minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: dodici, monasteri, templi e cattedrali

In un periodo di rapporti tesi tra URSS e Turchia – a proposito, non avevo mai compreso quanto la vicinanza tra i due imperi avesse creato situazioni di conflitto, si contano almeno dodici guerre russo-turche tra 1568 e 1922, alcune durate quattordici anni -, negli anni Sessanta da Mosca arrivò il via libera alla costruzione di un mausoleo per ricordare il genocidio degli armeni del 1915 per mano appunto turca ed eccomi qui: un bel mappozzone con rampa di lancio missilistica e piramide doppia incastonata, con fiamma eterna e muro dei giusti. E a me piacciono pure questi cosi.

Tra i giusti, Werfel per i suoi giorni del Mussa Dagh, serve però dire che come sempre le cose non stanno tutte da una parte sola: in Azerbaijan ricordano il genocidio degli azeri per mano armena, di sicuro a Baku pochi anni prima di sangue ne scorse molto, di sicuro gli armeni nel mondo – in Italia in particolare – godono di buona stampa, Arslan per esempio. Non voglio togliere nulla, per carità, segnalo solo come vista da qui sia enormemente più complicata, non si può esser mai certi di quel che si sente o si legge, senza conoscere gli interessi dell’interlocutore. E di sicuro ci furono di mezzo anche i greci e gli assiri cristiani, decimati anche loro. Gli stessi ottomani persero quattrocentomila uomini nella manovra di accerchiamento anglo-russa tra il 1915 e il 1917, allo scopo di eliminare la loro presenza nel Grande Oriente. Per dire che qua è un vero casino, detta alla storica. Dietro il mausoleo, una distilleria di quel càgnac di cui vanno molto fieri e che devono chiamare brandy per ragioni di marchi depositati.

Uscendo da Yerevan, strepitoso il monastero di Geghard o Gaghard, va’ a sapere, al termine di un canyon e le cui tre chiese sono scavate nella roccia, l’effetto Indiana Jones è assicurato. Butto qui ma non è che renda granché.

A seguire, a Garni, il motivo per cui sono venuto in Caucaso, volevo vederlo: il tempio greco più a oriente in assoluto. Qui lo chiamano ‘tempio pagano’, mai greco, e la cosa mi fa sorridere.

Mi son proprio detto: ma io questo devo vederlo! Tra l’altro, è in una posizione clamorosa, al culmine di tre canyons profondi e incurvati, geologicamente stupefacenti per le loro colonne di pietra esagonale come ne ho viste solo nel nord dell’Irlanda. Però poi è talmente pieno di persone, gruppi, droni, baracchini e aste per i selfie che bon, visto, vado, e nella classifica finale del viaggio non sarà senz’altro nei dieci. Scappando, J. insiste nel portarmi a vedere il luogo più sacro del cristianesimo armeno, la cattedrale e il complesso di Etchmiadzin, la santa Sede armena. La cattedrale, la più antica del paese, del 301, cinque minuti prima del concilio di Nicea, è notevole, per carità, ma il complesso attorno dove vive il catholicos armeno, il papa patriarca, è terribile, modernismo religioso su cemento sovietico, mi ricorda da vicino l’aula Paolo VI in Vaticano per bruttezza.

Nonostante ne rimanga pochissimo, è invece emozionante e suggestivo ciò che resta della cattedrale di Zvartnots – pare il nome di un nemico di Superman -, un maestoso edificio trentaduogonale a tre piani del settimo secolo che doveva essere una di quelle meraviglie del mondo antico che venivano tramandate di viaggiatore in viaggiatore. Secondo la storia, crollò per l’ennesimo terremoto, stavolta nel decimo secolo, secondo gli armeni che mi raccontano la vicenda fu sì il terremoto ma furono prima i perfidi arabi che ne minarono la struttura erodendone i pilastri principali.

Ora, per carità, tutto può essere e chi sono io per dubitare di una frase qualsiasi di chiunque? Però una certa sindrome da accerchiamento un po’ la colgo, tutto attorno qua lavorano e hanno lavorato contro il popolo armeno, russi, ottomani, persiani, arabi generici e così via. Non che non ne abbiano ben donde, eh. Però questo brulicare di cattivi intenti dopo un po’ suona un po’ grottesco. Comunque, Zvartnots doveva essere spettacolare, ancora oggi la fotografia dell’Ararat innevato tra le colonne della cattedrale è una delle più gettonate.

Ed è qui che il mio viaggio ha termine, due settimane nel Caucaso, da Baku a Yerevan passando per la Georgia e un sacco di posti minori e maggiori, dalle altezze rigogliose del Grande Caucaso alle bassezze, in senso altimetrico, del deserto azerbaigiano che brucia da solo o sputa fango, da un mare, Caspio, all’altro, Nero, da un confine, russo, a due confini, turco e iraniano, da musulmani a cristiani ortodossi. E non ho mai parlato della Grande e Piccola Kabardia, dei Kisti, degli Ingusci, dei Karabulak, dei Ceceni, fossero essi pacifici o di montagna, dei tre tipi di Cumucchi, dei nomadi Nogaj che erano dappertutto, degli intellettuali musulmani detti Tatari e ciao, non è più finita. Magari una conclusione potrebbe essere utile, chissà, forse no, vediamo che succede in aereo.


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