La notizia è importante: questa sera il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev e il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan hanno finalmente firmato un accordo di pace. Dopo che negli ultimi decenni si erano combattute due guerre e centomila persone di etnia armena erano fuggite dall’Azerbaijan dopo l’attacco militare azerbaigiano alla regione separatista del Nagorno-Karabakh, ora hanno firmato. La ragione del contendere, una delle, è l’exclave azerbaigiana in territorio armeno, la Repubblica autonoma di Nakhchivan: finora per raggiungerla gli azerbaigiani dovevano fare il giro e passare per Iran o Turchia, ora invece l’accordo prevede la costituzione di un corridoio in territorio armeno. La cosa ridicola è che si chiamerà, pare, “Trump Route for International Peace and Prosperity”, TRIPP. Molto bene, forse è una fase di distensione, raccolgo la frustrazione di alcuni per decenni di negoziati dell’UE e russi finiti ora in un successo americano.
Ora vorrei vedere la Georgia occidentale, verso il mar Nero, e a nord, verso le montagne del Grande Caucaso. Si tratta di concatenare una serie di passaggi, di tappa in tappa. La prima è un luogo incantevole, la città di Mtskheta, alla confluenza dei fiumi Mt’k’vari e Aragvi. Per ricordarmela, la chiamo Miss Keta. Su un picco sopra la città e la confluenza il monastero di Jvari del VI secolo domina le tre valli e la fantasia corre a carovane, merci, eserciti e viaggiatori. In città non è da meno la Cattedrale di Svetitskhoveli dell’XI secolo, slanciata e ricca, custodisce la tunica di Cristo, certamente.

Un pope si vuole fare una foto con me, la facciamo, mi sorride e scuote la mano vigorosamente, tutti qui mostrano un lato amichevole, tranne quelli che guardano di traverso gli stranieri. Questo è caloroso e simpatico, come lo è il cristone sull’abside della cattedrale, enorme e paterno e umano. Forse lo sguardo non è proprio vispo, il pittore cercava di riprodurre una visione ultraterrena, volta all’infinito, ne viene una un po’ ciulina.

Indeciso se andare a visitare la città rupestre di Uplistsikhe, vengo convinto dalla signora che fa il caffè, fa facce da belizimo belizimo che non posso non andare. E in effetti è vero, oserei dire dei tratti in comune con Petra, in Giordania, e con almeno sei secoli in più e una posizione spettacolare sulla valle sul fiume.

Ma il pezzo forte di oggi è Gori e per gli appassionati vuol dire una cosa sola: Iosif Vissarionovič Džugašvili ai più noto come Stalin. E qui c’è il Museo di Stalin, ovvio che vado, che me lo perdo? Il museo fu iniziato a Stalin vivo, il che la dice lunga, e nonostante gli appelli ai compagni – ma no, non sum dignus – quelli insistettero. L’edificio antista la casa natale che è stata incapsulata a mo’ di Porziuncola del capo ed è, come dire?, piuttosto encomiastico, solo parole buone. La guida è più oggettiva e spiega anche la vicenda del testamento di Lenin senza tralasciare i fatti più evidenti, il resto sono foto, copie di documenti, qualche quadro, mappa, la maschera di morte e l’ufficio arredato tra 1919 e 1922, cor telefono de Stalin, ‘a penna de Stalin, ‘a seddia sempre de lui. Notevole, come a Pechino e nei paesi socialisti, la sezione con i regali ufficiali ricevuti da delegazioni estere, noi un bel set di pipe per il settantesimo che impallidisce davanti alla lampada da tavolo falce-e-martello in alluminio regalo dei polacchi buongustai. Sto un po’ nel vagone con cui andò alle conferenze di Teheran e di Yalta, che momenti.

Quasi più divertente fuori, in vendita il kit per diventare Stalin con pipa, bicchiere e fiaschetta per la vodka, e non solo, tutta l’attrezzatura per essere davvero come lui.

Man mano che gli eventi si succedevano, la statua di Stalin davanti al municipio fu rimossa, poi rimessa, poi si appose una targa al museo per avvisare della poca oggettività dell’esposizione, poi la si tolse, poi si propose di chiudere il museo e poi no, che di concittadini così noti non ce n’erano molti. Bene o male, nonostante tutto, per un paese piccolo come la Georgia avere avuto in mano le sorti dell’URSS è evidentemente motivo di orgoglio anche attuale.
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