Un uomo senza forze, un sacco vuoto. Cinque uomini attorno a lui, amici, fratelli, lo tirano e lo girano, lo sollevano e lo depongono, poi gli schiacciano il torace con colpi violenti e mal dati, una mano in bocca, il più robusto lo stringe a sé schiacciandogli lo stomaco con forza. Un pupazzo di pezza, una marionetta dalle gambe storte. A fianco a me un uomo grosso piange emettendo grida straziate, le donne guardano con le mani sulla bocca da dietro gli angoli delle case. L’uomo, il sacco, ha il volto, la pancia e le caviglie bianche, senza alcuna possibilità che dentro ci scorra qualcosa. I cinque non si rassegnano, lo rivoltano e lo tirano con fretta, sempre più fretta perché il tempo passa, uno soffia aria dentro la bocca dell’uomo. Molti attorno, anche io, scuotono la testa. I cinque non si fermano, sudano e bofonchiano, non si fermano perché è il loro compito, oggi, e non bisogna dare l’impressione di essersi fermati prima di quanto è dovuto, l’uomo grosso piange silenzioso, ora, la sua manifestazione pubblica è compiuta e una donna nera corre via piangendo, segnando la fine.
Oggi nel villaggio di Ushguli è morto un uomo. Poteva essere vecchio o no, impossibile dirlo, qui a oltre duemila metri si invecchia in fretta, chissà se gli altri erano moglie, figlia, fratelli o figli, chissà. Un colpo secco, tutto era vuoto, tutto era senza vita né sostanza. Attorno, alcuni del villaggio, parenti, amici, vicini, turisti come me, due cani randagi e un maiale nero. Tutti in silenzio, poche parole della donna nera che spiega ad altri, attorno, ma bastano due parole, un gesto della testa, nessuno si muove, se non lentamente, non ricordo suoni, dopo.
Il villaggio di Ushguli è in posizione eccezionale, è il luogo abitato in permanenza più alto in Europa, ben sopra i duemilaedue, ai piedi del massiccio dello Shkhara, più di cinquemila metri in fondo a una valle verdissima. Le case sono qualche decina, molte anche qui hanno le torri, non poche possono ospitare, sia i turisti che i camminatori che gli alpinisti. Al centro, una chiesetta del dodicesimo secolo, commovente, segna un punto tra il sotto e il sopra.

Alcune delle cime più alte del Grande Caucaso sono qui, tutte ben sopra i cinquemila, accompagnate da numerose sopra i quattromilaecinque, che è un po’ la soglia psicologica di noi italiani, per cui oltre il monte Bianco non c’è nulla di più alto nei paraggi. Invece più in là, oltre questo confine, c’è l’Elbrus, enorme nei suoi cinquemilaesei e rotti. Ogni anno uno o due ci restano secchi su queste cime, forse pensando che rispetto a un ottomila la cosa sia molto più facile.

Qui molto vicino c’è l’Ossezia del sud, oggetto della guerra con la Russia del 2008. L’altra parte dell’Ossezia è di là, in Russia, i georgiani ritengono l’Ossezia una e la rivendicano come proprio territorio, gli osseti invece sono separatisti e vorrebbero l’annessione alla Russia. Pochi paesi riconoscono l’Ossezia formalmente. Di fatto, se capita di passarci poi non è più possibile andare da nessuna parte, se non in Russia, si viene respinti alle frontiere. Se si desidera molto molto visitarla, allora si devono corrompere i doganieri in modo che non timbrino il passaporto. Se non ricordo male, e vado a memoria, Erika Fatland nel suo La frontiera racconta di come talvolta, durante la notte, il confine russo avanzi nell’Ossezia del sud di diverse centinaia di metri, creando non poche complicazioni. Noto è il caso dell’agricoltore finito con la casa e i campi di fatto in Russia e i cui figli sono dotati di permesso speciale per fargli visita una volta ogni tot, varcando il confine.

Scendo ripensando alla morte dell’uomo. C’è una parte di me scossa da quei movimenti del corpo, strattonato, alzato e lasciato; d’altra parte rifletto su come abbia visto un quadro popolare di grande potenza, come avessi assistito al processo del mugnaio di Ginzburg, una scena eterna di vita e morte, in cui i vivi, individui e gruppi, affrontano il tempo e i passaggi. In definitiva, ho visto una comunità stringersi attorno a un proprio membro, tirandolo per i capelli lontano dalla voragine inevitabile, affrontando con lui il trapasso e con i suoi i momenti successivi – e quante volte nei secoli si sarà ripetuto -, ho visto un villaggio pulsare all’unisono in modo così umanamente profondo da farmi pensare che, tutto sommato, ho assistito a una scena forte, tragica e positiva. E se dovessi pensare a me, preferirei questo al nostro modo, tra macchinari, estranei e così poca compassione.
zero | uno | due | tre | quattro | cinque | sei | sette | otto | nove | dieci | undici | dodici | tredici
Commovente senza retorica.
Come dovrebbe sempre essere la morte.