minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: sei, salita

A Kutaisi stasera si celebra l’anniversario della guerra del 2008 con la Russia, proiettando un film in piazza che racconta quei giorni da parte georgiana.

Come è normale nel genere, che sia film o romanzo o canzone, muoiono tutti. La scena del carro col cadavere, seppur in georgiano senza sottotitoli e piuttosto lenta, è straziante. La città è, tra quelle che ho visto, la migliore per integrazione tra architettura zarista e sovietica, l’aspetto è quasi mitteleuropeo, meriterebbe un giorno in più. Ma io devo andare a nord, più in alto, e qualcuno lo sa e manda gran pioggia. Bello. Più scomodo ma bello, salgo tra le gole boscose per visitare alcuni monasteri isolati su cucuzzoli a strapiombo su fiumi impetuosi.

È proprio a Kutaisi che lo scellerato presidente Saak’ashvili fece costruire un nuovo parlamento per decentrare il potere da Tbilisi, con un esborso economico e politico del tutto insensato. Sfigato, pure, perché all’inizio dei lavori, quando fecero platealmente saltare con l’esplosivo un monumento sovietico ai caduti della seconda guerra mondiale, un grosso pezzo di cemento colpì una giovane donna con la figlia. Più sfortunate ancora. Dopo complesse vicende, Mikheil Saak’ashvili è ora in carcere, privato della cittadinanza e dei diritti civili, mentre il governo del paese è in mano a un delirio chiamato “Sogno georgiano”, un partito dall’impronta simile ai cinquestelle in mano a un ricchissimo imprenditore che, come Grillo o Casaleggio, governa dalle seconde file.

Finisco per mangiare a casa di una famiglia che in un posto incantevole vicino al fiume ha messo alcuni tavoli sotto le frasche e il cibo, come sempre finora, è molto buono: certe focacce al formaggio e alla carne tipiche georgiane, involtini di melanzane, polpette di patate, fagioli, misto di verdure cotte. Se non è il mio pasto ideale poco ci manca. Anche qui, innumerevoli brindisi, tutti ispirati, se si avverasse anche solo un quinto delle invocazioni, vivrei in eterno, felice e rispettato. Non esagero, almeno quindici brindisi, piuttosto gridati, alzando vino rosso georgiano che mi farà desiderare un letto a breve. Ma no, devo sfiorare l’Ossezia del sud e devo salire lungo il corso del fiume Enguri, fino alla valle di Mestia, sotto certe cime da cinquemila metri che fanno da confine con la Russia.

La strada sovietica è tutta una curva e dipende dal lato in cui si è seduti in corriera per vedere il fiume schiumante in fondo allo strapiombo o la parete rocciosa venire un po’ troppo incontro. Non ci sono rottami cadaveri di mezzi in fondovalle come in Uzbekistan o in Tajikistan ma non dubito che ogni tanto qualcuno vada giù. Dopo alcune ore e pause in luoghi improbabili, arriviamo nel centro dello Svaneti o, meglio, dello Zemo Svaneti, l’alto Svaneti, la regione più a nord del Grande Caucaso, confinante con l’Abkhazia, altra repubblica separatista. Mestia e i villaggi della valle, con le tipiche case a torre, sono – ancora – incantevoli, l’aria è fresca, finalmente dopo giorni torridi, e le nuvole corrono.

Non vedo l’ora di fare qualche camminata.


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