Nel triennio dal 1989 al 1992 chi al tempo viveva in Europa fu proiettato improvvisamente in un futuro apparentemente radioso ancorché illeggibile, fatto di pace e di unione, in cui cadevano teste e muri e partiti e tutto il vecchiume veniva spazzato via, quale gioia più grande per un giovane progressista irruento come me? Se nell’estate del 1989 non traemmo alcuna conclusione utile dal picnic paneuropeo, in settembre qualcosina sui confini ungheresi lo notammo ma a novembre il crollo del muro lo cogliemmo eccome, tutta quella gente contenta che affluiva dai varchi e saltava sul muro con i picconi era lì da vedere. Il difficile era capire perché. E poco dopo cadde Ceausescu, giustiziato con la moglie, e poco prima in Polonia avevano votato liberamente e vinto Solidarność, l’Armata Rossa era in ritirata da tutti i paesi satellite. E per le mie giovanili e ingiustificate simpatie filosovietiche non era necessariamente una buona notizia, mentre Honecker si dimetteva poco dopo aver detto che il muro sarebbe durato per almeno un secolo. Certo. Anche il mondo andava bene, in Cile dopo sedici anni si votava per la prima volta liberamente, certo a Tienanmen era successo un disastro ma la Cina era lontana e schiacciata da un potere millenario, per noi, e l’estate del 1990 aveva in serbo l’invasione del Kuwait e la prima – allora non lo sapevamo lo fosse – guerra del Golfo. Ma in Europa si volava. Si parlava sempre più di Europa unita, allora la chiamavamo CEE, o Comunità Europea, e avremmo tutti con certezza parlato tedesco, visto che oltre all’economia vincevano pure il mondiale. Le Germanie diventavano una, anzi una si scioglieva nell’altra ma da qui non era chiaro, sembrava tutto lineare e facile, le barriere crollavano. Persino Mandela, quello dei decenni in carcere, diventava presidente dello stato dei bianchi armati, tutto merito dei megaconcerti che facevano accadere le cose. Noi, qui in Europa, firmavamo accordi a Schengen per cui si poteva circolare liberamente, inimmaginabile poco prima, anche la Bulgaria, stato proverbiale, si liberava per poi votare di nuovo alla loro maniera, persino la Thatcher se ne andava e a Palermo finalmente si condannava la mafia a secoli di carcere, la Lituania iniziava la lotta per l’indipendenza. Travolgente, pareva un’onda inarrestabile, le carte urtavano le vicine e facevano crollare tutto. Poi anche la Georgia indipendente, che mah fino a poco prima sembrava stare negli Stati Uniti, e da giugno pure alcune parti della Jugoslavia, e lì per lì pareva una cosa buona e non intuimmo nemmeno lontanamente il baratro, e il patto di Varsavia veniva sciolto e tutto pareva a favore del mondo occidentale consumista e la mia ostalgie non mi permetteva di essere serenamente felice.
In quell’agosto del 1991 i miei genitori che non erano persone da saltare sul muro con il piccone al momento ma che certe cose le volevano poi andare a vedere, decisero di andare nell’ex Germania est e – fortunatamente per me – di portarmi con loro: Dresda, Chemnitz, Lipsia, Wittenberg e poi Berlino, col camper – un occidentale Westfalia ma almeno indigeno – lanciato anch’esso a missile seguendo il flusso. Un’onda travolgente di soldi spazzava tutto via da ovest e la Germania est era tutta in vendita sulle bancarelle, tra pezzi di intonaco meglio se colorati, maschere antigas, uniformi, elmetti e qualsiasi cosa sapesse di passato, le banche aprivano in ogni vetrina ceduta da un fruttivendolo senza frutta e i manifesti invitavano a guadagnare, che era il momento. I bagni nei campeggi sembravano quelli di Ostia antica, con le sedute una a fianco dell’altra senza separazioni, mentre il futuro si comprava il passato. O, meglio, lo occupava, come si faceva con gli appartamenti lasciati liberi senza un catasto certo. Il responsabile del processo di integrazione lavorativa tra DDR e RDT sarebbe finito ammazzato per strada poco tempo dopo, cose che non si vedevano dai tempi della Rote Armee Fraktion, le banche cambiavano due a uno i marchi, indovinare in favore di chi, anzi a essere precisi i marchi orientali erano già andati bell’e che fuori corso. Alla faccia di chi li aveva sotto il materasso. Siccome abbiamo sperimentato anche noi un cambio di valuta, per fare un paragone si rifletta che da noi è durato dieci anni, il marco tedesco orientale può ancora essere convertito in euro senza limiti di tempo, allora si aveva fretta.

Alle trabant si affiancarono le Porsche, le due velocità erano di palese evidenza, chissà quanta gente la trabant l’aveva già ordinata e pagata da tempo e ancora la stava aspettando, alla caduta del muro, e non l’avrebbe vista mai. Gli scaffali dei negozi erano già cambiati del tutto, i pisellini Globus non esistevano più, i cetriolini dello Spreewald nemmeno, l’ovest era tracimato nell’est con la forza di una diga che crolla. Gli ammorbidenti, la lacca, i gelati mille gusti, gli yuppies, i mascelloni strafottenti vincevano su tutte le scale possibili, guadagnate, guadagnate.

Ora è un buon momento, trentacinque anni dopo, per andare a vedere che aria tira. Ricorda, trivigante, ricorda che qui AfD, i nuovi filonazisti, trionfa ovunque. Ricordatelo, trivigante, anche se avranno le buone birrette, un modo di convivere civile e sorridente, luoghi sociali, aperti e accoglienti, cultura mostrata e disponibile, allegre feste di piazza. E così è, infatti. Ma questa cosa di AfD bisogna leggerla, in qualche modo. Vediamo.
A Lipsia è tutto come dev’essere: i segni evidenti di un passato ricco e promettente – tanto Dresda era cortese, nel senso della corte del principe elettore di Sassonia, tanto Lipsia era mercantile e attraeva gente da tutta Europa -, esploso sul finire del diciannovesimo secolo e nei primi dieci, imploso dopo la prima guerra mondiale, riesploso nei Venti per collassare definitivamente alla fine del nazismo e della guerra, reinterpretato in chiave socialista per quarantacinque anni, là dove alla mancanza di libertà si accompagnava però la certezza di casa, lavoro e cibo sebbene con poca varietà, per poi alla caduta del muro affondare in una crisi economico-produttiva colossale dalla quale parrebbe essere in ripresa solo nel nuovo secolo. A oggi è ancora la città meno costosa della Germania, caratteristica attrattiva per enormi imprese e più piccoli cittadini in cerca di lavoro e casa e prospettive.

Il maquillage architettonico del centro, come in tutta l’Unione Europea dell’est, dalla Bulgaria alla Polonia all’Estonia alla Romania, è imponente e ovunque si può si ristrutturano edifici e palazzi nelle forme più accattivanti tra Settecento e art nouveau degli anni Venti, creando un ibrido falso-storico che tanto rassicura i turisti ma che un po’ viene a noia. Il centro storico di Varsavia assomiglia oggi più a Dresda di quanto fosse un tempo, per restare a due esempi di città con destino simile, rase al suolo ottant’anni fa. Qui che due problemi in più che in Polonia in questo se li fanno, restano un po’ di smozzichi e vuoti urbanistici qua e là. Basta però uscire dal centro e il socialismo casermonico è lì da vedere, ridipinto a dovere, oggi offre però case migliori di quelle costruite a occidente della speculazione condominiale degli anni Settanta e Ottanta. Restano comunque consuetudini dell’est socialista, serve un occhio allenato, per esempio le biglietterie dei musei fanno ancora oggi da bar, due fettine di torta luisona e una macchinetta a cialde ci sono sempre. Come certe biglietterie dei treni che resistono. Le strutture grosse ci mettono di più a sparire, quindi certi complessi modernisti, bellissimi peraltro, o certi palazzi della cultura di stampo sovietico, stessa cosa, permangono, spesso un po’ disarticolati dal contesto.
Per come la ricordavo io, scura e cupa, oggi Lipsia è anzi luminosa e verde. Sarà che allora magari fu una giornata di acquazzoni d’agosto – dopo ferragosto si rompeva l’estate, dicevano i vecchi – oppure il me meno che ventenne trasformava la mancanza di prodotti sugli scaffali e di negozi in mancanza di colore. Entrambe, chissà. Come allora, ed è un po’ anche per questo che sono tornato, la chiesa evangelica di san Tommaso ospita la tomba di Bach, che fu maestro di cappella a lungo qui, e il coro della Gewandhaus, che si esibisce quasi quotidianamente da metà Settecento. Mendelssohn e Furtwängler, per dirne due direttori. Ed è così che la ricordo allora, solenne, tutti seduti composti a sentire gli esercizi del coro che riempivano la chiesa fino alle volte, così come la rivedo e la risento ora. La sensazione è la medesima, una certa commozione in grado di proiettare il momento attuale indietro nel tempo. Anche Mozart suonò qui, in caso non bastasse, e si racconta che ascoltata l’esecuzione del mottetto Singet dem Herrn ein neues Lied BWV 225, esclamò: “Qui c’è qualcosa da cui possiamo imparare!” e si mise a studiarne gli spartiti. Io non so se imparai qualcosa allora ma una volta uscito comprai su una bancarella un disco dei Moody blues che aveva una copertina congrua col momento, secondo me, e ancora lo ascolto.

Prima di una bella zuppa di patate sassone e un qualche brasato alla birra che mi farà sognare Satana, visito il Museum der bildenden Künste, un enorme cubo di cemento nel centro della città che, lo so che così non sembrerebbe, è bellissimo. E dentro ancor meglio, i sotrocubi in cui sono divise le sezioni creano un gioco di spazi notevole, a dimensione così enorme. Vedo uno degli Hals che preferisco, parecchie cose buone, e poi nell’Ottocento, che è dove i germanici vanno fortissimo, il più clamoroso crossover nella storia dell’arte e forse anche nella teologia: Cristo sull’Olimpo di Klinger. Uno smambrone lungo otto o dodici metri, non so, per altrettanti, misto a bronzo e marmo e oro e cose che dir non so, nel quale un Cristo fichissimo e chiaramente trionfante guarda con disprezzo uno Zeus con i suoi fulminetti e tutti gli dii idioti attorno che percepiscono la grandezza della figura che hanno davanti, sconfitti senza riscatto. Il campo di riferimento della rappresentazione è quello della teologia della Marvel, ovvero quello del mio-dio-è-più-forte-del-tuo, il messaggio è posato e denso di contenuto quanto un proclama dell’Isis, adesso mio padre dà un pugno al tuo che lo manda sulla luna. Una boiata considerevole che ha, però, un posto d’onore qua nel bel museo. Va’ a capire. Tra tanti altri belli, ce n’è uno che rappresenta il popolo che dona oro e beni a un funzionario in nome di non so quale causa e che, come fu, non poteva che suscitare gli entusiasmi di Hitler. A me suscita solo un’enorme tristezza, già alimentata dal Gesù olimpico. Essa, la tristezza, aumenta ancor di più alla vista della statua di Beethoven in cui un’aquila guarda riverente ai suoi piedi di titano, altra boiata somma del sempre lui Klinger, anche scultore, bravo. Romanticismo al cubo, deleterio quando si deve essere i più impetuosi di tutti. Mi riprendo abbastanza alla vista della morte che piscia in un fiume di Böcklin, ed è uno scheletro, e del tutto di fronte agli splendidi Cranach lipsiani, Lutero compreso. E ora la zuppa di patate e la bistecca del contadino sassone, che sono andato lungo.