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Tra le tante riaperture di questo periodo – ed è un piacere sentire ogni giorno che qualcosa riparte quanto era stato spiacevole a marzo vedere le chiusure avanzare come una mareggiata improvvisa – ci sono quelle del comparto culturale, musei, pinacoteche, biblioteche, esposizioni, teatri, cinema e così via. Naturalmente si è discusso moltissimo sulle modalità delle riaperture dei ristoranti, distanze dei tavoli, capienze, servizio, sicurezza eccetera, e molto poco su quelle dei musei, l’interesse generale pende sui primi e non sui secondi. Ciò nonostante, anche sui luoghi pubblici dedicati alla cultura il dibattito è stato vivace, le proposte molte, alla fine si è optato per soluzioni che garantiscano insieme ove possibile la sicurezza dei visitatori e l’attrazione dell’offerta. La seconda più penalizzata, specie nei musei piccoli. Per fare un esempio, ieri ha riaperto il Prado, come molti musei spagnoli. È ora necessario acquistare il biglietto in anticipo, scegliendo una fascia oraria per la visita, farsi provare la temperatura all’entrata, indossare la mascherina per tutta la durata della visita, osservare i distanziamenti. Per dire, non è possibile tornare indietro nel percorso della visita che, ora, si svolge in una direzione precisa e non permette più di scegliere le sale secondo estro. Per rendere questo possibile, la capienza del museo è stata ridotta da circa novemila visitatori a milleottocento, esattamente un quinto. Di conseguenza, anche le opere visibili sono passate da millequattrocento a duecentocinquanta, più o meno una proporzione simile. Essendo un po’ smembrato il criterio di visita consueto, e non potendo non lasciare visibili alcune opere di grande attrazione, i dipinti sono stati accostati secondo criteri tematici per quanto avventizi, senza tenere conto, per esempio, del criterio cronologico e geografico cui siamo abituati. Il biglietto costerà la metà fino a settembre – e qui spiace dirlo ma la percentuale non torna, offerta al venti e costo al cinquanta per cento – e le perdite del museo sono consistenti, poiché tre quarti del bilancio del museo sono costituiti dalle entrate derivanti dalla vendita dei biglietti. Il periodo di lockdown è costato complessivamente sette milioni.

(Carlos Alvarez/Getty Images)

Come per i ristoranti, i musei più grandi e più strutturati sono destinati a soffrire meno di quelli più piccoli e con opere che destano meno l’interesse del grande pubblico. Tra quelli più grandi, da noi, la Pinacoteca di Brera riaprirà martedì prossimo, seguendo alcuni criteri simili: prenotazione obbligatoria, registrazione dei dati, visite ridotte a cento persone all’ora, rilevazione della temperatura, percorso di visita a senso unico, uso di mascherine per i visitatori e per i custodi. La direzione non comunica dati sulle opere in esposizione, segnalando solo la chiusura delle sale più piccole, e il dato più evidente è che l’accesso sarà gratuito per tutta l’estate, fatto davvero meritorio. Cercando di arricchire la proposta, hanno poi pensato a un’offerta preparatoria alla visita, ovvero a seguito della registrazione e dell’acquisto dei biglietti viene inviato in posta elettronica un pacchetto personalizzato propedeutico alla visita. Se la comunicazione del Prado è amichevole, il «Reencuentro», quella di Brera è più battagliera, si parla di «resistenza culturale», e mistica, il visitatore dopo aver ricevuto materiali online in anticipo avrà il momento della «rivelazione» durante la visita vera e propria. Quanto vale per la visita a Brera vale anche per le esposizioni milanesi, per esempio la mostra di Georges de la Tour a Palazzo Reale, riaperta anch’essa da qualche giorno, e la segnalo perché tra le indicazioni di visita viene specificato di non presentarsi in anticipo, almeno non prima di cinque minuti dall’orario della prenotazione, «per non creare assembramenti». Anche a Roma i musei nazionali e comunali hanno riaperto da pochi giorni, dal 2 giugno, con gli stessi criteri – prenotazione obbligatoria, orari fissati in anticipo, numeri contingentati, ingressi ogni trenta minuti, chiusura delle biglietterie e dei guardaroba, rilevazione della temperatura – e l’uso delle mascherine, che nel Lazio non sono obbligatorie all’aperto ma al chiuso sì. Diversa la comunicazione del Palazzo delle Esposizioni di Roma che scrive con evidenza: «Ogni singolo individuo si assume la responsabilità di contenere il contagio», per essere chiari fin dal principio. Tutti i maggiori musei offrono audioguide disponibili con app scaricabili, di modo che sia possibile ascoltarle sul proprio telefono, risolvendo così un’altra questione non banale, la distribuzione e la sanificazione degli apparecchi usati dal pubblico.
Se l’offerta culturale declinata sul versante museale comincia a trovare una propria consistenza, quella teatrale e cinematografica stenta maggiormente, sia perché è sospesa per decreto fino al 15 giugno sia perché comporta qualche problema in più, come evidente. La riflessione al riguardo pare stia portando all’adozione di criteri simili a quelli dei musei per gli accessi e alla riduzione significativa dei posti a sedere: Ascanio Celestini sarà il primo a inaugurare questo nuovo corso, portando in scena il suo «Radio Clandestina» al teatro Sperimentale di Pesaro il 15 giugno alle ore 00:01, il primo attimo possibile, con una platea anche in questo caso ridotta al venti per cento, da cinquecento a cento. Celestini, spiegando l’idea di andare in scena un minuto dopo la riapertura, ha paragonato la situazione attuale, dell’attore e del pubblico, a quella del carcerato che, appena uscito, fa ciò che gli è stato impedito fino a quel momento.
L’offerta musicale, invece, è ancora in alto mare. Se i concerti al chiuso possono senz’altro seguire le indicazioni offerte dai teatri e dai musei, quelli all’aperto ancora non hanno trovato una propria forma, posso immaginare anche perché. Se la composizione e la distribuzione del pubblico potrebbero seguire le norme prescritte, distanziamento e riduzione del numero, più difficile la questione dei costi, notevolmente maggiori rispetto a una rappresentazione teatrale o a un concerto al chiuso (palco, luci, suono, organizzazione eccetera). Il settore, al momento, ha posticipato paro paro il calendario dei concerti estivi del 2020 al 2021: un concerto previsto per oggi, 6 giugno 2020, è spostato integralmente al 5 giugno 2021, mantenendo invariata la proposta, compreso il giorno della settimana. E così è stato per tutta la stagione, considerando la situazione attuale come, alla fine, temporanea. Bene, anzi no. Perché se le condizioni sono cambiate, e sono cambiate eccome, dev’essere offerta all’acquirente del biglietto la possibilità di acconsentire allo spostamento o di ricevere il rimborso, opzione che il settore musicale non ha nemmeno preso in considerazione. Per tutti i concerti che mi sono saltati finora, e sono parecchi, da Pollini ad Atkins, da Capossela ai prossimi Pearl Jam, già andati, alla stagione operistica alle terme di Caracalla, chissà, nessun segnale pervenuto, non mi è stato mai proposto il rimborso. Il che è una bella vigliaccata, a parer mio. Per questo motivo, va dato riscontro positivo ai Tool, una band americana di metal progressivo, che ha rimborsato tutti i biglietti cancellando il proprio tour, perché «Mentre lavoravamo per riprogrammare il tour, abbiamo letto i vostri messaggi. Messaggi di persone che perdevano il lavoro, persone che si ammalavano e in difficoltà economiche» e, in conseguenza, «avremmo potuto posticipare le date al 2021 ma dal punto di vista etico, non crediamo che sia la cosa giusta da fare. Secondo noi, tenerci i soldi dei fan per mesi e mesi, se non addirittura per un anno intero, non sarebbe corretto». Concordo e, quindi, tanto di cappello ai Tool, per ora unici nel panorama.

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Novanta. La paura. No, a parte la smorfia, nessuna paura, al momento. Perché i dati sono sempre in calo e se i contagiati sono in aumento è perché sono stati fatti molti tamponi. Quindi, tutti tranquilli. Due parole sulla situazione negli Stati Uniti perché servono: da noi tutti indignati per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia americana e il primo pensiero che viene da fare – sia per il colore della pelle che no – è che al primo barcone con cinquanta, dico cinquanta, persone che naufraga nel Mediterraneo i commenti saranno, invece, che facevano meglio a stare a casa loro; a Buffalo la polizia, che immagino dovrebbe essere piuttosto cauta vista la situazione, non trova di meglio che spingere con violenza in terra un settantacinquenne che si era avvicinato gentilmente. Il tutto in favore di video, ovviamente. L’operazione-simpatia della polizia americana subisce un’altra battuta d’arresto. Suggerimenti per i prossimi giorni, per la polizia di ogni stato americano ma preferibilmente di quelli centrali: prendere a manganellate un panda; marciare in formazione sul corpo di un unicorno strappandogli l’arcobaleno; sparare proiettili di gomma su una donna paraplegica in fuga; urinare sulla torta di mele di nonna Papera; sparare lacrimogeni su una folla di monaci nani. Vabbuò, non c’entra molto con la pandemia ma è uno dei temi del momento. I fascisti ultrà nel frattempo scendono a Roma per fare casino e poi, son fascisti e pure ultrà, non trovano di meglio che pestarsi tra loro, coinvolgendo poi giornalisti e ovviamente polizia. Ma da noi la polizia non ama uccidere le persone di destra e, infatti, non accade. Felicitazioni, per Cucchi e Aldrovandi fino a Pinelli ne parliamo in altra sede. Pandemia, d’accordo: se ripresa dev’essere, sia; se riapertura dev’essere, sia. E così è: io e il mio amico F. usciamo a cena, andiamo in un posto che ci piace, in collina, il cielo la luce la brezza la temperatura la distanza da tutti gli altri tavoli il tramonto le stelle sono tutte perfette, ordiniamo cose buone ma soprattutto carnazza, che l’ultima carne mangiata per me risale al 7 marzo, la sera della Lombardia zona rossa. Un paio di affettati nel mentre ma niente di più. Carnazza e vino, dunque, e all’idea di uscire a cena all’aperto come si faceva un tempo erano addirittura giorni che ero un po’ emozionato. Per tradurre, poi, l’emozione in fatti concreti, ci siamo scolati due bottiglie in due e amen, lode alla riapertura. Quando prenoto, al telefono dal ristorante mi ringraziano almeno tre volte, sono davvero prostrati per essere così cerimoniosi. Una volta lì i posti occupati sono ben meno della metà, ovvero della capienza prevista dalle norme, non si può dire che le persone si siano rituffate ai ristoranti. Così, ci spiega uno dei gestori, riescono a coprire le spese – dipendenti, costi fissi, fornitori – e forse forse il bilancio va a pari. Con le tasse no, quelle non ci stanno. Non dico nulla, non faccio notare che lo stesso discorso la loro categoria lo faceva anche prima ma apprezzo molto i toni e i modi, sono gentili, rispettosi e modesti, anche nel raccontare le proprie difficoltà. Prima non era così, prima erano dei gradassi tremendi e si davano di gomito sull’evasione fiscale. Finita la cena, poi, andiamo a vedere le lucciole in collina ed è un momento strepitoso, emozionante e pieno della magia della natura nella sua piena espressione, complice poi una luna da competizione la giornata finisce in gloria. Grazie.

È proprio finito il lockdown. Ormai è inutile opporsi, i comportamenti collettivi sono un misto di abitudine e di volontaria ricerca di normalità, la cautela va ogni giorno a farsi friggere un pochino di più. Se razzoliamo noi, inutile predicare bene alle persone cui teniamo, anche se ovviamente le situazioni non sono esattamente le stesse e il grado di rischio nemmeno. Come andrà? Nessuno lo sa, ma per davvero: non c’è alcun elemento oggettivo per poter fare previsioni, chi parla di «seconda ondata» lo fa sulla base dell’esperienza dell’influenza, probabilmente fa pure bene ma non ci sono sufficienti elementi per poterlo affermare con sicurezza; chi parla di indebolimento del virus lo fa a sproposito, lo dico con un discreto grado di certezza; chi dice che il virus non c’è mai stato, ecco, quelli parlano perché viviamo in tempi democratici e io spesso ho parecchi dubbi su questo. L’Austria, nel frattempo, non riapre i confini con noi e ben se ne guarda, la Svizzera pure, tranne che per i lavoratori transfrontalieri, ai quali però è proibito fare acquisti in Italia, la Francia scoraggia, alcune nazioni impongono la quarantena a veneti, piemontesi, lombardi e spesso emiliani, altri no. Insomma, un certo caos negli spostamenti, cosa che io tengo d’occhio perché vorrei raccontare l’Europa in tempo di covid-19 e avrei desiderio di scollinare le Alpi in direzione nord, appena possibile, e andare di fondaco in fondaco. Con passaporto libanese, probabilmente, e bandiera liberiana, perché al momento la mia residenza suscita ansia a livello planetario. Forse solo Wuhan vince ma noi siamo a poche incollature.

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Alle prese da settimane con le sciocchezze, non si parla più della situazione legata al covid-19 nel mondo. E l’Iran? ci chiedevamo ieri sera sulle scale, come saranno messi? Era uno dei paesi messi peggio insieme a noi e ora nulla. Qualcosa dal Brasile ma per le sparate di Bolsonaro, gli Stati Uniti sì per la concomitanza con il caso-George Floyd e il resto del mondo poco o niente. Un po’ come al solito, devo dire, siamo piuttosto ombelicocentrici. Provvedo io, almeno un minimo. A oggi nel mondo sono stati registrati 6.366.788 casi di contagio e 383.262 decessi, complessivamente si procede con circa centomila nuovi casi al giorno. E non si pensi che la cosa sia in regresso perché il picco, finora, è stato toccato il primo giugno, quindi ora. I paesi che destano più preoccupazione, al momento, sono Brasile e Messico, che l’altro ieri hanno avuto rispettivamente 1.349 e 1.092 decessi. Gli altri paesi sudamericani paiono cavarsela non male, in particolare l’Argentina, 570 morti in tutto, la Bolivia, il Venezuela e così via. Anche in alcuni paesi asiatici il contagio è in espansione, in particolare in India e in Pakistan: di fronte a un numero relativamente basso di decessi si registrano invece dati in crescita per i contagi, diecimila al giorno in India, cinquemila in Pakistan. Entrambi i paesi hanno allentato le misure di isolamento ma le polemiche sul mancato rispetto delle norme di distanziamento sono vivaci. La Cina, il superfocolaio nell’immaginario di tutti, in realtà conta a oggi 4.645 morti, il che fa una certa impressione rispetto ai nostri 33.601, una sproporzione a nostro sfavore davvero significativa. Ma anche rispetto alla Germania, che ha avuto poco più di ottomila morti, caso particolare in Europa. Io ho sempre sostenuto, posso produrre testimonianze, che per invecchiare bisogna andare in Germania. E l’Iran? Giusto, l’Iran: dalla fine di marzo il paese faceva registrare un calo costante del numero dei nuovi contagi, da tremila circa agli 802 del due maggio; ad aprile sono state allentate le norme restrittive e nel corso di maggio si è assistito a una risalita dei contagi fino ai tremila odierni (3.574 ieri). Il problema – vediamo se la cosa suona nuova – è che la popolazione non rispetta le norme di distanziamento ma in un’economia già in crisi per le sanzioni statunitensi le pressioni sul governo perché riapra tutte le attività produttive sono molto forti. Per finire con un’amenità, in Giordania hanno celebrato un bel matrimonio con circa trecento invitati, una bella festa al chiuso con danze e torte, belle chiacchiere ai tavoli e una bella sporta di allegria, alla faccia di chi ci vuole male. Tutto bene, non fosse che il padre della sposa, e già qualche riferimento cinematografico vien fuori, era positivo e ha contagiato 76 invitati, circa un quinto dei presenti. Espansivo, non c’è che dire. I settantasette contagiati del matrimonio, a questo punto, sono il 24% di tutti i contagi in Giordania: questo l’ho fatto io, potrebbe dire qualcuno con un certo mal riposto, sfavillante, orgoglio.

Da noi, piove. Chiude l’ospedale nelle Marche (aperto il 23 maggio, durato meno di due settimane e costato 12 milioni, per fissare un paio di punti) e per Bertolaso sono due su due ma a lui non importa, perché è già in Sicilia a lavorare per la Fase 3. Auguri, l’importante è spostarsi velocemente e di continuo. Il meglio lo dice Musumeci, parlando del suo consulente nuovo di zecca: «Ha chiesto un compenso di un euro, per non far pagare alla Regione il vitto e l’alloggio ha deciso di usare la sua barca» e queste sono le puttanate che preferisco, delicati ritratti di persone generose che ti fanno risparmiare duecento euro al giorno e spendere venti milioni per ospedali inutili. Ma che importa? Oltre a vivere nella sua barca, Bertolaso profetizza: «L’estate trascorrerà tranquilla», bene, allora io vado fiducioso. Ma quali sono le tendenze make-up in tempi di pandemia?, ci si chiede. Beh, si punta sullo sguardo magnetico, a causa della mascherina, cercando di renderlo il più espressivo possibile. Ma qual è il segreto? È adattare mascara e ombretto al colore dell’iride. Ma pensa. Sempre per restare ai fatti importanti, salta fuori una notizia, riportata da tutti i giornali, di un interessamento di Conte al progetto del ponte sullo stretto di Messina. Sarei curioso di vedere l’agenda delle priorità, a questo punto, se non pensassi che c’entri davvero poco con Conte stesso. Non male, ma la mia preferita del giorno è la lettera di Zingaretti al Sole 24 Ore in cui ribadisce il proprio sostegno al Mes «senza se e senza ma» e – possibile non colga il bisticcio? – io penso subito «al Mes senza ses e senza mas». In tutto il mondo, la situazione attuale mette un po’ in crisi le leggi che proibiscono di coprirsi il volto, scopi religiosi, scopi rapina e tutto quanto può venire in mente, e la cosa crea un corto circuito di quelli che a me piacciono.

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Prima loro. Complice la ripresa e complice la festa della Repubblica, è tutta una gara a conquistarsi spazi di visibilità a tutti i costi e alle spalle di chi capita, dai mentecatti in corteo a Roma, opposizione mista (ancora non riesco a credere di aver sentito il discorso sulle iniezioni di mercurio e l’irradiazione del 5g), e a Milano, accozzaglia chiamata gilet arancioni, a chi in questi mesi ne ha azzeccate ben poche, vedi Sala più sotto che si fa scattare una foto veramente idiota, alle nuove stelline dello spettacolo, primari assetati di notorietà che lottano contro virologi pacati, insomma liberi tutti, le gabbie sono state aperte. A fronte di ciò, Mattarella che il 2 giugno si presenta al cimitero di Codogno si erge a una statura inimmaginabile, dato il contorno di nani bagonghi: il senso dello Stato e la rappresentazione della Repubblica, nelle proprie manifestazioni più alte, che si pongono con rispetto di fronte alle vittime e indicano la strada da seguire. Ora, io sono tutto fuor che un fan delle alte cariche e delle celebrazioni pubbliche ma stavolta devo ammettere che la presenza e il senso politico del Presidente sono stati sommi. A far da contrasto ancor di più il contesto reale, là fuori, fatto di baccano. A sottolineare ancor di più certe scelte, lo stesso giorno Mattarella ha nominato 57 nuovi cavalieri della Repubblica (l’onorificenza che viene attribuita a «uomini e donne che si sono particolarmente distinti nel servizio della comunità») tutti distintisi durante l’emergenza della pandemia. Medici, medici volontari o tornati dalla pensione, autisti, anestesisti, infermieri, operatrici del 118, operatori di vigilanza, carabinieri, alpini, cassiere del supermercato, tassisti, rider, studenti, ristoratori, addetti alle pulizie, volontari in genere, farmacisti, industriali, fotografi, cooperanti, gente che in generale ha usato la testa. E nemmeno un chiacchierone, un governatore di regione, un parlamentare assenteista, un generale, un virologo improvvisato, un runner, un panificatore casalingo, un cantante da balcone, un fascista, un complottista, uno degli «andrà tutto bene», un assessore.

Ancor più del solito, trovo sia necessario cercarsi le buone compagnie e tralasciare gli altri, che occupano giornali e social in predominanza. Le persone inutili dal punto di vista del progresso della comunità fanno molto più rumore. E ora io. Fedele alla mia funzione di servizio, ho installato «Immuni», finalmente l’app per il tracciamento. Non l’avrei fatto, penso, se non avessi questo minidiario e non avessi l’incombenza di documentare un minimo questo periodo. O forse sì, alla fine sono curioso. Comunque, installata nonostante al momento funzioni in sole quattro regioni, nelle altre, tra cui la mia, è solo in test. Vabbuò. Il primo scivolone è sull’immagine di presentazione, una mamma alla finestra con infante in braccio e un uomo, si presume il papà, che lavora al pc in smart working. Bene, nessun luogo comune, sono seguite polemiche e nuove immagini, più sbarazzine. Mai nessuno che o ci pensi al momento o, addirittura, nemmeno idei a monte questo tipo di rappresentazioni trite? No, pare di no, tocca sempre iterare all’infinito. L’app funziona così (banalizzo): attribuisce a ogni utente un codice casuale, peraltro che dovrebbe cambiare di frequente, e registra gli altri codici casuali dei telefoni con cui entra in contatto; qualora una persona si scopra positiva, con l’aiuto di un operatore sanitario può dare comunicazione in modo crittografato al server che tiene in memoria tutti i codici e attraverso quello dare una comunicazione a tutti gli utenti entrati in contatto. La cosa interessante è che grazie all’utilizzo del bluetooth l’app è in grado di valutare la qualità del contatto tra le persone – durata e distanza – e qualora le due variabili indichino l’improbabilità di un contagio (ci siamo incrociati per dieci secondi a cinque metri), tralascia la segnalazione. A parte la dichiarazione di partenza («L’app non raccoglie e non è in grado di ottenere alcun dato identificativo dell’utente, quali nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di telefono o indirizzo email») per cui serve un atto di fede, l’installazione non richiede informazioni ed è rapida. Per il buon funzionamento, il bluetooth dev’essere sempre acceso ma posso dire per mia esperienza diretta che non si apprezza alcun maggior consumo di batteria (usa il Bluetooth Low Energy che consuma niente) né consumo di dati in uscita (qualche mega per i codici crittografici) né carico di utilizzo del processore del telefono. Tutto ciò è bene. Anche la comunicazione, al netto di qualche scivolone, è chiara e, cosa che mi fa piacere, garbata: «Per favore, fai la tua parte seguendo le raccomandazioni, anche se pensi di non essere contagioso». Mica poco. Naturalmente, e questo è l’aspetto generale che c’entra poco con l’app in sé, mi chiedo cosa farò se mi dovesse arrivare – e spero accada per dovere di cronaca ma non dal punto di vista personale – una notifica di aver incrociato significativamente una persona positiva al covid-19: sarò ligio, sentirò il mio medico e mi chiuderò in isolamento? Farò un po’ finta di niente e un po’ no? Disinstallerò «Immuni» e reinstallerò «PornHub»? Scherzo, non l’ho mai disinstallata.

Ora, ancor più io, perché è stata una giornata con diverse vicende personali. Non ne vorrei parlare, perché la circostanza è fonte di dolore per persone a me care e, di conseguenza, lo è anche per me, e poi credo molto nel pudore dei sentimenti e dei fatti ma lo farò al minimo e solo per raccontare ciò che di utile vi può essere in chiave di racconto di questo periodo di pandemia, sperando di non essere indelicato: sono stato a un funerale. Una persona cara di una persona a me cara. I posti in chiesa, come immaginavo, erano dimezzati, con tanto di bolloni incollati sulle panche, e tendenzialmente le persone hanno cercato di mantenere le distanze prescritte. Ciò, ovviamente, non è stato possibile in determinati momenti della funzione e ancor più al momento dei saluti di conforto, per cui è stato più forte il desiderio di stringersi le mani e ancor più, con alcuni, di abbracciarsi. E per fortuna che è stato così, sarebbe stato disumano non manifestare anche fisicamente la vicinanza e l’affetto. Al termine della funzione abbiamo pensato di stare un po’ insieme e, come penso sia giusto, fare un brindisi per celebrare la persona scomparsa, che apprezzava lo stare insieme e il bere un bicchiere in compagnia. Anche in questo caso non sempre abbiamo osservato tutte le prescrizioni ma, anche qui, direi per fortuna che non è accaduto. E, visto ciò che è accaduto nei mesi scorsi, ci si deve addirittura consolare del fatto che sia stato possibile celebrarlo, il funerale. Molti non ne hanno avuto possibilità.
In serata, rientro in autostrada e ci coglie, noi automobilisti in transito nella bergamasca, un acquazzone potente con grandine – il giorno prima pure e a Desio hanno portato via il ghiaccio con le ruspe – al punto che accostiamo in molti al ciglio della strada, meglio se sotto un cavalcavia. Poco prima di arrivare mi chiama il mio amico di pizza e mi propone, appunto, una pizza. La proposta suona strana perché non la sento da tempo, fa effetto, mi fa piacere e stasera ancor di più, dopo la giornata ho voglia di stare con le persone. Siamo tranquilli, il posto ha i tavoli all’aperto, quindi distanze e precauzioni in osservanza. Poi succede, ovvio, che appena seduti il temporale di prima ci raggiunge e ci tocca sederci dentro. Per cui: a parte la temperatura all’entrata, il gel e i camerieri con le mascherine, dentro è tutto esattamente come al solito. Uguale. Come uguale è il piacere di mangiare insieme, di raccontarsi com’è andata, di assaggiare la prima pizza da febbraio, di provare a vivere normalmente. Se sarà una cazzata, vedremo, godiamoci il momento.

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Ridisegnare Cose

La Reggia di Caserta, voglio dire la direttrice e immagino qualche comitato, decidono di (cito) «reinventarsi a partire da una nuova identità visiva», che in parole povere vuol dire rifare il logo e, a cascata, rivedere un po’ tutta la comunicazione dell’ente che poi si trasformerà in manifesti, borsine, pannelli, gadgets e così via. Ecco il vecchio logo.

In effetti, c’è un certo bisogno di una rinfrescatina, è evidente. Bene quindi l’idea, bene affidarsi (immagino, eh) all’agenzia di comunicazione Sigla di Curtatone, meno bene farlo con affidamento diretto e non con concorso, che è sempre pratica spiacevole e passibile di legittimi dubbi. L’importo? Trentasettemila euro che, per esperienza, non è nemmeno una cifra astronomica per rivedere tutta la corporate identity, a partire da un logo ben fatto e pensato. È invece una spesa troppo sostanziosa se il risultato è tremendo.

Anche nella doppia versione, per sfondo bianco e colorato.

Dice l’agenzia: «Le iniziali di Reggia e Caserta, Re Carlo, Real Casa, “R” e “C”, sono diventate quel simbolo (…) Il logo infatti consiste nelle due iniziali della Reggia di Caserta, “RC”, trascritte con un carattere tipografico fedele agli stilemi vanvitelliani». Uhm, no, stilemi vanvitelliani proprio no. Il problema, al di là della questione meramente estetica, è che – cito qualche commento appropriato – «mi ricorda un caseificio», «rimanda al logo di un hotel a 4 stelle», «mi fa venire in mente Reggio Calabria», «mi sembra il logo di una catena di alberghi», «sembra il marchio di una villa in affitto per matrimoni», «è l’insegna di un residence?» ed è difficile dare loro torto. Scrive anche un certo Luigi Vanvitelli, che sostiene «mi sto rivoltando nella tomba» e gli si può credere. E parte la presa per il culo, refusi compresi.

Ideare e realizzare un logo non è facile, lo so per esperienza diretta, può però essere un’esperienza entusiasmante se raggiunge un risultato appropriato, coerente e lineare rispetto alle premesse. Serve tanto, tanto lavoro, specie a questi livelli. Il risultato del logo della Reggia è poco definito, sembra il frutto di molte scelte non coerenti tra loro, contiene troppi linguaggi diversi che mal si armonizzano e troppe soluzioni approssimative, un po’ accatastate. Per fare un paio di esempi la ‘A’ a delta, di cui non si capisce né il messaggio né la necessità essendovi già la ‘R’ e la ‘C’ elaborate, la ‘E’ sembra di un altro alfabeto grafico rispetto alle ‘G’ e le saldature tra le lettere di Caserta sono un po’ dozzinali, inficiandone la leggibilità, l’armonia, la scioltezza e l’eleganza. L’eleganza, è quella che viene a mancare anche a un occhio non allenato e che da un museo di primissimo piano, ospitato in una reggia di eccezionale eleganza, appunto, porta al caseificio.

Visti i risultati, la direzione del museo ha rimosso il monogramma ‘RC’ dal logo, utilizzando solo la dicitura, e ha bandito un concorso (internazionale, dicono) per la «realizzazione di un segno che dovrà rispecchiare l’identità visiva della Reggia di Caserta a partire, dunque, dal brand “Reggia di Caserta”», si riparte o quasi. Bene, anche se il logo bistrattato qualcuno l’avrà pur approvato. Dei trentasettemila euro non una parola ma non è difficile intuire come sia andata. Speriamo in bene, stavolta.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 87

A ciascuno il suo. A Berlino, travestendola da manifestazione di protesta – in Germania hanno talmente paura che sono tutte autorizzate in nome della libertà di espressione – fanno una megafesta in acqua, nel Landwehrkanal, tremila persone tutte ravvicinate e senza mascherina. Noi non saremo mica da meno. A Roma, travestendola da flash mob e manifestazioni silenziosa, fanno una megafesta in via del Corso, ennemila persone tutte ravvicinate e senza mascherina. Ora, Signore, lo so che ti ignoro per tutto il tempo ma ti chiedo un favore uno solo: manda il contagio a chi sai tu, uno solo. Io poi per riconoscenza mi faccio chierichetto, giuro. Beh, se ne contagi due è un supersballo, ma non oso chiedere tanto. Uno, dai. Uno. Bello forte, non mortale ma bello forte. Il momento del corteo romano che mi dà un brivido caldo è quando cantano tutti insieme «Siam pronti alla morte» e tutto assume per me un sapore particolare. Il corteo è tutto pieno di schifezze, da Salvini alla Meloni a Tajani alla Bernini ai fascisti a gente raccattata dall’universo del disagio a gente che crede alle scie del 5g, quando però il tizio dice: «Se la sinistra era in piazza il 25 aprile, perché noi no?» mi girano per davvero le palle, stronzo maledetto. Noi eravamo a casa e indovina perché. Mi riprendo. Bene, festone a Berlino e a Roma. Differenze? Beh, là è una stronzata fatta da gente per il gusto di trasgredire, qui è una stronzata fatta dagli esponenti dell’opposizione parlamentare. Ma per lo stesso gusto. Differenze? Beh, mmm, là hanno un tracciamento serio e noi no. Come noi no? Abbiamo «Immuni», l’app è tornata e si può installare. Quindi, pari. Beh, se proprio bisogna dirla tutta, «Immuni» funziona solo in quattro regioni, nelle altre è per sport. E che regioni: Liguria, Puglia, Abruzzo e Marche. Come test, poi si vedrà. Nel frattempo, la Sicilia si è fatta la propria, si chiama «Sicilia sicura» (o «Sicilia si cura», a piacimento) e servirà per il tracciamento dei turisti. Giusto, ognun per sé. Facile pronostico di qualche tempo fa (giorno 75): poche installazioni, niente tracciamento. Ma importa farlo, non che funzioni. Lo so, avevo promesso che non mi sarei occupato di stupidaggini della politica ma sono loro che scendono in piazza – peraltro contro la legge, l’ultimo DPCM vieta gli assembramenti o no? – e si ravvicinano incautamente proprio il giorno della Repubblica, invece di festeggiare la cacciata dei Savoia.

Ma come ci dobbiamo nutrire dopo gli eccessi del lockdown? Avete panificato, eh? Vi siete lievitati, eh? Risponde la nutrizionista Manuela Mapelli: «Sì a pasta e gelato ma evitate i cibi invisibili». La manna? Il nettare degli Dei? L’energia solare? Sì, caro, esci, ma attento ai cibi invisibili, specie nei vicoli bui. Signore (e due!) guarda giù. Un casino perché la Grecia ha detto che non ammetterà gli italiani, allora noi siamo andati a piangere all’Unione Europea (toh, quando fa comodo) e loro hanno detto che ci prenderanno negli aeroporti di Atene e Salonicco ma se l’aereo proviene da una delle aree «ad alto rischio» (indovinello? Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto) i passeggeri saranno sottoposti a un test all’arrivo. Io spero sia di cultura generale, la mitologia la so poco, mi confondo. A proposito di mitologia, essa ci insegna che gli eroi piacciono per un po’, se fanno quello che devono e poi si ritirano in buon ordine, ma se restano troppo a lungo poi stufano. E se non capiscono, tocca farli fuori gettandoli nel baratro. E così è ancora oggi: gli eroi, gli angeli, i nostri angeli, i medici e gli infermieri, eroi. Occhei, bravissimi, ma dal Dl Rilancio è sparita la norma per stabilizzare molti medici e infermieri precari. È un avvertimento, andare o al prossimo giro vi facciamo fuori. Oggi in Italia è la festa della Repubblica e nel resto del mondo, istituito da poco, è il «Blackout Tuesday»: in sostegno alle proteste per la morte di George Floyd le foto dei profili e dei post dei social vengono oscurate da un tondo nero o come ognun preferisce. Spotify, per una volta, fa una cosa encomiabile e aggiunge a ogni compilation di oggi una traccia silente lunga 8 minuti e 46 secondi, il tempo che il ginocchio del poliziotto Chauvin è stato sul collo di Floyd. Pochi capiranno ma tanto son sempre pochi a capire, qua. Io niente da segnalare di particolare, giornata all’aperto tentando di ignorare quegli stronzi in corteo a Roma.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 86

E da marzo siamo arrivati a giugno. Alla faccia, se ’sto virus e ’sta pandemia sono un’invenzione, una congiura, come alcuni sostengono (e non sono solo Napoleoni che vagano nei corridori di edifici abbandonati) allora sciapò, davvero ben riuscita. I dati comunicati oggi, che possiamo considerare immaginari se vale la considerazione precedente – e anche secondo molti altri ragionamenti – dicono che i casi in Lombardia di nuovi contagiati sono cinquanta, cifra bassissima che permette alla Liguria, per un giorno, di essere in testa alla speciale classifica. È pur vero, spiegano i tecnici dei test virologici e della gestione della pandemia, non tutti laureati e non tutti specialisti, che è stato fatto un numero molto esiguo di tamponi. Amen, qui l’unico dato oggettivo è l’ingombro negli ospedali e, per il momento, tutto pare andare bene. Segnalo la progressiva comparsa dell’utilizzo del verbo «tamponare» nel senso di effettuare tamponi, qualora ci si riferisca a sé allora accade di «essere o venire tamponati». Senz’altro. Amici medici e infermieri cominciano a essere ricollocati nei reparti di provenienza, con loro giustificato sollievo, ma non per questo avranno un contratto, turni e un comparto-sanità migliore. Almeno questa è l’impressione attuale. In attesa del 3 giugno, ovvero di capire cosa sarà permesso fare e cosa no, hanno riaperto le palestre e le piscine, con difficoltà immaginabili a partire dagli spogliatoi e dalla sanificazione degli attrezzi, in Liguria hanno autorizzato persone non conviventi a dormire nella stessa stanza d’albergo (oddio, dormire, così a naso pare una concessione per altri settori di attività), le Regioni fanno un po’ come gli pare, ognuna per sé o quasi, come per esempio la Lombardia per la quale i test virologici sono per via privata e a pagamento ma si ha il vantaggio di avere i risultati tutti per sé, senza segnalazione automatica al servizio sanitario. Così si decide in autonomia se considerarsi contagioso oppure no. Pago, pretendo. La Lombardia è l’Eldorado dell’autodeterminazione ma senza responsabilità, dato che viene incoraggiata con vigore dall’autorità del momento, sia sindaco o governatore o ras del quartierino.

Ripartono anche alcuni campionati, il calcio su tutti come sempre, e in Ungheria hanno fatto bella mostra di sé i tifosi distanziati sugli spalti ma ancora più bella mostra di sé ha fatto il Liverpool, i cui giocatori si sono inginocchiati nel gesto di sostegno alla causa di George Floyd, ucciso dalla polizia americana. Non a caso, l’inno della squadra è «You’ll never walk alone». Il fatto che il calcio sia indifferente da noi non vuol dire che lo sia dappertutto. Mi ha fatto molto ridere, riso amaro, sapere da Aranzulla – il più grande divulgatore informatico italiano, se non sapete come collegare un pc alla corrente lui ha fatto una guida apposita, meritoria – che le pagine del suo sito più consultate dagli italiani in quarantena sono state quelle relative a come inviare una mail. Benissimo, a posto. Ma come sarà l’eleganza-uomo del dopo lockdown? Perché la domanda si fa sempre più pressante. «Non ama gli sprechi» spiega il direttore creativo di un marchio di moda che non ho mai sentito, «Bastano tre capi per vestirsi bene». Ma pensa, chi l’avrebbe detto, prima? Io finora ce l’ho fatta con sei, ma con un buon allenamento arriverò anch’io a tre. Ma attenzione, avverte: «Dopo la quarantena senza il digital non si va da nessuna parte». Ocio.

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senza respiro

Dati confusi, parziali, addirittura manipolati? Versioni contrastanti, pareri discordi, Fontana che ripete solamente di aver gestito tutto al meglio? Molte cose sono state poco chiare in questi mesi di pandemia, una delle persone che se ne è occupata più da vicino e dall’interno – e chi ascolta Radio popolare lo sa, perché ne ha fatta cronaca quotidiana – è Vittorio Agnoletto, che fin dai giorni di Genova si è sempre distinto per precisione e rigore contro la versione ufficiale del potere. Non avremo chiarezza, la farsa della commissione di inchiesta, affidata a una renziana con i voti della maggioranza, lo dimostra. E allora, come da sempre in questo paese, tocca fare le inchieste da sé. E, pure, finanziarsele.

Nella migliore tradizione, dunque, questo è un crowdfunding, una raccolta di fondi, al momento siamo a poco più della metà, vi invito a partecipare come ho fatto io (avrò il nome nei ringraziamenti, ma non è questo che conta) e a leggerlo e regalarlo poi.

I diritti d’autore del libro “Senza respiro”, tratto dalla ricerca e pubblicato da Altreconomia, saranno versati all’ospedale Sacco di Milano, struttura pubblica che ha svolto un ruolo fondamentale durante la fase più critica dell’epidemia.