minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: uno, da zero a cento in trent’anni

Cammino per il Bulvar, una strada a sei corsie che costeggia il mare e circonda il centro di Baku, che una volta all’anno diventa la zona dei box e del rettilineo del gran premio di formula uno. Stavolta sarà a settembre, le strutture sono già montate. Il mar Caspio, che è propriamente un grande lago salato alimentato dal Volga, porta foschia umida satura e i quaranta gradi portano fiacchezza e rassegnazione. Baku è la tipica città che nell’arco di un decennio è passata dai condomini sovietici e baracche a Zaha Hadid senza passare dal via, firmando il “Contratto del secolo”, lo chiamano davvero così nello specifico museo, per tenersi gas e petrolio e venderlo a British petroleum o a chi ora gli paia. E così da remota città russa piena di raffinerie è diventata una Dubai in cui vive la metà degli azeri, in cui si costruiscono grattacieli a forma di fiamma mescolando zoroastrismo e industria estrattiva, è sorto di recente un aeroporto internazionale che conterrebbe facilmente Linate e Malpensa insieme, una città che guarda appunto un gran premio dalle terrazze e vince le guerre con gli armeni. E dichiara la pace perpetua perché così vogliono i petrolieri. Faccio la foto evocativa tra tradizione e contemporaneità, passato e presente.

Che poi la moschea a sinistra è del 1991, ovvio, prima ce la si sognava sotto l’URSS. L’ottanta e rotti per cento della popolazione è musulmano sciita ma, dicono, essendo poco praticanti, tollerano anche i sunniti, e la moschea lo è. Guardo sospettoso Hafad che mi racconta queste cose e penso che sarebbe il primo posto al mondo in cui ci sia concordia tra loro. Il racconto della tolleranza religiosa è un momento inevitabile in questo tipo di paesi, difficile raccontino i contrasti. Teheran alla fine è a meno di trecento chilometri in linea d’aria passando sul mare, di là. La chiamo Afa, ride quando capisce.

Dall’indipendenza del 1991, l’Azerbaijan ha abbandonato il cirillico, per mia fortuna personale, e adottato l’alfabeto latino. Non che questo favorisca particolarmente la mia comprensione dei dettagli ma insomma, almeno si legge. La città nuova degli ultimi trent’anni, grattacieli e fuoriserie con biondona innestata e Lada ancora scassone, assedia la città vecchia, ancora murata e cresciuta attorno al palazzo della dinastia Shirvanshah. Fino alla fine dell’Ottocento l’aspetto generale della città era quello di un ducato medievale, vie strette, mura turrite, carretti e asini, in vista al mare, una volta molto più alto. Il petrolio poi, con il gas, divenne il fulcro di ogni faccenda, tant’è che perché non regalare un pozzo petrolifero ai figli per natale?

Parte del pacchetto di sviluppo è chiamare un architetto di grido – un’architetto in questo caso – per costruire un museo o un centro culturale così che non passi l’idea che si badi al solo profitto e la popolazione possa averne motivo d’orgoglio. Ed ecco Zaha Hadid per il Heydar Aliyev Center, centrone culturale intitolato al presidente precedente, padre di presidente, ormai carica ereditaria. L’edificio è molto bello ed è museo di per sé, contiene nostre temporanee ed esposizioni sul paese e sul presidente, resto estasiato alla collezione del grande scultore italiano Giuseppe Carta, noto a ogni sincero appassionato di frutta e verdura in formato gigante:

Come gli stilisti italiani all’estero, lui è il Bruno Banani dell’arte contemporanea. Bravo, a ritagliarsi un nicchione qui, in sede così prestigiosa. Non male anche un certo De Souza che recupera la tradizione della commedia dell’arte italiana e dipinge bei quadroni che raffigurano Arlecchino in moto o con la gang. Le persone apprezzano molto l’edificio e io anche, nonostante Carta e De Souza. E poi non c’è come vincere l’Eurovision, 2011, che poi siccome devi ospitare costruisci un bel palazzone per le neomelodie e ti fai un nome in Europa. La repubblica nata dopo la seconda indipendenza, 1991, è repubblica ma non tanto democratica, il modello assunto è quello delle grandi catene di consumo, certe vie sono uguali a quelle di Milano, garantire l’accesso all’acquisto è il fondamento su cui si regge l’edificio sociale. Ho il sospetto che fuori da Baku non sia esattamente così ma vivendo qui poco meno della metà di tutta la popolazione del paese la cosa è perlopiù risolta.


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