figurati se condannassero noi per l’english sounding

Alfa Romeo presenta la nuova auto, «Milano», una specie di piccolo, diciamo, SUV elettrico o ibrido.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy interviene prontamente in difesa dell’italianità e dice che un’auto che si chiama «Milano» non può essere prodotta da un’altra parte che non sia Milano, altrimenti si inganna il consumatore. Si chiama «Italian Sounding», che ridere, e Adolfo Urso, è il ministro, lunga carriera fin dal Fronte attraverso Fini e ministeri berlusconiani, alla notizia che Alfa decide di cambiare nome all’auto sostiene trionfante sia una luminosa vittoria del made in Italy e, quindi, in definitiva sua. Bravo. Chissà dove producevano la Escort.
Ribattezzano l’auto «Junior» e, nonostante il ministero sapesse del nome fino da dicembre e nulla avesse adombrato fino alla presentazione, Alfa decide di non agire legalmente contro il Governo per danno di immagine. Urso, tronfio: «Credo sia una buona notizia, che giunge proprio nella giornata del made in Italy che esalta il lavoro, l’impresa, la tipicità e la peculiarità del prodotto italiano che tutti ci invidiano nel mondo», crede, mentre qui fuori si stenta a svolgere il filo logico, se uno ce n’è.
Comunque, nemmeno «Junior» va bene, lo diciamo: in West Virginia c’è una città che si chiama così ed è evidente che l’Alfa non produca là la sua auto. È forse meno sbagliato ingannare il cittadino westvirginiano pur non avendo lui, sfortunato, l’eccellenza italiana dentro e attorno a sé? Sì, forse lo è.

i tuoi luoghi detti da lui

Uno, me, si dà un certo daffare e riesce con un certo sforzo a dare una qual consistenza al proprio tempo e, se possibile, a lavorare ancor meno del solito. Gugol questo lo riconosce e mi accorda tre paesi, alcune città e parecchi luoghi, nuovi pure. Bene, almeno lo sforzo.

Ma tutto ‘sto sforzo per cosa, in dettaglio? Certo, sono stato a Berlino, Amsterdam, Haarlem, Leida, Delft, Bologna e così via, vediamo che dice il sistema-che-tutto-vede:

Ahah, certo, chiaro. Alla fine Berlino è una piccola Rozzano, con un Antonazzi e qualche sparo in meno. Ma chemme movo affà?

popolo di aviatori

Scopro con raccapriccio che itaairways ha quattro, quattro!, voli al giorno da Roma a Napoli. Fiumicino-Capodichino, per essere precisi. In linea retta molto meno di duecento chilometri.

E infatti ciascuno dei quattro voli giornalieri dura cinquantacinque minuti effettivi. Cinquanta. Ma bisognerebbe, a essere onesti, contare l’anticipo dell’aeroporto, il controllo di sicurezza, l’imbarco, lo sbarco, le balle e le controballe. Oltre a partire da un aeroporto e arrivare in un altro aeroporto che, a differenza dei municipi e delle stazioni ferroviarie, non sono quasi mai in centro.
Cadauno per prova l’offerta dei treni Roma-Napoli, Termini-Centrale, appunto, tra le undici del mattino e le quattro e per pietà solo di Italo, non guardate i prezzi:

Bisogna essere evidentemente stronzi. In Francia, che tanto disprezziamo, la legge proibisce di istituire voli aerei tra destinazioni raggiungibili in meno di tre ore in treno. Sensato.
Ma noi no, figuriamoci. Ovviamente vale anche il ritorno, altri quattro voli quotidiani. E mi chiedo: sarà itaairways, la good company, che ha ereditato i vizi di alitalia – e allora il destino è luminoso – oppure c’è veramente richiesta e molti insani di mente prendono l’aereo per andare da Roma a Napoli e viceversa? Mistero, come l’ottantadue per cento del paese in cui vivo.

la fine dei tempi

Raccontavo qualche giorno fa dell’abbazia di Viboldone e del suo giudizio universale, di quel meraviglioso particolare dei due angeli che a destra e sinistra sono intenti ad arrotolare il tempo della storia.

Si è arrivati al giudizio, bon, si chiude e si impacchetta il tutto. Poi sarà Gerusalemme celeste e finita lì, a dio piacendo altri esperimenti e tentativi con la vita.
Il soggetto è strepitoso, perché lo è l’idea che è sottesa: il rassetto quasi domestico di ciò che è materiale, il cielo, la terra, i tappeti, i maglioni negli armadi. Si fa pacchetto, si copre tutto, si mette via.

Il soggetto, lo dicevo, non è nuovo, aveva già alcune attestazioni. Il presunto autore del giudizio di Viboldone, Giusto de’ Menabuoi, era stato a Padova e aveva certo visto Giotto e la cappella degli Scrovegni e là, presumibilmente, aveva tratto ispirazione per il dettaglio. Infatti, anche nella cappella giottesca due agnolotti ripiegano il cielo dalle due estremità, uno dalla sera con la luna e uno dall’altra parte, dove c’è il sole.

Dietro di loro, porte e pareti ricolme di gemme promettono delizie ultraterrene ma quella lunotta col nasone non può che suscitare simpatia e nostalgia, altroché, per ciò che sta finendo ed è consumato, per la vita terrena in definitiva e per tutte quelle belle cose e sciocchezze e sublimità che abbiamo avuto e ci siamo inventati quaggiù.

se non compri questo numero

Certo che a volte Re Nudo l’azzeccava proprio. Spesso, altro che a volte.

Almeno nel ciclo storico, fino al 1980. A una prima ripresa, mai davvero partita, a una seconda nel 1996 e a una che scopro solo ora, dall’anno scorso e siamo al quinto numero, ma pensa te, è seguito l’inarrestabile scivolamento verso l’olistico e l’esoterico e amen, quella sinistra là è poi finita a rifiutare i vaccini, vecchi banalotti che non ci si crederebbe. Ma le idee restano e il cane chissà.