Atterriamo all’aeroporto di Bucarest Băneasa Aurel Vlaicu, scelto apposta rispetto a quello grande perché sovietico nelle forme, coerente con il viaggio e vetusto nel tempo, secondo o terzo aeroporto ancora in uso più vecchio del mondo. Magnifico. Magnifico e piccolo, perfetto.

La Bucarest di oggi, rispetto a quella che ricordo nel 2003, è una città simile, schiacciata da cinquant’anni di dittatura insensata, il cui centro fu raso al suolo per farne un immenso viale trionfale che portasse al palazzo del parlamento, delirio finale di un regime ormai tumescente. A differenza di allora, la città è però piena di merci, di negozi che vendono merci, di ristoranti e bar che propongono merci, di grandi magazzini. Allora, e già era meglio di quindici anni prima, c’era poco e niente, molto grigio e palazzoni scoordinati. La devastazione ceauseschiana ebbe il suo fulcro negli anni Ottanta, con la costruzione del mastodonte palazzo, secondo o primo al mondo per volume, primo sicuro per pesantezza, e delle quinte scenografiche del vialone che a esso porta, tutti palazzi bianchi a sei o sette piani che fanno da cornice per alcuni chilometri. Scenografie perché il retro è piatto, non decorato. Le facciate, invece, essendo della fase tarda del regime e l’architettura locale contaminata da quegli anni, sono un misto tra un’esposizione di mobili a Dalmine, elementi neobabilonesi un po’ a casaccio, certe radio tonde e colorate della Philips di quegli anni, decorazioni da architetto lissonese che non ce l’ha fatta.

Un po’ Teheran, un po’ Dušanbe, un po’ Corviale. Si dice siano state abbattute trentottomila abitazioni per realizzare questa esuberanza di potere statale, peraltro decadente perché alla fine, Ceausescu e moglie sarebbero stati fucilati pochi anni dopo. La moglie Elena a proposito: la vera iena della coppia, ed è tutto dire, quarta elementare debolmente portata a casa, si fregiava di essere una testa fina appassionata di scienza al punto da costringere, dalla sua posizione, scienziati e ricercatori a pubblicare i propri studi a nome di lei che, così, incassava deferenti lauree ad honorem e titoli accademici, tutti prontamente ritirati cinque minuti dopo la fucilazione.
Alcuni cortili di palazzi enormi hanno ancora i segni degli spari all’interno. Sempre meno, perché il furore cementizio è ovunque e anche qui hanno ben compreso che per avere il turismo qualificato serve una città romantica che ha salvato il passato e insieme moderna contemporanea che trasudi aziende dinamiche. Al momento, il grosso del turismo sono ragazzotti europei che hanno già visto Amsterdam e che qui sognano grandi bevute e grandi conquiste. Avranno grandi conti da pagare.

Nella sala da concerti più bella della città, sovietica e attraente, sono esposti i manifesti degli spettacoli da qui a natale. Il nostro occhio locale ne coglie al volo due: dopodomani Al Bano e il 17 novembre i Ricchi e poveri. Ci sarebbe da fermarsi. Il bacino cantautorale è enorme, dal Kazakistan a Mosca a qui, avevo visto loro foto nell’albergo di Tashkent e manifesti ovunque, a Riga c’è un ristorante di Al Bano o che, comunque, ne propone i vini. Mancherebbe Pupo, mi chiedo che faccia, a questo punto.
Dopo tre magnifiche polpette di prugne ricoperte di crumble e cannella, scaldate e lasciate nella panna acida – R. mi spiega che esistono identiche a Trieste, gnocchi di prugne -, ottima merenda, ci avviciniamo allo scopo della nostra presenza qui, la Gara de Nord, la stazione da cui alle sette e dieci partirà il lanciatissimo per Kyiv, Kiev come abbiamo detto finora alla russa e come dovremmo smettere di dire. Via Chişinău, che è dove ci fermeremo.

Questo è il fulcro del viaggio, il senso, sono e siamo abbastanza emozionati, c’è un treno da prendere, la freccia dei Carpazi che parte da qualche binario qui davanti. È ora.


















