Qualche giorno fa, mentre camminavo tra i petroglifi del Gobustan pensando a pitoti, deserto e fuochi notturni, ho colto una voce vagamente familiare, ma più familiari erano gli argomenti – lamentele sul caldo -, e ho visto M., che avevo conosciuta, vedi il caso?, in Patagonia. Ci siamo abbracciati, entrambi stupefatti da tanta coincidenza casuale, stessa ora stesso giorno per venire qui, da non credere. Ci siamo poi salutati, contenti dell’incontro, ottimisti su questo piccolo mondo in cui è possibile rivedersi ai capi di esso e scambiarsi parole gentili. Vedi gli incontri?

Ora sono seduto a un tavolo di Fabrika, luogo industriale recuperato di Tbilisi, con F., esperto della regione e a lungo membro di una missione UE per il monitoraggio dei conflitti in Georgia; con M., armeno docente universitario in Georgia, memoria storica della città e ghost writer di Shevardnadze; con R., polistrumentista e compositore di musica ambient, in viaggio. M. sta facendo uno dei lunghissimi brindisi per cui i georgiani vanno fieri e tutti gli altri appoggiano il bicchiere sconsolati, che devono partire necessariamente con un’invocazione di pace e proseguire con una storia del passato che abbia però una ripercussione sul presente o sul futuro, apprezzo molto nonostante la sete. Si mescolano russo, inglese, pezzi di italiano, qualche termine georgiano e armeno, non sempre ricerco questo tipo di incontri, spesso li rifuggo perché esibizioni di ego tracimanti, oggi no, oggi è stato bello e per questo lo racconto. Girare con loro tutto il giorno per Tbilisi, soprattutto nella parte più frequentata dagli abitanti più che nelle parti turistiche e mondane, è stato particolarmente interessante. Sebbene M. si dichiari ateo di impostazione sovietica, e io un po’ mi accodi, abbiamo visitato decine di luoghi religiosi di ogni tipo di confessione, dalle chiese ortodosse russe a quelle georgiane, alla cattolica di rito armeno, alla sinagoga, alla moschea, manifestazione evidente di una certa tolleranza e libertà. Nella chiesa cattolica romana conosciamo il prete, polacco, e il suo collaboratore pastorale, giovane napoletano che, vedi la vita?, ha lasciato un lavoro in una multinazionale a Torino per venire qui ad assistere le attività della chiesa locale. La Chiesa cattolica armena li tratta con sospetto ostile, ci dice, mal tollerando la potenza del Vaticano. L., altro incontro del giorno, nel brindisi che gli spettava e nella prima parte, l’invocazione alla pace, ha detto: “Che ci sia pace in Italia e in Georgia perché se non ci fosse né io né voi potremmo essere qui e non ci saremmo incontrati”. Il che è a dir poco giusto.
Per parlare degli incontri, non ho menzionato il passaggio della frontiera: a Lagodekhi dopo un doppio controllo azerbaigiano e un lungo corridoio di circa ottocento metri di terra di nessuno, si entra in Georgia. Le mie solite foto di sfroso che prima o poi mi deporteranno.


La differenza salta agli occhi, sia per le condizioni materiali dei due popoli, derelitti gli azerbaigiani perché ricchi di petrolio e gas in ben pochi, più ordinati e mediamente nutriti i georgiani, le strutture rispecchiano le differenze, il paesaggio anche, di qua sono tutte viti e le colline sono verdi di boschi, sono cambiate latitudine e altitudine. E la grafia, oltre alla lingua. Passo da Sighnaghi, detta città dell’amore perché ci si può sposare in venti minuti – e divorziare in trenta -, e scendo a Tbilisi, capitale e concentrazione di metà della popolazione georgiana. Un primo giro notturno nella zona della movida mi dice che la città è in parte un resort per arabi e mediorientali che vengono qui a fare ciò che non possono fare a casa propria. Per fortuna la giornata di domani, da cui ho iniziato oggi il racconto degli incontri, renderà giustizia a questa città interessante, Tbilisi, costruita sull’ansa di un fiume placido e in una gola controllata da due fortezze, una delle vie della seta.

Georgiana, proprio come chiamiamo le loro case nell’est e nord Europa, classicista monumentale e liberty nel periodo zarista, brutalista e modernista nel periodo sovietico di cui permane l’odonomastica, quando non immensa distesa di case basse con balcone di ispirazione persiana, sventrata dai palazzinari attuali senza garbo né tempo né gusto. I reperti fin dal terzo millennio al museo nazionale, gioielli, statue, monili, amuleti, attrezzi sono straordinari, per fattura, ricchezza e numero, buffa la sezione sull’occupazione sovietica, essendo l’URSS, almeno il primo periodo, a completa trazione georgiana, Stalin e Berija per dirne due, i primi due. La statua di Lenin è stata sostituita da quella tutta dorata di san Giorgio che infilza il drago, l’avvenire è ormai un altro.
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