minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 77

Oggi gita. Dal 18, perché l’ultimo decreto lo permette, è possibile girare per la regione. Ho ripreso il mio elencone mentale di destinazioni desiderate e l’ho scorso rapidamente, cinque o sei cose da vedere a portata di mano. Poi ho fatto mente locale, ho considerato che i musei sono aperti, è vero, ma richiedono prenotazione, hanno le entrate contingentate e poi non mi fa impazzire l’idea di restare al chiuso per alcune ore, al momento; i ristoranti un po’ come andar di notte, serve trovarne uno con i tavoli all’aperto per ristabilire un certo grado di soddisfazione; i bar sì, con cautela, il tutto con mascherina, attenzione alle distanze e tutto quanto sappiamo. Le chiese al di fuori delle funzioni? Boh. I castelli, palazzi, biblioteche? Boh. Non entusiasmante come prospettiva di divertimento. Più senso avrebbe andare a svagarsi sui sentieri in montagna, questo sì. Prendo in considerazione. Però si possono rivedere gli amici e, questo, basta. Sento il mio amico L., che ovviamente non vedo da prima del lockdown, e ci organizziamo per un incontro a metà strada tra casa sua e la mia, in un paesotto quasi al centro della Lombardia. Sono quasi emozionato, devo fare circa cinquanta chilometri, varcare un confine provinciale e innumerevoli, dico innumerevoli confini comunali. Quasi un viaggio intercontinentale, al momento. La macchina? Sì, ho una macchina. Dove sarà? Partirà? È a posto? Sì, dovrebbe. Oh, prendo l’autostrada, sono al limite dell’esodo estivo, della partenza intelligente, della Milano-Santamariadileuca con partenza in notturna. Mascherina, due perché se una si rompe, guanti, otto paia perché non si sa mai, caldo, freddo, cose, altre cose. Sono pronto, vado. Il bello è che solo quando rifai una cosa ti ricordi che la sapevi fare, prima no: so guidare, so prendere l’autostrada, so trovare la strada, so raggiungere il paesone. Sono contento di me, venticinque minuti di traversata transoceanica e tutto è andato per il meglio. Purtroppo è una sciocca autostrada senza autogrill, li avrei fatti tutti, un camogli dopo tre mesi è un piacere che non mi sarei negato. È una menata mettere i guanti, almeno uno, per il casello e il pagamento, per il parchimetro, per ogni interazione con oggetti pubblici – con umani non c’è rischio, non ce ne sono – e poi toglierli e rimetterli. I guanti usa e getta, di lattice o altro che siano, se infarinati dentro o meno, permettono al massimo due giri di messa e tolta, poi diventa difficilissimo, si strappano pezzi di dita, diventano di una nuance nera e si rivoltano irrimediabilmente. Ci vediamo, non ci abbracciamo. Camminiamo, parliamo, superiamo il test della temperatura, prendiamo un caffè al bar del paese, ci guardiamo attorno, il tutto ruotando sempre attorno al perno centrale che sta equidistante tra noi e che regola la distanza. Quasi un balletto, a volte: avanti-indietro, avanti-indietro, di lato tu-di lato io, indietro-avanti. Come stai? Com’è andata? Cose che sappiamo, ci siamo parlati, ma di persona si dicono in modo diverso. Pensiamo al pranzo, lui fa la coda in forneria, io dal salumiere: due panini, due confezioni di fette di salame, due confezioni di fetta di formaggio locale, così ognuno ha il proprio senza interferire. Tutti i tempi raddoppiati. Ci laviamo le mani a una fontanella pubblica miracolosamente funzionante – grandi sedi di contagio – e mangiamo ai margini di una piazza, ognuno sulla propria panchina con il proprio cartoccetto. Il caffè successivo non va così bene, lui non passa il test della temperatura, prima 37,1, poi 37,3, sempre peggio, decidiamo di non andare oltre, ne prendo io due da asporto e arrivederci. Ci salutiamo, una mezza giornata fatta di molto e di niente, parole tra amici, mi sono mancate.

Io vorrei anche proseguire col personale, ma la Regione Lombardia non me lo permette. Il settario assessore alla sanità Gallera spiega quanto ho accennato ieri in chiusura sull’indice di contagio Rt: «L’indice di trasmissibilità a 0,51 cosa vuol dire? Che per infettare me bisogna trovare due persone allo stesso momento infette e non è così semplice trovare due persone allo stesso momento infette per infettare me». Ora, se in tutto il territorio regionale le persone cominciano ad accoppiarsi furiosamente tra estranei perché tanto è solo un’altra persona e non due, so di chi è la colpa. Il messaggio è talmente confusionario da essere imbarazzante. Ma la Regione non mi lascia in pace: Bertolaso ha «diffidato Regione Lombardia e Fondazione Milano dal chiudere la struttura» e si parla del famigerato Ospedale in Fiera (21 milioni, 20 pazienti, nessun Mercante), un bel dilemma per Fontana che se chiude perde la faccia, se dà retta a Bertolaso i costi continuano a salire. L’INPS mi accredita i seicento euro, seconda tornata, e gliene sono grato, le entrate del periodo sono praticamente a zero e non c’è un accenno all’orizzonte di ripresa. Non bastano ma è qualcosa.

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2 commenti su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 77

  1. Tutti in piazza

    E alla fine arrivò il popolo di Piazzale Arnaldo. Foto diffuse su internet di persone in mezzo alla piazza che brindano, bevono, si abbracciano, approcciano, alcune di loro senza mascherina, molte con la mascherina calata sotto il mento, difficile dire quanti di loro potessero materialmente rispettare (caso mai avessero voluto farlo) la distanza interpersonale di sicurezza. Si leggerà più tardi, in una nota diffusa dal Comune di Brescia per motivare la chiusura della piazza decisa oggi con ordinanza del Sindaco, che in tarda serata ci sono state anche “risse e liti, causate dall’abuso di sostanze alcoliche con serio pericolo per l’incolumità pubblica, la sicurezza urbana e la salute pubblica” (mi viene spontaneo osservare che difficilmente gli ebbri rissosi avranno rispettato il distanziamento interpersonale).
    La mia prima reazione è di irritazione. Altro esempio di cretini che in questi giorni se ne fregano delle misure di sicurezza evidentemente dimentichi di quanto appena successo e del rischio che, anche grazie al loro comportamento, si ritorni tutti daccapo.
    Interloquendo – consuetudine pressoché quotidiana e molto bella di questo periodo – con un amico che in Piazzale Arnaldo c’era (in uno degli spazi dedicati ai ristoranti, seduto a un tavolo ben distanziato da quello adiacente degli altri convitati suoi amici, gli chiedo scherzando se ha fatto chiudere lui la piazza e, un po’ più seriamente, che impressione aveva avuto della cosa. La risposta che ricevo è interessante su più piani.
    Anzitutto, mi precisa che la situazione era molto diversa all’interno degli spazi dei vari locali, dove i gestori facevano particolare attenzione al rispetto dei protocolli di sicurezza e intervenivano per prevenire e rimediare alle possibili loro violazioni, e invece il centro della piazza, che essendo uno spazio pubblico faceva storia a sé ed era poco controllato. Le scene pubblicizzate sui social media, e più in generale i problemi che si sono verificati, riguardano insomma solo questo secondo ambito spaziale. Questo aiuta a non fare di ogni erba un fascio e per certi versi mi rinfranca.
    Poi il mio amico annota anche, con un certo fastidio, che – a fronte di quanto ha visto lui – trova eccessivamente aggressivi, “surriscaldati” e di un fanatismo quasi settario i commenti di coloro che, via social media, quotidianamente si scagliano contro coloro che non osservano con scrupolo qualsiasi misura di sicurezza sia imposta. Emerge fin da subito che a dargli noia non è soltanto il modo livoroso con cui spesso i critici si esprimono, ma anche il merito della critica. E qui tra noi si palesa un dissenso che provo a indagare.
    La linea argomentativa del mio amico è duplice.
    Per un verso fa notare che i comportamenti inosservanti sono stati, in proporzione, tutto sommato pochi, per lo più innocui o comunque accettabili, e posti in essere da persone quasi tutte under 40, cioè i meno colpiti (quanto ai suoi possibili effetti) dal covid. L’infrazione, insomma, non sarebbe così grave e per lo più avverrebbe con riferimento a norme prudenziali non cogenti, vuoi in assoluto, vuoi con riferimento alla specifica categoria di persone interessate.
    Per altro verso osserva una incongruenza nei provvedimenti normativi politico che da un lato consentono ai bar, ai ristoranti e ai relativi spazi pubblici limitrofi di riaprire e dall’altro impone misure di sicurezza che statisticamente dovrebbe sapere sarà estremamente difficile, se non impossibile, che vengano osservate. Pertanto, il cittadino si ritroverebbe come stordito da questa contraddizione e, anche in ragione del suo comprensibile desiderio di rinnovata libertà e socialità dopo il lockdown, sarebbe sostanzialmente irresponsabile se non adeguatamente istruito (a priori), guidato (nel mentre) ed eventualmente sanzionato (a posteriori) da chiare decisioni del potere politico.
    Replico a mia volta sulle due linee.
    Circa il primo aspetto faccio notare che la valutazione del rischio, soprattutto in casi di incertezza come quello attuale legato al covid, non dovrebbe essere lasciata al buon senso del singolo, che tenderà sempre a mediare rispetto ai suoi interessi (non necessariamente abietti e solo individualistici, ma sempre propri, nel senso di personalmente scelti); non per nulla, per fronteggiare un’emergenza dalla quale non siamo ancora usciti, sono state adottate non delle semplici raccomandazioni sanitarie, ma vere e proprie norme giuridiche, sanzionabili, coercibili ­e non rimesse alla valutazione dei singoli.
    Circa il secondo aspetto riconosco volentieri al mio amico che ha ragione sulla incoerenza del potere politico, che dovrebbe essere valutato molto negativamente quando compie scelte così contraddittorie. D’altro canto, il cattivo giudizio sulla politica non mitiga più di tanto quello espresso sul singolo cittadino, che a fronte di quanto è successo ben potrebbe, invece di far prevalere il suo desiderio di socialità, dare maggior peso a quello relativo alla sicurezza propria e altrui, al limite decidendo pure di non sfruttare alcune delle possibilità concessegli, proprio per non correre il rischio di violare delle norme (con la stessa valutazione che si potrebbe fare nel caso aprissero gli stadi imponendo l’obbligo di distanziamento in curva sud).
    Dopo qualche ora, ho ripensato a questa mia conversazione con E. e al suo rilievo rispetto al fatto che il mio atteggiamento, impostato a una maggiore prudenza rispetto al suo, fosse dovuto anche al fatto di convivere, in questo momento, con una persona “anziana” e quindi maggiormente a rischio. Osservazione sicuramente esatta dal punto di vista soggettivo, ma che non dovrebbe mutare il valore oggettivo dei miei argomenti, che rileggendo continuo a trovare migliori di quelli contrapposti. Eppure, eppure…
    Eppure mi rendo conto che la confusione all’interno della quale siamo immersi ormai da mesi renda molte cose più complicate di quanto non dovrebbero essere e che, nel caos attuale, pretendere che tutti inclinino verso la soluzione più prudente non soltanto per sé, ma anche per gli altri (il vero problema, secondo me, sta soprattutto qui) e soprattutto per altri che uno non conosce e dei quali tendenzialmente non si cura, è una pretesa difficile esigere in concreto. Neppure col tramite del diritto, che anzi, invece di rafforzare un precetto prudenziale, rischia di essere percepito come un mero appesantimento degno di essere eluso nel modo più scaltro possibile. In queste condizioni, applicare una morale “supererogatoria” è davvero un atto di fede. Soprattutto in Lombardia.

    • Per il 99,5% dei lettori di questo blog che non sanno cosa sia un “Piazzale Arnaldo” con cui inizia il commento di Federico qui sopra, è una grossa piazza di Brescia nota per la movida e il sostanziale irrispetto delle norme di convivenza generale.

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