minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 97

Beh, se alla fine di marzo, il periodo più critico del lockdown sia per me che, a occhio, per molti, visto che i contagi non rallentavano e non si capiva se avremmo avuto a che fare con mesi di reclusione o con l’esercito per strada, mi avessero detto che a giugno saremmo stati messi come siamo messi oggi, avrei chiesto dove firmare. Sgombero il campo dai fraintendimenti, non è né normalità né una vita auspicabile in condizioni normali ma lo è date le premesse, tragiche, irrazionali, casuali che si sono viste nei mesi scorsi. Resta l’incognita, su tutto, del fatto che ancora non sappiamo come andrà nei prossimi tempi, ma ora va bene: i dati dicono che il contagio rallenta, anche se non in maniera omogenea, i fatti dicono che gli ospedali e le terapie intensive sono sgombre, il dito di san Tommaso dice che possiamo fare molte delle cose che la pandemia ci aveva proibito, seppur in maniera condizionata. Dunque, non male, cincin. E questo per quanto riguarda il contesto generale e i piccoli aspetti della vita di ciascuno, poi c’è il là fuori, quell’indistinto mondo in cui accadono cose di cui abbiamo sentore e che leggiamo qua e là, facendo fatica a capirne la consistenza reale. Ecco, lì adesso comincia a essere il tempo di alcune rese dei conti. È innegabile che negli ultimi mesi in molte situazioni si sia agito ai limiti della legalità, a volte ben oltre, a volte in maniera necessaria a causa dell’emergenza, a volte meno, a volte per nulla. Se la politica sta già facendo i propri conti, la testa di Gallera è già sul piatto, cambi ai vertici della Regione, le variabili della maggioranza lombarda si sono già mosse, Conte convocato dai PM, adesso anche ciò che è accaduto a livello individuale in molti casi richiede una spiegazione: i molti che non sono stati portati in ospedale, i molti che sono usciti in ambulanza e sono tornati in un’urna, i molti che non hanno ricevuto aiuto o ne hanno ricevuto poco, i molti che sono stati lasciati soli – anche medici di base e operatori sanitari, sia chiaro – adesso chiedono chiarimenti e indagini, se ciò che è avvenuto fosse legittimo. Come sempre, c’è chi si prepara a sguazzarci, inevitabile nei grandi numeri, ma capire, a fondo se possibile, è necessario, a costo di lasciare spazi per le iene e gli avvocati delle iene. Ne cito uno solo: un imprenditore veronese residente a Brescia ha presentato ieri un esposto-denuncia nelle Procure di Brescia, Bergamo, Napoli, Torino, Venezia, Bolzano e Milano (Tunisi, Tel Aviv e Bangkok no?) sostenendo di aver perso circa tre milioni a causa del lockdown e che le condizioni di emergenza sanitaria fossero note fin dal 31 gennaio. «Dal giorno successivo avrebbero dovuto essere presi ed adottati tutti quegli interventi precauzionali immediati e diretti a tutela della libertà ed interessi personali della popolazione italiana con riguardo anche a tutte le attività di qualsivoglia genere, natura e qualità», scrive l’imprenditore. Cosa vuole, signore? Faccia il bravo, su. Già le procure erano intasate prima, figurarsi.

In questi giorni capita di parlare, finalmente, con persone che sono state ricoverate per covid-19. Dai casi più semplici, diciamo, che sono finiti in reparti normali o quasi, qualcuno in qualche sgabuzzino, uno addirittura in mensa, causa mancanza di spazio, e che la sono sfangata con terapie farmacologiche e tanta tanta pazienza, raccontando di grandi dolori e di fame d’aria, ai casi più sconvolgenti, quelli che sono finiti dritti in terapia intensiva, con i respiratori tolti a qualcun altro. Si vede che non raccontano tutto, spesso non trattengono le lacrime, hanno visto cose che nessuno dovrebbe mai vedere e che popolano le loro notti senza sonno. Per tutti loro c’è un prima e un dopo covid-19, la vita non sarà più la stessa: sia perché ora vivranno in modo diverso – molti di loro, raccontano, si sono dimessi, fanno scelte di vita differenti che prima non avevano il coraggio di fare – sia perché i danni, fisici e psicologici, della malattia li segneranno a vita. Sono vicende che, più passerà il tempo, più diventeranno singolari e personali, purtroppo. Chi non ha vissuto questo periodo in Lombardia non se ne può rendere conto, e nella stessa regione non tutte le zone hanno vissuto il dramma in maniera uniforme, a Bergamo e Brescia è stato molto diverso rispetto a, che so?, Como o Varese o la stessa Milano, per fortuna loro. E si vede, gli atteggiamenti sono proprio diversi. Noi sobbalziamo ancora a ogni sirena d’ambulanza, giorni e giorni a sentirne una via l’altra, e anche questo passerà, ma è quasi tutto, diverso è il caso di chi ci è finito dentro dritto, testa e piedi, o chi ha avuto familiari stretti e amici coinvolti. Qui conosciamo tutti diverse persone che, porelle, ci hanno lasciato le penne in questo disastro ma son per la maggior parte conoscenti, la distanza c’è. Abbiamo vissuto tutti storie diverse, con gradazioni infinite, anche per questo gli «andrà tutto bene» e i «saremo tutti migliori» sono solenni cazzate, non resterà un ricordo condiviso, resterà un’immagine che è il risultato di una media involontaria tra i ricordi di tutti e siccome, per fortuna, la maggior parte delle persone ha vissuto la pandemia solo come reclusione in casa e poco più, quello resterà. Ed è per quello – faccio psicologia da minimarket – e non per insensataggine, che molti si comportano con frivolezza, ora, come se nulla fosse stato. Non lo sanno.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 97

  1. Anche no

    Si avvicina il tempo in cui questo covidiario volgerà al termine, convenzionalmente con la riapertura delle frontiere nazionali, ma questo non significa che l’emergenza sia davvero finita. Se restassimo alla Lombardia, di questo passo il discorso potrebbe andare avanti filato fino all’autunno e poi chissà che non si debba riprendere a scrivere anche più in generale della cosa. In fondo, in altre zone del Pianeta il problema è ben lungi dall’essere archiviato e non si vede come la nostra voglia di normalità, di calcio e di vacanze possa o debba influire anche sulla realtà virologica ed epidemiologica, tuttora imperscrutabile anche per i più esperti. O forse finirà invece con l’autunno che arriva, trascorre nell’attesa della grande ondata di ritorno e poi a Natale ci ritroveremo tutti insieme col cotechino, lenticchie e panettone a fare cin cin come una volta guardandoci negli occhi senza mascherina. Chi lo sa, a questo punto non so davvero cosa pensare.
    Resta, come sempre del resto, il potere trascinante della maggioranza, che oggi ha deciso di tornare verso un modello di maggiore normalità, a volte con effettiva prudenza, altre volte con assoluta spavalderia, altre ancora con una forma di pensiero dove prognosi e desiderio si mescolano in una strana ideologia del qui e ora: i dati (i pareri, i trend) che mi piacciono, li incamero, quelli che non mi piacciono li ignoro o li scredito. Non è propriamente scientifico ma funziona. Parlando con mia mamma, oggi, sono stato sollecitato per l’ennesima volta a organizzarci per una cena insieme. La si farà: presto, all’aperto e volentieri. Quello che mi colpisce (non posso dire che mi stupisca) il corredo di argomenti: “io con le mie amiche già mi vedo a cena senza mascherina” (sotteso: se lo fanno quelle che sono “solo” mie amiche, come fai tu a negarti che sei mio figlio?); “quando siamo stati a prendere un aperitivo al bar [volevo stare fuori, non c’era posto; siamo stati dentro con una grande finestra aperta] però la mascherina non la portavi” (sotteso: se te la sei tolta una volta per ingerire liquidi allora che aspetti a disfartene) ma la mia preferita è senz’altro “se aspetti che siano quelli del governo a dirti che puoi cenare con la tua mamma…” (qui il sotteso proprio non c’è). Dicevo, mi colpisce il corredo di argomenti. Sì, perché al di là della chiara mozione degli affetti si tratta di un elenco di motivi che possono benissimo (anzi, meglio) fungere per sostenere la tesi opposta a quella che porterebbe a un felice e presto ritorno al convivio.
    Ripensando a quel che si diceva all’inizio di questa esperienza, vale a dire di quanto e di come eventualmente il covid ci avrebbe costretto a cambiare modo di pensare, a partire dal rapporto coi fatti e con la scienza come loro criterio interpretativo, sono portato a concludere che, se cambiamento v’è stato, è durato quanto le sirene delle ambulanze. La cosa per me più difficile è ammettere a me stesso che nella bancarotta del ragionamento finiscono anche tante persone a me vicine, cui voglio (e continuo a voler) bene, ma che non posso fare a meno di sentire più estranee. Forse il trucco è pensare meno, meglio ancora per niente: vivi e lascia vivere (o anche no).

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