscevico davanti ai Romanov, ancora sono grato a Napoleone per aver spazzato via l’aristocrazia europea polverosa e resa ancor più demente da matrimoni tra consanguinei. Però avevano palazzi, raccolte d’arte, giardini e tenute, impossibile prescindere, vengo a vedere.
Gotha, come Coburgo, è un paesone sorto attorno al palazzo, anzi a un castello, il Castello Friedenstein, sorto nelle forme più aggraziate su una precedente fortezza, alla fine della guerra dei Trent’anni. Com’è giusto è su una collina che domina gli attorni, a sud un bel parco con lago che a un certo punto utilizzerò con soddisfazione, a nord il paese che, obbediente, circonda la casa del signore. In venti minuti ho percorso tutto il reticolo delle vie del centro e ho preso anche un caffè. Ma non sono qui per il paesello, sono qui per la raccolta d’arte di Ernesto II dei Duchi di Sassonia-Gotha, dalle antichità egizie e greco-romane all’arte giapponese. C’è una stanza piena di soli Cranach, ma qui tra Turingia e Sassonia non è infrequente, un Frans Hals bellissimo, buffi ritratti ottocenteschi di Voltaire e Rousseau. Non esattamente la ressa per entrare.
Non mi stupisce che nel 1979 siano entrati e bel belli si siano portati via cinque quadri notevoli, poi spariti del tutto e riapparsi in modo non chiaro quarant’anni dopo. Potrei portarne fuori uno io ora senza avere grossi problemi. Ora vado a riflettere al parco.
Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Lo so, sembra da stronzi dirlo, e forse lo è, ma quei tre paesi là mi hanno tenuto in tensione, per capire, per apprendere, per non sbagliare. Ora avrei bisogno di qualche giorno tranquillo e, visto l’atterraggio a Francoforte, ho finto di essere lavorativamente morto e, come quelle capre che si irrigidiscono e cascano al pericolo, provo a strappare ancora qualche giorno. Rispondo vagamente e in modo confuso a chi mi chiede quanto torni. Per vedere cose che non fatico a capire, per dormire, per camminare, leggere, scrivere, bere, non proprio in quest’ordine.
Desideravo questo concatenamento di città medio-piccole tedesche una vicino all’altra da molti anni, l’ho desiderato moltissimo nel 2020 durante la pandemia, lo sognavo di notte da prigioniero in casa – ecco la prova -, ora ci sono. Atterrato a Francoforte da Yerevan alle sette del mattino, vado a piedi a vedere la sede dell’università che, oltre a essere bellissima, racchiude una storia dentro di sé.
L’edificio fu progettato da Hans Poelzig in puro stile modernista d’epoca Weimar nel 1929-31 ed è bellissimo ed è strano come un’architettura progressista e umanista per quanto industriale nel giro di pochi anni sia diventata l’espressione dell’architettura reazionaria e oppressiva del nazionalsocialismo, l’aeroporto di Berlino-Tempelhof di Ernst Sagebiel riprende senz’altro questo progetto, l’avete notato tutti, no? Comunque, quella che oggi è l’università in realtà nasce come sede dell’I.G. Farben, un agglomeratone di industrie chimiche che negli anni Trenta riunì colossi della chimica come Bayer, BASF, Agfa, Sanofi, per dire quelle note ancora oggi, per resistere alla concorrenza europea e americana. ‘Farben’ significa vernici, tinture. Con l’avvento del nazionalsocialismo, il gigante non si fece sfuggire l’occasione e utilizzò più di tutti la manodopera gratuita degli schiavi deportati, costruendo spudoratamente una fabbrica a Monowitz, il blocco industriale di Auschwitz, lo stesso Primo Levi lo racconta. Ma non bastava, il colosso della chimica sviluppò prodotti per la crescente richiesta del governo nazista, prodotti per la guerra e prodotti per l’eliminazione delle persone, il famigerato zyklon B, il gas per i campi di sterminio. Chimici e scienziati al lavoro per migliorare l’efficacia del prodotto, questo è. Qualcuno oggi direbbe che è un prodotto, uno strumento, dipende poi da come lo si usa. Certo.
Francoforte fa schifino, lo sapevo già. Della città di Goethe resta niente, c’è un attorno di belle ville primo Novecento, un bel fiumone, poi il resto stride, tra il centro finanziario dell’UE e una quantità spropositata di persone che vive di scarti. Nella prima mezz’ora assisto a una retata con sei automezzi della polizia tedesca, un gentiluomo quasi mi vomita addosso sotto il simbolone dell’euro, le strade tra la stazione e il centro sono belle luride. Vero che è domenica presto e ancora, forse, non hanno pulito ma la cosa balza agli occhi. Io, vista l’università e il fiume sarei anche a posto, ricordo qui un magnifico doppio concerto Sharon Jones & the Dap-Kings e Maxïmo Park nel 2012 se non sbaglio, e questo mi basta. Iddio ti benedica e ti tenga compagnia, SJ. Inizio il concatenamento.
Vado a Fulda, un paesone a poco meno di un’ora a nord-est nonostante gli ormai ordinari ritardi di Deutsche Bahn. A pochi chilometri da qui correva la cortina di ferro e secondo gli strateghi della NATO il patto di Varsavia, qualora avesse deciso di invadere, l’avrebbe fatto qui. Per questo fino al 1994 nei pressi di Fulda stanziò un grosso contingente di soldati americani, in attesa dei Tartari. Io sono qui per la leggendaria abbazia, lo scriptorium più importante dell’alto medioevo e dell’impero carolingio, con ben seicento monaci copisti e miniaturisti e un patrimonio di ben più di duemila manoscritti, dall’ottavo secolo in poi. Poggio Bracciolini, che era uno bravo davvero, venne qui a pascolare tra i testi e vi ritrovò, per dire, il De rerum natura di Lucrezio che, se non fosse stato per i fuldani e per Poggio, ce lo scordavamo e buona notte. Arrivo carico di aspettative a Fulda e sbatto contro l’abbazia.
Mapporc, che è? Questo è barocco, dov’è l’alto medioevo? Dov’è Poggio? E i manoscritti? E i copisti? Nisba, ciao, puff. Il principino d’Assia, un Augusto qualsiasi, stufo dei vetera e dei vetusta, disgraziato, pensò bene di tirar giù tutto e di rifare in forme moderne di suo gusto. Disgraziato. Mapporc. E la statua e il bollone lapideo lo celebrano pure. Certo, ora ci passa la strada del barocco, che bello, ma che coioni il barocco, facculo il barocco, come la controriforma, ma che cazzo. E intanto, ciao Fulda. Perché a quello gli piacevano le cose contemporanee, ma dico io. Dentro, peggio che andar di notte.
Una chiesotta per le cene in bianco. Disgraziato. Sulla scorta degli eccezionali manoscritti armeni visto qualche giorno fa, sognavo già collezioni clamorose di testi carolingi e la riscoperta di qualche testo perduto di Aristotele. Nel museino, quattro capitelli e tre statue mozziche, tocca fare galoppare la fantasia, l’abbazia ricordava la vecchia basilica costantiniana di san Pietro a Roma, Sant’Ambrogio di Milano, per capirci, e noi ci tocca questa. Grazie, Augusto. Bravo davvero.
Qualcosa però c’è. Per fortuna, a fianco della chiesa in bianco c’è una chiesina dedicata a San Michele, del nono secolo, sopravvissuta alla rigenerazione barocca.
La rotonda ha sotto una criptina retta da una sola colonna tozza che ha del commovente e, oltre a dare un’idea di cosa potesse essere l’abbazia nel complesso, aumenta il rammarico per la perdita. E ora, come si conviene, è tempo di andare a riflettere sui fatti della giornata al biergarten.
La zona è complicata, si è capito. E non da oggi. Ma lo è anche per un turista? Anticipazione: no, non direi. Esistono voli economici per la Georgia, Tbilisi e Kutaisi, la seconda ottima base di partenza per il Grande Caucaso, ma se si desideri vedere anche l’Azerbaijan allora, già lo dicevo, tocca entrare da Baku, più costoso. Da quanto si dice, le frontiere azerbaigiane riapriranno non appena la situazione in Ucraina sarà risolta, speriamo non manchi molto tempo. La linea ferroviaria principale è la Baku-Batumi, da un mare all’altro, mentre a Yerevan si arriva col pullman (o si parte, arrivando qui col volo). Le linee ferroviarie minori, funzionanti sotto l’URSS, ora sono in sostanza dismesse, alcune in recupero. In ogni centro, fino ai medio-piccoli, si trovano persone con un pullmino che organizzano giri nei dintorni per poco. Taxi ovunque, anche informali, usando le app il prezzo è già fissato e non c’è da discutere in lingue strane. Specie fuori dalle capitali, tocca un po’ arrangiarsi con i posti dove dormire e in alcuni casi fare più di una pieghina. Il mangiare è buono ovunque, frutta e verdura eccellenti, a voler trovare un difetto è un’alimentazione un poco ripetitiva. Ma io lo sono, quindi andato a nozze, a parte il coriandolo, noioso. A chiedere un po’ in giro, molte famiglie ospitano a pranzo e ho sempre mangiato molto e bene. Le carte funzionano nei grandi centri, al solito, fuori meno, banche e ATM ovunque. Le linee telefoniche sorprendenti, prendono ovunque anche nel nulla apparente, per cui una esim è una buona soluzione. Contesto? Tutto tranquillo, mai nessun pericolo reale o percepito, anche i locali confermano, l’unica indicazione in tal senso è stata a Baku, in cui mi hanno raccomandato di “non stare al buio”. Il che a Baku è pressoché impossibile, persino la terra brucia da sola. I prezzi come sempre in questi paesi dipendono da ciò che si compra: un espresso costa giustamente un botto, un cristo di legno a grandezza naturale pochissimo, nei paesi cristiani.
La Georgia è più facile, è la più varia dal punto di vista naturalistico, la più verde e rigogliosa, quella più vicina a noi per tensione, i georgiani si considerano europei e il paese ha chiesto tempo fa di entrare nell’UE. Sia per ovvie e comprensibili ragioni di sopravvivenza geopolitica che per vicinanza culturale. Non c’è da stare granché tranquilli con quei confini lì, i georgiani con cui ho parlato, comunque, hanno l’atteggiamento di chi nella storia i russi li ha già combattuti molte altre volte, lo rifaremo, dicono. E l’ultima è nel 2008, mica secoli fa, hanno ben di che dirlo. Eh, il culo di chi come noi è nato da un’altra parte e non ne ha idea. Nel libro sulla storia del Caucaso che sto leggendo ora c’è una considerazione che dice molto del temperamento dei georgiani, la riporto: “Se Stalin fosse stato piú georgiano – leale nei confronti degli amici e della famiglia; giusto e retto all’eccesso; memore dei debiti contratti; sollecito degli interessi del natio Caucaso -, il XX secolo sarebbe potuto essere un po’ meno tragico”. Si può fare anche solo quella ma si perde molto della visione complessiva della regione.
È stupefacente quanto le persone in Europa confondano Caucaso con Balcani e ne facciano tutt’uno. E quanto ne abbiano un’idea men che approssimativa. E sì che Cecenia, Georgia, Ossezia sono nelle cronache recenti, e sì che un venditore di tappeti armeno fino a qualche anno fa c’era in ogni città o quasi, e sì che magari una messa o un matrimonio a San Gregorio degli Armeni capita, idem un giro per presepi a Napoli nella nota via, eccetera. La stessa finale di campionato di pallacanestro di quest’anno è stata vinta da un giocatore georgiano quasi da solo. E sì che ‘La masseria delle allodole’ gode di successo continuato. Comunque, Kusturica c’entra poco o niente, se non per un periodo comune di dominazione ideologica.
È un viaggio che consiglio caldamente, a questo punto: se dal punto di vista naturalistico il Grande Caucaso mantiene ogni aspettativa, anche molto alta, anche il resto dei tre paesi ha varietà e bellezza, spaziando dal deserto del niente alle valli boscose e fiumose; anche per cultura è una zona complessivamente ricchissima che nulla ha di meno di luoghi ben più celebrati e non manca certo di complessità. Date le relative distanze, non eccessive, è un viaggio anche meno complicato di altri, logisticamente. Dal punto di vista enogastronomico anche, per chi scelga in base a quello, basti dire che pare che il vino sia nato là. Per chi come me si gode certamente la natura ma ha bisogno dell’elemento umano è un ottimo posto dove andare. Più dò una dimensione complessiva al mio viaggio e più esso risulta uno dei più importanti, densi e stimolanti che io abbia fatto, raramente ho appreso così tanto in così poco tempo e spazio.
Non è mica stato facile, per essere chiaro. È il posto più complicato del mondo, non esagero, nemmeno l’Asia centrale è così, là almeno gli spazi sono diluiti e tutto è meno compresso. Sono stato travolto da storia, conflitti, convivenze, opportunità, opportunismi, visioni opposte, bugie e omissioni, per meglio spiegare riporto un pezzo dell’introduzione al libro da mille pagine che sto leggendo ora – impossibile leggerlo a secco, va letto una volta tornati -, Charles King, Il miraggio della libertà. Storia del Caucaso, Torino, Einaudi, 2008:
“Questo libro cerca di dare un senso a una parte di mondo apparsa negli ultimi vent’anni: la quintessenza dell’insensatezza. Un mondo nel quale governi non hanno avuto remore nel bombardare i propri cittadini; terroristi hanno sequestrato scuole e ospedali; atti di ospitalità disinteressata e crudeltà orribile sembrano essere le due facce della stessa medaglia culturale. Questa è una storia del Caucaso moderno come entità geografica dall’inizio del coinvolgimento russo sino ai nostri giorni. Ma è anche una storia del Caucaso quale coacervo di idee contrastanti: di libertà e di sregolatezza, di atti e fatti sbalorditivi e terrificanti”.
Ecco. Accanto al terrificante c’è lo sbalorditivo, è importante, è l’insieme che colpisce, l’alto e il basso, il giusto e l’ingiusto. Nel mio progetto di viaggio nelle zone più stratificate del mondo, in cui popolazioni e storia abbiano mescolato ripetutamente tutte le carte, il Caucaso guadagna subito il podio, per non dire di più. Uzbekistan e Tajikistan al confronto, retrospettivamente, paiono vicende lineari, spiegabili in prima.
Come si torna, come torno io da questi viaggi, da quelle che il mio amico E. chiama “le tue per nulla riposanti vacanze”? Sono onesto, ha ragione, ho bisogno di una vacanza, ora. Di dormire, molto. Di qualche stimolo tensivo in meno, religioso, politico, sociale. Torno più consapevole, certo, ma anche più rassegnato al fatto che alcune cose non hanno soluzione e che le vite umane non bastano, una cosa raddrizzata durerà un po’, poi cambierà. Che nulla persiste, il che è molto difficile da capire per noi europei fortunati: non durano le democrazie, non durano i confini, non dura nemmeno il clima. Putin lo sa, in Ucraina, un pezzo ora e uno tra trent’anni, lui da russo ha quella dimensione lì, noi no, per noi è già durata troppo. E vorremmo chiuderla definitivamente, illusi. È un po’ il contraltare del viaggio, della ricerca della comprensione dell’umano e della storia, la disillusione. Almeno collettivamente, non individualmente. Si finisce in una dimensione temporale talmente lunga che il contingente diventerebbe trascurabile, non ci fosse quell’impiccio della breve durata delle nostre vite. Vabbè, l’ho fatta come sempre lunga, torno alle cose quotidiane, l’aereo è arrivato e io ora comincio la mia vacanza, se riesco. Grazie a chi ha seguito.
In un periodo di rapporti tesi tra URSS e Turchia – a proposito, non avevo mai compreso quanto la vicinanza tra i due imperi avesse creato situazioni di conflitto, si contano almeno dodici guerre russo-turche tra 1568 e 1922, alcune durate quattordici anni -, negli anni Sessanta da Mosca arrivò il via libera alla costruzione di un mausoleo per ricordare il genocidio degli armeni del 1915 per mano appunto turca ed eccomi qui: un bel mappozzone con rampa di lancio missilistica e piramide doppia incastonata, con fiamma eterna e muro dei giusti. E a me piacciono pure questi cosi.
Tra i giusti, Werfel per i suoi giorni del Mussa Dagh, serve però dire che come sempre le cose non stanno tutte da una parte sola: in Azerbaijan ricordano il genocidio degli azeri per mano armena, di sicuro a Baku pochi anni prima di sangue ne scorse molto, di sicuro gli armeni nel mondo – in Italia in particolare – godono di buona stampa, Arslan per esempio. Non voglio togliere nulla, per carità, segnalo solo come vista da qui sia enormemente più complicata, non si può esser mai certi di quel che si sente o si legge, senza conoscere gli interessi dell’interlocutore. E di sicuro ci furono di mezzo anche i greci e gli assiri cristiani, decimati anche loro. Gli stessi ottomani persero quattrocentomila uomini nella manovra di accerchiamento anglo-russa tra il 1915 e il 1917, allo scopo di eliminare la loro presenza nel Grande Oriente. Per dire che qua è un vero casino, detta alla storica. Dietro il mausoleo, una distilleria di quel càgnac di cui vanno molto fieri e che devono chiamare brandy per ragioni di marchi depositati.
Uscendo da Yerevan, strepitoso il monastero di Geghard o Gaghard, va’ a sapere, al termine di un canyon e le cui tre chiese sono scavate nella roccia, l’effetto Indiana Jones è assicurato. Butto qui ma non è che renda granché.
A seguire, a Garni, il motivo per cui sono venuto in Caucaso, volevo vederlo: il tempio greco più a oriente in assoluto. Qui lo chiamano ‘tempio pagano’, mai greco, e la cosa mi fa sorridere.
Mi son proprio detto: ma io questo devo vederlo! Tra l’altro, è in una posizione clamorosa, al culmine di tre canyons profondi e incurvati, geologicamente stupefacenti per le loro colonne di pietra esagonale come ne ho viste solo nel nord dell’Irlanda. Però poi è talmente pieno di persone, gruppi, droni, baracchini e aste per i selfie che bon, visto, vado, e nella classifica finale del viaggio non sarà senz’altro nei dieci. Scappando, J. insiste nel portarmi a vedere il luogo più sacro del cristianesimo armeno, la cattedrale e il complesso di Etchmiadzin, la santa Sede armena. La cattedrale, la più antica del paese, del 301, cinque minuti prima del concilio di Nicea, è notevole, per carità, ma il complesso attorno dove vive il catholicos armeno, il papa patriarca, è terribile, modernismo religioso su cemento sovietico, mi ricorda da vicino l’aula Paolo VI in Vaticano per bruttezza.
Nonostante ne rimanga pochissimo, è invece emozionante e suggestivo ciò che resta della cattedrale di Zvartnots – pare il nome di un nemico di Superman -, un maestoso edificio trentaduogonale a tre piani del settimo secolo che doveva essere una di quelle meraviglie del mondo antico che venivano tramandate di viaggiatore in viaggiatore. Secondo la storia, crollò per l’ennesimo terremoto, stavolta nel decimo secolo, secondo gli armeni che mi raccontano la vicenda fu sì il terremoto ma furono prima i perfidi arabi che ne minarono la struttura erodendone i pilastri principali.
Ora, per carità, tutto può essere e chi sono io per dubitare di una frase qualsiasi di chiunque? Però una certa sindrome da accerchiamento un po’ la colgo, tutto attorno qua lavorano e hanno lavorato contro il popolo armeno, russi, ottomani, persiani, arabi generici e così via. Non che non ne abbiano ben donde, eh. Però questo brulicare di cattivi intenti dopo un po’ suona un po’ grottesco. Comunque, Zvartnots doveva essere spettacolare, ancora oggi la fotografia dell’Ararat innevato tra le colonne della cattedrale è una delle più gettonate.
Ed è qui che il mio viaggio ha termine, due settimane nel Caucaso, da Baku a Yerevan passando per la Georgia e un sacco di posti minori e maggiori, dalle altezze rigogliose del Grande Caucaso alle bassezze, in senso altimetrico, del deserto azerbaigiano che brucia da solo o sputa fango, da un mare, Caspio, all’altro, Nero, da un confine, russo, a due confini, turco e iraniano, da musulmani a cristiani ortodossi. E non ho mai parlato della Grande e Piccola Kabardia, dei Kisti, degli Ingusci, dei Karabulak, dei Ceceni, fossero essi pacifici o di montagna, dei tre tipi di Cumucchi, dei nomadi Nogaj che erano dappertutto, degli intellettuali musulmani detti Tatari e ciao, non è più finita. Magari una conclusione potrebbe essere utile, chissà, forse no, vediamo che succede in aereo.
Come tutti i paesi piccoli, stretti tra imperi, occupati e deprivati di territori, che hanno però una grande storia, gli armeni tendono a rivendicare a sé la creazione di molte cose, specie nei confronti dei vicini. Per esempio, l’alfabeto georgiano sarebbe in realtà una derivazione del ben più completo alfabeto armeno e così la tradizione manoscritta, la cultura diffusa in ogni ambito del sapere, su su fino ai tappeti. J. che mi spiega queste cose non si diverte tanto quando la prendo in giro dicendo che tutto, a questo punto, dal succo d’arancia alla suola in gomma delle scarpe, sia stato inventato dagli armeni.
La montagna più alta del mondo, per prominenza perché si eleva di quattro chilometri dalla pianura e siamo già a milledue, domina da ogni parte Yerevan. Sì, è l’Ararat, no, non si vede l’arca. Nonostante sia in Turchia, pare qui. Formulo meglio: la montagna è talmente grande e la Turchia talmente vicina che pare di poterci salire facilmente. Sono abbastanza emozionato, l’Ararat lo desideravo fin da piccoletto. Nonostante sia in Turchia, l’Ararat è invenzione armena. E là dove ora c’è la Madre Armenia, esattamente come a Tbilisi c’è la Madre Georgia, con spadone da undici metri, una volta c’era Stalin, in solenne tunicona a metà tra il profeta e il sacerdote, si dice che la statua fosse così ben riuscita che lo stesso dittatore fosse venuto a Yerevan in incognito pur di vederla.
Chiaro che quella armena fosse la più bella. In un cubo di cemento che ricorda il deposito di Paperone visito il museo dei manoscritti ed è a dir poco straordinario: le raccolte di testi copiati e tramandati nei monasteri armeni – parlo della Grande Armenia, estesa in Turchia e Persia – furono imponenti e in contatto con le culture dal medio oriente al Mediterraneo, tutto lo scibile umano dal sesto secolo, sì, hanno manoscritti dell’epoca, al sedicesimo-diciassettesimo è in parte qui. E i miniaturisti non da meno, si va da testi eleganti e raffinati a rappresentazioni umanissime come questo san Giorgio.
Anche il museo nazionale è notevole e ricco, il patrimonio archeologico spazia dalle origini della vita a pochi secoli fa con le testimonianze delle varie culture che attraversarono questi luoghi, persiani, greci, romani, mongoli, ottomani, russi e così via. Per mio interesse, le sezioni della pittura armena e russa di area armena tra diciottesimo e ventesimo secolo sono di grande rilevanza, capita cosi di scoprire da chi Klimt abbia copiato, basta guardare la ‘Salomè’ di Vardges Sureniants, 1907:
E Salomè era principessa armena, per davvero. Mi aspettavo di trovare una grande città povera e grigia e desertica, ne ho trovata una vivace e colorata e internazionale, sono appena passato davanti a un ristorante svedese. Svedese? Ma quando mai? Non dubito che fino a pochi anni fa Yerevan fosse come me l’aspettavo, me lo conferma chi l’ha vista, ora brulica di persone, giovani, a qualsiasi ora, la piazza della Repubblica è piena ogni sera, le luci brillano e il museo mette musica a tutto volume, ora i Carmina Burana. Ha ragione Montalto, seguire le energie, che si spostano.
E quindi, qual è il segreto? Hanno vinto alla lotteria delle città? Un po’ sì. Alle sanzioni dell’Unione Europea alla Russia su oreficeria e gioielleria e materiali pregiati, il mercato si è spostato qui, la Russia stessa usa il paese come intermediario, la crescita del settore armeno è stata del millecinquecento per cento negli ultimi tre anni, per anno, e di soldi ne sono rimasti qui parecchi. La città vecchia viene spazzata via e i grattacieli crescono come fungoni, gli investimenti arrivano e restano, le catene si vedono tutte. Poi basta uscire due metri dal perimetro del centro e, come in Azerbaijan, sparisce tutto. Beh, son tre milioni e uno sta qui, buona parte ne gode.
Le tensioni tra Azerbaijan e Armenia sono ormai secolari e l’ultimo episodio, due anni fa, decisamente favorevole agli azerbaigiani, è la Seconda guerra del Nagorno Karabakh che segue ovviamente la prima e una ripresa degli scontri fin dalle indipendenze del 1991. Il senso di accerchiamento degli armeni è accresciuto dalle consolidate relazioni tra Azerbaijan e Turchia, anche di natura religiosa, e con Israele, contento acquirente degli idrocarburi azerbaigiani (trenta per cento, il resto all’Europa) che paga con armi, anche in questo caso falsando gli equilibri nella regione. Accennavo alla firma di qualche giorno fa dell’accordo tra i due paesi per il corridoio, da parte armena paiono considerarla un’altra sconfitta, a prima vista. Inutile dire dei buoni rapporti tra Russia e Azerbaijan, quando hai petrolio e gas è facile essere amico di tutti. La cristiana Armenia intrattiene però, vedi le combinazioni?, rapporti cordiali con la Repubblica islamica dell’Iran, altro soggetto non secondario della regione.
In serata a Gyumri, seconda città dell’Armenia, pesantemente colpita dal terremoto del 1988, ne ho una vaga memoria, allora pensavo che l’Armenia fosse la regione della Turchia orientale, cosa che in effetti sarebbe anche, se esistesse ancora la Grande Armenia, non fosse avvenuto il genocidio e la Turchia non avesse avuto il progetto di riunire tutti i paesi di ceppo turco. Domani ho un incontro importante, ci tengo e per un colpo di fortuna sono riuscito a ottenerlo, un paio di birre Ararat al Rasputin e via, a domani.
Al mattino presto esco dalla mia stanza dell’hotel Viktoria che sembra un ufficio del Politburo, tra il letto e la scrivania ci sono come minimo sei metri, e vado a incontrare Antonio Montalto, posso citarlo, proconsole onorario in Armenia, medico che venne a Gyumri subito dopo il terremoto del 1988 per portare aiuti – qui si ebbero più di ventimila morti – e non se n’è più andato. Ora gestisce e organizza progetti di inserimento lavorativo per oltre cinquanta armeni e l’indotto delle famiglie, le chiama ‘tribù’ per esemplificare i legami, puntando sulla ceramica, un’eccellenza armena che costituisce un legame con la Turchia, e la ricezione, avendo recuperato una bellissima casa padronale in centro città e adibita ad albergo e accoglienza.
Ecco, a saperlo venivo qui. Montalto è persona che unisce straordinario garbo a puntuale sostanza, qualunque gradazione di ego è cancellata dai suoi discorsi, starei a sentirlo per ore. Punto a questo. Ne traggo indicazioni utili sul metodo e sull’approccio, parliamo persino fugacemente di Sinner, ridendo perché a nessuno dei due importa. È un incontro molto interessante per me, mi apre vie di miglioramento personale e di azione di cui faccio tesoro, mi colpisce tra l’altro quando dice di non vedere più energie significative in Europa ma di vederle, ora, nonostante i regimi, in Iran e Turchia. Concordo in pieno. Non parla poi di politica o, peggio, di geopolitica, perché “è inutile”, dice, ma si capisce benissimo che ha incontri di alto livello e che molti papaveri vengono qui per avere consiglio e informazioni, ciò che intende è che per fare le cose serve partire dalla pulizia materiale del marciapiede fuori casa per arrivare ai progetti grandi, non il contrario. Un incontro che è una fortuna per me e i miei progetti, grazie F. che l’hai organizzato.
Sono solo le nove e io ho già avuto una giornata piena. Visito alcune chiese, qui la chiesa – ancora non l’ho detto – è la Chiesa apostolica armena, una delle chiese cristiane più antiche, e rientra tra gli ortodossi. Guidata da un catholicos, l’Armenia fu il primo paese al mondo ad adottare ufficialmente il cristianesimo, fin dal primo secolo. Qui in città gli edifici ecclesiastici hanno la particolarità di essere costruiti con pietra basaltica, quindi nera, e di essere contornati di terracotta arancione, creando un bell’effetto. Su un muro nella piazza centrale una raccolta di barzellette e motti di spirito armeni che, direi, hanno in comune con quelli georgiani di creare gelo negli uditori e quasi nulla più. Loro li trovano a esilaranti, come già M. a Tbilisi. Ne racconto uno per capirci: lo scolaro, maestro, qualcuno è mai stato punito per non aver fatto qualcosa? Certamente no, risponde. Beh, ribatte lo scolaro, allora non ho fatto i compiti. Ecco, una cosa così. Gelo.
Fuori dalla città una faglia impressionante lunga novanta chilometri che va fino alla capitale, la seguirò. Sul fondo un fiumicello, la vista è emozionante. Sui cigli, ogni tanto, un monastero del sesto o del settimo secolo, che già per posizione è stimolerebbe non poco il senso spirituale ma anche l’interno fa il proprio.
Solitamente la chiesa vera e propria è preceduta da un vestibolo con grosse colonne e cupola, dedicato in principio ai non convertiti o pagani, di modo che potessero sentire la funzione non potendovi partecipare. Oggi è giorno di matrimoni, ne incrocio due in due monasteri diversi, non male. In quanto ad abiti sbrillocchi e tacchi e trucchi e abbondanze, Roma e Napoli scansatevi. Ma sono simpaticissimi, un gigante mi chiede curioso come mai in Armenia, sono fieri del proprio paese, loro tutti comunque sono stati a Venezia, come minimo. Ora che intravedo la grande montagna, so di essere quasi alla capitale.
Non so bene come, finisco a Borjomi, rinomata località per le acque termali ma, soprattutto, per la sua acqua curativa. Chi sono io per non berne il giusto quantitativo? Nel parco termale nella cittadina di montagna, il primo luogo di villeggiatura della Russia zarista, gran sanatori sovietici e ville per la nomenklatura, due giovani donne dentro una sorgente incavata offrono bicchieri di acqua calda, trentacinque gradi, solforosa, da bicchierini e brocche che vengono fatti girare. Se non mi piglio una dissenteria fulminante stavolta, come minimo piglierò il colera, lo sento. Ma le viscere saranno senz’altro in gran forma, rosee.
Più giù, nel castello di Akhaltsikhe, la statua di Charles Aznavour, figlio di un locale, è decisamente la celebrità del luogo. Questa regione, il Samtskhe–Javakheti, è decisamente una delle zone più belle io abbia visto finora da queste parti, rigogliosa, abitata fin dalla preistoria, idilliaca.
Seguo il fiume Kura tra anse e colline fino al monastero rupestre di Vardzia, a una ventina di chilometri dal confine turco, al centro di un’intera città scavata nella roccia, in alto così da non temere assalto. Dell’epoca del grande re Tamar – era una donna ma fu talmente grande che qui la chiamano ‘re’, per distinguerla dalla consorte -, rispecchia un periodo di grande espansione e ricchezza per la Georgia, il dodicesimo secolo. Gli affreschi della chiesa, una delle quindici, sono magnifici, il re è rappresentata ed è l’unico caso, se ben capisco.
Inebriato dai colori e dall’ambiente, riprendo la strada tornando indietro, non posso e non voglio, stavolta, andare in Turchia, mi sono assicurato un passaggio in corriera fino al confine, l’altro, tra Zhdanovi e Bavra. Mi ritrovo, non previsto, su un lungo altopiano a oltre duemila metri di grande bellezza, è chiamato la Siberia georgiana, a me piace e ricorda un po’ la Mongolia. Qualche casa di legno qua e là, qualche mucca brada, elettrificazione socialista, cieli azzurri. Altro paesaggio magnifico.
La corriera fa una sosta a Gorelovka in mezzo a un gruppo di case di campagna russe del periodo zarista, è una comunità – mi spiegano – di russi cattolici finiti qui per mantenere la comunità, poi non è che capisca proprio tutto, loro non parlano inglese, io non parlo georgiano o russo, però che gran sorrisi. Un gruppo di ragazzini in bicicletta accorre per vedere lo straniero, sembrano quelli di stranger things all’inizio, hanno maglie da calcio, mi dicono i loro nomi e poi gigiodonnarumma, spassosi, me la rido anche con loro, non posso non riportarli qui.
Dopo poco, il confine, l’ennesimo da passare a piedi. E passarlo è un atto di volontà, una scelta propria, perché a parte i due edifici con le guardie attorno corrono prati per decine di chilometri senza alcuna recinzione o limite. La soldatessa alla guardiola mi fa la faccia scura e mi chiede se io sia stato in Azerbaijan, sì, e subito mi chiede secca: perché? Eheh, già, si odiano. Turismo, perché diavolo vuoi che uno con uno zaino come me vada in giro? Cincischia e poi mi fa entrare, sono in Armenia.
Questo sito utilizza dei cookies, anche di terze parti, ma non traccia niente di nessuno. Continuando la navigazione accetti la policy sui cookies. In caso contrario, è meglio se lasciamo perdere e ci vediamo nella vita reale. OccheiRifiutaCookies e privacy policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.