Fuori da Baku è il deserto, sulla costa impianti di costruzione e manutenzione delle piattaforme petrolifere ed estrattive e delle petroliere, all’interno alcune montagne tozze e piccoli pozzi petroliferi come quelli americani della prima Standard Oil, di legno a torre o quelli a forma di martello, in movimento continuo, piccoli e diffusi. Il venti per cento del gas comprato all’estero dall’Italia, mi dicono, viene da qui, con il gasdotto che arriva in Puglia. E le relazioni tra i due paesi si sono intensificate negli ultimi anni con reciproco vantaggio, in particolare per l’Azerbaijan per spezzare il collegamento stretto tra l’Europa e gli armeni, in nome di una comune appartenenza cristiana. Alla presenza forte degli armeni in Italia su stampa e letteratura, grazie per esempio ad Aslan, l’Azerbaijan ha replicato per esempio restaurando le catacombe in Vaticano, inserendosi quindi nel sistema di relazioni. Ogni spiegazione geopolitica che ricevo qui implica conoscenze della situazione caucasica che non possiedo affatto. La ricerca di questo tipo di rapporti, da quanto capisco, ha causato un peggioramento delle relazioni tra Azerbaijan e la Russia, a Baku si discute se chiudere le scuole pubbliche russe, lasciando solo quelle private. L’incidente in cui i ceceni hanno abbattuto l’aereo azero nel dicembre scorso rientrerebbe in questo tipo di contesto, sarebbe un avvertimento russo.

Viaggio un po’ nel deserto per raggiungere Gobustan, una località in cui vi sono numerose incisioni rupestri molto simili ai pitoti camuni. Per più di dodicimila anni popolazioni locali lasciarono le loro tracce su queste montagne, sfruttando il mare per lunghi periodi molto più alto e rifugiandosi alla bisogna. Le rappresentazioni terminano in coincidenza con l’arrivo degli arabi, nel settimo-ottavo secolo, vista la loro insofferenza all’iconografia. Buoi, barche, donne incinte, donne incinte con attrezzi, serpenti, carri, uomini, omini, cammelli, carovane, le storie si susseguono sulle rocce. Più in basso su una roccia nella pianura si trova un’iscrizione in latino, della dodicesima Legio Fulminata, evidentemente a zonzo per questi deserti, ed è la testimonianza più a oriente che possediamo del mondo romano. Non tanto distante, una zona di vulcani di fango, la terra ribolle di piccoli e medi crateri da cui esce fango e si formano certi coni simili a quelli che facevamo in spiaggia sul bagnasciuga.

Il fango non basta, la terra qui butta fuori un sacco di cose, tra cui gas. Infiammabile. Persino io rilevo qualche connessione nemmeno troppo labile tra questo e la nascita di culti afferenti allo zoroastrismo, ovvero per dirla male culto e custodia del fuoco. Visito un monastero in cui arde una fiamma eterna, oggetto appunto di culto. Poi mi spiegano che con le trivellazioni la pressione è diminuita e, dunque, il gas alla fiamma eterna oggi lo portano col tubo e vabbè, bisogna arrangiarsi. In Iran c’è un altro monastero simile con fiamma accesa perennemente. È invece in Turkmenistan la voragine infiammata, qui i fuochi nel terreno sono piccoli ma frequenti.

È molto bello, già ci sono quaranta gradi all’ombra, avere anche fiamme libere contribuisce al piacere complessivo del contesto. Faccio mia, anzi era già mia, una prescrizione zoroastriana: “Buoni pensieri, buone parole, buone azioni”, ricorda molte altre indicazioni ma la successione è importante. Lascio la penisola di Absheron, sul Mar Caspio, e torno a Baku; quando mi raccontano del genocidio (attenzione!) degli azerbaigiani per mano degli armeni russi nel 1918, comincio ad avere la consapevolezza, più di quanto sospettassi, che questo sia il territorio più complicato al mondo.
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