misteri dell’arte: rettangoli, colori e mucche

Anche Mondrian dipinse mucche.

Scivolando, pian piano e giustamente, verso l’astratto.
Il Mondrian successivo, poi, quello che conosciamo tutti, ha trovato uno strano connubio, incolpevole perché postumo, tra i riquadri colorati e le vacche, va’ a sapere perché. Per esempio, la “Moondrian Cow” – ahah, ottimo nome – di Jon Eastman:

Replicata poi variamente anche a grandezza naturale, da pascolo:

Se è vero che all’interno del movimento De Stijl qualcun altro si occupò di vacche, come per esempio Theo van Doesburg in Study for Composition (The Cow) del 1917, il mistero resta tale.

Infatti, il connubio tra i rettangoli colorati di Mondrian e le mucche resta forte ed esplorato. Per esempio, ad Amsterdam un paio d’anni fa sono incappato in un artista che ai Mondrian sovrapponeva mucche, rimandando ad altro, Vermeer nel terzo da sinistra, per dire.

È vero, c’è anche un cavallo. Il mistero resta insoluto, le mucche di Mondrian hanno più di un secolo e l’arte del Novecento andrebbe riscritta alla luce di questo fatto che ho qui evidenziato. Attendo inviti a conferenze.
Ah, a margine: il palazzo di Booking dietro, in fondo alla piazza, l’hanno acquistato con i miei soldi che spendo per risolvere misteri dell’arte.

figurati la fissazione identitaria dei serenissimi

Uno studio non so quanto affidabile sostiene che il leone alato su una delle due colonne di piazza San Marco possa essere della dinastia Tang e, quindi, provenire dalla Cina.

La vicenda delle due colonne, che dovevano essere tre ma una naufragò, è nota: l’erezione delle due colonne risalirebbe alla seconda metà del XIII secolo, perché considerando i marmi di cui sono composte (marmo rosso egiziano per la colonna di San Todaro e marmo troadense per la colonna di San Marco), ampiamente utilizzati nella tarda antichità, è quasi certa la loro provenienza da Costantinopoli, visto che dopo l’impero romano nessuno ebbe la capacità tecnica ed economica per reperire colonne di quella mole e qualità. Se è quindi abbastanza certo fare risalire lo spostamento e l’erezione a Venezia al periodo dell’Impero latino di Costantinopoli, tra il 1204 e il 1261, la vicenda delle statue è meno nota.
Il leone alato è una scultura bronzea molto antica, si ritiene greca o siriaca, probabilmente in origine una chimera, cui vennero successivamente aggiunte le ali per chissà quali vie traverse. In effetti è ricciolone mica poco, ricorda il medio oriente. Almeno fino allo studio di oggi, che ne afferma l’origine cinese, sia per morfologia stilistica che per presunti studi sugli isotopi del piombo contenuto nel bronzo. Niente di più probabile, comunque, visti i traffici veneziani con l’oriente, magari è venuta a cavallo con Marco Polo. O volando, viste le ali. Ancor più probabile oggi che il leone di Venezia sia ‘made in China’, non fa una piega.

ancora Strinati o della mancanza degli editor

Vabbè, senza malvolenza ma mi è capitato lui, oltre all’appunto di ieri su la Breve storia dell’arte di Claudio Strinati, un paio di scivoloni dovuti veramente all’assenza di una qualche revisione pre-pubblicazione, quanto mancano gli editor nelle case editrici. Sono entrambi veniali ma, insomma, l’editore è Salani, non proprio uno da sottoscala:

“l’imperatore del Sacro Romano Impero, re dei Romani e di Gerusalemme e re di Sicilia, Federico II di Svevia Hohenstaufen, nipote di Federico Barbarossa e figlio di Costanza d’Altavilla.
Nato nel 1194 e morto nel 1251 in Italia, Federico è stato il più cosmopolita, laico, progressista, illuminato sovrano dell’Europa del tempo”.

D’accordo su tutto, per carità, ogni parola buona su Federico II è ben spesa, ma era il 1250.

“Le figure di San Clemente o dell’Arazzo di Bayeux sono concettualmente molto più vicine ai Peanuts (opere del X secolo) che al Caravaggio (autore del XVII secolo)!”.

Questa è dura, se fosse solo un refuso, mancando una X, l’ordine dell’elenco dovrebbe essere invertito: invece i Peanuts nel decimo secolo è proprio un errore, marcato ancor di più dall’essere in una frase dal tono scherzoso.
Ho l’impressione ce ne fossero di più ma già tre refusoni come questi per un testo solo sono parecchio. Peccato, perché il racconto è gradevole e istruito, ovviamente, e questo tipo di errori sono in grado di rovinare il piacere. Editor, editor, editor. E correttori di bozze, non è vero risparmio, matti.

un appunto sulla Nuova Roma

Qualche settimana fa leggevo la Breve storia dell’arte di Claudio Strinati e a un certo punto non ero tanto sicuro ma mi pareva proprio che insomma non:

“nella direzione della cosiddetta arte bizantina, che nasce quando, seicento anni dalla morte di Alessandro Magno, l’imperatore Costantino volle lasciare Roma come sede della capitale dell’Impero e trasferire tale sede in una città sul Bosforo (nell’attuale Turchia) che fece appositamente costruire, cui dette il suo nome: Costantinopoli”.

Sull’“appositamente costruire” alcuni avrebbero da ridire, diciamo che fu più correttamente rifondata, questo sì, se con questo concetto si vuol dire una ricostruzione con una nuova direzione architettonica e ideale. Ma lo svarione vero stava per arrivare alla riga dopo (ah, la mancanza degli editor nelle case editrici…):

“Poi, secoli dopo, quella città avrebbe mutato nome in Bisanzio e da Bisanzio si sarebbe sviluppato un immenso filone d’arte che verrà sempre ricordato come arte bizantina e che si sarebbe espanso tra la Grecia e l’area corrispondente alla Bulgaria, Romania, fino all’Armenia e alla Georgia”.

Eh no, Strinati, eh no. Lo so che da storico dell’arte i bizantini vengono dopo i romani ma il nome Bisanzio è greco e la città pure, Βυζάντιον, Byzàntion, che preesiste e non di poco a Costantinopoli. Sarebbe permasto (forte, eh, il participio passato!) l’aggettivo ‘bizantino’, seppur mai utilizzato dai contemporanei.
A discolpa di Strinati, e ci mancherebbe, c’è che il nome di quella città là che noi chiamiamo Istanbul per ragioni di impero ottomano apre una delle questioni toponomastiche più difficili, per varietà e quantità. Ne accenno alcuni, e non sono mica tutti:

  • Bisanzio o Byzantion (greco) o Byzantium (latino);
  • Nuova Roma o Néa Rṓmē (greco) o Nova Roma (latino) o Rūmiyya al-Kubrā (arabo);
  • Costantinopoli o Konstantinoupolis (greco) Constantinopolis (latino) Gostandnubolis (armeno) o Kostantîniyye (turco ottomano) o Qostantiniyye (arabo);
  • La città o Polis (greco) o Istanbul (turco) o Stambul;
  • Città dell’Islam o Islambol (turco ottomano);
  • Città di Michele o Michaelgrad (slavo);
  • Città dei Cesari o Zarigrad riferendosi alla figura del Basileus (slavo);
  • Miklagard o Мikligarð cioè Città Fortificata o Grande Recinto (lingue norrene / variago).

Complesso e sono davvero molti di più. Però il punto fermo della successione Bisanzio > Costantinopoli > Istanbul la teniamo, va bene? Altrimenti come potremmo, bestemmiando in Alamanno e in Goto, cantare Bisanzio forse non è mai esistita / e ancora ignoro e un’ altra notte è andata, / Lucifero è già sorto, e si alza un po’ di vento, / c’è freddo sulla torre o è l’età mia malata, / confondo vita e morte e non so chi è passata…?

loghi: un restyling riuscito, London Symphony Orchestra

Fino agli anni Novanta, a parte il solito eccesso degli Ottanta, svarioni, il logo della London Symphony Orchestra, per gli amici e per me da adesso LSO, è sempre stato molto istituzionale e formale, con allori e a volte cupolette, l’ultimo addirittura imperiale romano:

Poi nel 2004 si sono risolti per un restyling della corporate identity, a partire dal logo, e si sono rivolti, felicemente, all’agenzia The Partners (oggi Superunion), un colosso, che ha proposto questo logo:

Bellissimo, perché è insieme la scritta ‘LSO’ e il direttore d’orchestra con la bacchetta nella destra e con la sinistra che conduce. Visto? Insieme un font moderno e netto ed è fatta.

Come dice, lei là in fondo? Serve davvero la spiegazione? Vabbuò, capisco che non funzioni per tutti allo stesso modo, eccola chiara:

Magnifico, vent’anni e resiste ancora impavido, peraltro dando sì l’impressione di serietà e accuratezza dell’istituzione ma insieme le tondità suggeriscono un atteggiamento meno serioso e un po’ più contemporaneo.
La revisione grafica è però andata oltre e il ragionamento ha coinvolto i caratteri tipografici e le scritte stesse: la soluzione delle lettere attraversate dallo sbuffo della bacchetta del direttore a me paiono meno convincenti, per quanto il messaggio sia chiaro e abbia una sua consistenza e senso.

Insieme ai quattro sfondi proposti, anch’essi belli ma più da sfondo da smartphone che per manifesti musicali – io sono sempre per soluzioni o uniche o variate di volta in volta contesto per contesto -, le locandine vengono così (il discorso è ben più complesso e strutturato, non me ne vogliano, qui è chiaro):

Anch’esse meno convincenti, a parer mio. Resta il logo che, anche in cima al manifesto fa un’ottima figura per semplicità e chiarezza, è il frutto di un lavoro davvero ben fatto. Da insegnare a scuola.

i giocondi visti di fronte (ancora)

Un paio di anni fa ho scritto qualcosa sull’argomento, riflettendo giocosamente su come si accalchi un’enorme folla per la Gioconda e volti allo stesso tempo le spalle alle Nozze di Cana di Veronese, un enorme quadro pregevolissimo. Come il primo sia piccolino e legittimamente in Francia, ma se ne richieda la restituzione ai francesi come l’avessero rubato, e come il secondo, questo sì rubato e illegittimamente là, invece sia sostanzialmente ignorato. Come il primo sia un magnifico quadro ma, insomma, d’occasione e senza spunti storici particolari e come il secondo abbia invece una storia poderosa e un’origine strepitosa, concepito apposta dall’artista per il refettorio palladiano di San Giorgio Maggiore a Venezia, in connubio spalla a spalla tra i due.

Non ho granché di nuovo da aggiungere ma ho un paio di foto migliori, ora (di bulfu): la vista lato-Gioconda, con fotografie che per carità lo zoom degli attuali smartphones ma siamo al limite del particolare, con calca paragonabile alla Fontana di Trevi.

E, molto più interessante, l’altro lato, direzione Veronese, con i volti dei giocondi, peraltro in buona parte sorridenti. L’immagine, lo notavo l’altra volta, è ancor più bella perché le persone paiono uscire direttamente dalle Nozze e rovesciarsi verso l’osservatore.

Sul fondo, mi pare ci sia uno girato verso Veronese, se colgo correttamente la chierica. Complimenti, signore.

laccanzone del giorno: Elastica, ‘Connection’

Questa canzone fu il singolo di punta di un album di debutto e venne sparata immediatamente alla numero uno della classifica inglese delle vendite, battendo un certo record degli Oasis. La band aveva ascendenze nobili, Frischmann e Welch avevano partecipato alla fondazione degli Suede, poi lasciati nel 1991, ed ebbe qualche anno formidabile come i loro pezzi: rapidi, sintetici, scarni.
L’album lo ascolto ancora oggi, magari senza consumarlo come allora, ma il rapimento emotivo per Frischmann perdura. Coetanei, stesso brodo di coltura. Il video ufficiale di ‘Connection’ faceva e fa veramente schifo ma quello è, roba da casa discografica.

Certo, poi c’era la faccenda che il riff era proprio quello di ‘Three Girl Rhumba’ dei Wire, abbassato appena appena, e che avrebbero dovuto menzionare la faccenda nei crediti, vabbè, ma noi siamo punk e giovani e ce ne impippiamo, era un omaggio e se lo sai lo sai. Poi, com’era ovvio, ci misero una vita a fare il secondo album, in cui la canzone più rilevante fu la cover di ‘Da da da’, poi litigarono per il terzo e bon, storia finita, lei a fare l’artista visuale in Colorado. Ma il primo album, quello omonimo, favoloso: avrei potuto mettere ‘Vaseline’, esemplificativa anche dello spirito, quando sei attaccato con la colla, vaselina, un minuto e venti, o ‘Stutter’ o ‘Car song’ o ‘Line up’, ma vabbè, meglio il singolone.

La comoda pleilista de leccanzoni del giorno esiste ancora e adesso è su Tidal, che son passato di là per le note vicende, Trostfar ne era stato l’ispiratore, grazie, ora l’aggiorno e sta qui, per chi desideri.