minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 47

Mi alzo e, in quel momento in cui ricordo a malapena il mio nome e so fare solo un caffè, mi chiedo che cosa farò oggi. Dura un istante, un attimo, poi torna la consapevolezza e vedo le tacche sul muro, sei verticali e una diagonale a chiudere ogni settimana, sono quasi sette. Cosa farò oggi, mi chiedevo ingenuo… Beh, il solito, tanto è il giorno della marmotta. C’è il sole. Passano pochi minuti e non riesco a evitare che i dati sui contagi del giorno precedente arrivino in qualche maniera al mio cervello, senza però che li registri – chiedo scusa ma in effetti è così, mi instillano preoccupazione, non so che conclusioni trarne, mi sono invisi – e ne tenga traccia, mi basta capire dal tono della voce alla radio o del titolo che leggo se il dato sia buono o meno. È sempre il giorno della marmotta, uguale a sé stesso, ma ogni giorno c’è una piccola, impercettibile variazione che lo fa sembrare nuovo e diverso al primo acchito. Oggi, per esempio, per la prima volta la protezione civile ha comunicato i dati delle persone sottoposte a tampone. Può parer inverosimile ma finora conoscevamo solo il numero di tamponi somministrati, ma non eravamo al corrente se fosse in vigore la regola un-uomo=un-tampone o, invece, magari li abbiano fatti tutti a un pensionato di Monza e Brianza, un tampone ogni cinquanta secondi. Pare una variazione, dicevo, ma solo al primo sguardo: di fatto, i dati che erano già inattendibili così diventano del tutto inverosimili. Difficile dire su che cosa si stiano basando, il gruppo di consulenti del presidente Conte, per regolare e gestire la cosiddetta fase due, la riapertura graduale. Viene il dubbio che si faccia un tentativo, riaprendo (sì, dico per dire, per non scrivere «aprendo nominalmente» e ogni volta poi dover spiegare che tantissimi non hanno mai chiuso) le attività meno difficili da gestire e vedere l’effetto che fa. Vengo anch’io? Per forza. Poi sistemo qualcosa in casa e mi chiedo che giorno sia, se, magari, sia il giorno del grande appuntamento settimanale oppure no. Forse sì, se è giovedì è giorno di ritiro spazzatura. Lo è, lo è, urrah. Nemmeno la messa è rimasta a segnare un giorno preciso, nemmeno gli gnocchi il giovedì. Guardo la posta e come tutti i giorni sono principalmente newsletter e comunicazioni ripetute, con tutte queste videoconferenze, chat, messaggi e, più che altro nel mio caso, assenza di lavoro le mail sono scomparse. Sono le stesse mail di ieri e dell’altro ieri, anche inventarsi dei titoli per le notizie ogni giorno deve avere la sua bella difficoltà in questi periodi. Il giornale della marmotta. Gli unici articoli che leggo in questi giorni sono quelli dei corrispondenti dalla Cina che raccontano come funzionano là le cose. Ha senso, per me, per cercare di capire cosa ci aspetti dal punto di vista pratico. Per esempio, al ristorante si andrà con, ovviamente, mascherine e guanti, ci verrà provata la temperatura fuori e, se dovesse essere in atto qualche tipo di tracciamento, si dovrà mostrare l’app che dichiara che non abbiamo avuto contatti con contagiati negli ultimi tempi. Una volta dentro, i tavoli saranno uno sì e uno no, a seconda ci si potrà sedere da soli o in due se le misure lo consentiranno, l’ordine verrà fatto con la mascherina che potrà essere abbassata soltanto per infilare la forchetta in bocca. Forchetta che verrà sanificata lì, seduta stante, davanti a noi per rassicurarci. Qualora il locale sia piccolo, è possibile che vi siano delle barriere trasparenti tra un tavolo e l’altro o, nel caso estremo, a metà del tavolo, tra i due commensali. Più che una cena, un colloquio settimanale in carcere. Con tutt’e due dentro, però. «Come va, fuori?». Eh, scarsità di argomenti. Mmm, che voglia.

Poi suona il telefono: un’amica o amico con cui ci si scambiano informazioni sulle reciproche condizioni e stati d’animo, ci si informa sulle cerchie allargate, ci si scambia qualche notizia sperando con ottimismo che siano nuove per l’interlocutore, cosa che non avviene mai, «pare che non sarà possibile uscire dalla propria regione», il che, visto che nemmeno possiamo uscire di casa, mi pare un gran passo avanti, poi si azzarda qualche tipo di analisi un pelo al di sopra delle notizie, ma sempre meno devo dire, e alla fine ci si trasmette un po’ di vicinanza e affetto, che è un po’ il senso delle telefonate. Le telefonate della marmotta. Pranzo frugale, composto delle cose intelligenti da comprare al supermercato, durevoli, di poco volume, sane e nutrienti ma sempre quelle. L’altro giorno sono passato fortunosamente da una forneria con un angolino di gastronomia e ho preso qualche fettina di vitello tonnato: mi è parso di essere andato a cena dal duca di Urbino, mancava solo la scultura di ghiaccio al centro della tavola. E i nani, certo, i nani. Il pranzo della marmotta. Poi leggere, ed è qualche settimana che arranco sullo stesso libro perché lungo e metto via libri belli sui quali arrancare in futuro, poi scrivere, «il diario? Come il diario? Ancora?», fare delle chiacchiere alla giusta distanza, tutto bello per carità, mi va bene, ma andrebbero accompagnati da contorni di vita normale. Il diario della marmotta. Verso sera, magari, una doccia – orpo, già passato un mese? – e, che so?, lavaggio di qualcos’altro, magari piatti o verdure o bagno o vetri, poi la cena che per me oscilla tra le otto e le undici, a seconda di come mi viene, tanto il cameriere non c’è, e poi quello che capita, a volte un film – ho finalmente visto «Il fuggitivo» con un Harrison Ford in formissima e «La casa Russia», con una Michelle Pfeiffer altrettanto, film che avrei dovuto vedere venticinque anni fa – a volte una partitina con qualche amico online, a volte scrivo a volte leggo a volte ascolto musica nuova a volte invento a volte mi addormento. Tutto bene, va tutto bene. Il bene della marmotta.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 47

  1. Tra speranze e aspettative

    Chi non ha mai nutrito particolari aspettative è difficile che rimanga deluso. Così vado ripetendomi in questi giorni con piglio autoconsolatorio. Eppure, alla fine, uno un po’ ci spera sempre: nel prossimo, nel Governo, magari anche solo in un po’ di buona sorte (la proverbiale fortuna con la c maiuscola, come diceva mio nonno M.).
    Mi rendo conto, peraltro, che ho appena fatto involontariamente confusione tra due cose diverse. Da un lato, infatti, ci sono le aspettative, cioè un qualcosa che per qualche ragione “ci aspettiamo” e che spesso ci aspettiamo non perché in sé probabile ma perché la reputiamo in qualche modo “prescritta”: le aspettative, insomma, sono le proiezioni delle nostre pretese “normative” (non importa se fondate o meno) sugli altri. Dall’altro lato ci sono le speranze, che con le aspettative condividono il non essere dipendenti da prognosi di tipo probabilistico, ma che a differenza delle aspettative non hanno necessariamente a che vedere con le altre persone (posso sperare d’incontrare la donna dei miei sogni, ma anche che domani ci sia il sole) e difficilmente assumono l’evento desiderato come “dovuto” (se non dovessi incontrare la nipote di Grace Kelly o se domani dovesse piovere, non reagirò come se avessi subito un torto). Al di là delle classificazioni concettuali, la differenza tra i due atteggiamenti è immediatamente chiara per chi li pratica: le speranze si accompagnano a un mood positivo, di apertura fiduciosa rispetto al futuro; le aspettative, viceversa, sono contraddistinte da emozioni di segno negativo, a partire dalla paura che si prova a scenari invisi per giungere alla volontà di controllo.
    Quanto più in giorni come questi risulti difficile coltivare autentiche speranze, tanto più –anche solo in modo irriflesso – si moltiplicano le aspettative, e con esse fatalmente anche le potenziali delusioni.
    Alla lettura del giornale in cui si riporta un nulla di fatto sugli eurobond si è frustrati per l’atteggiamento ostile della Germania o dell’Olanda (“dovevano” aiutarci!), davanti alla tuttora lacunosissima tempistica della “fase 2” si reagisce con comprensibile stizza (“devono” dirci qualcosa!), di fronte all’ennesimo video di qualche sedicente esperto di fama mondiale che sostiene come il covid sia qualcosa che si cura con la vitamina D cresce l’insofferenza non (sol)tanto per lui ma (soprattutto) per chi lo diffonde (“dovrebbero” riflettere!).
    Riconosco di avere un problema in particolare con tutti quei gesti del mio prossimo che percepisco dipendere da una scarsa capacità di autoanalisi, dalla mancata comprensione dei propri limiti e dall’arroganza di voler comunque manifestare le proprie opinioni in pubblico blaterando in modo assertivo contro la “scienza ufficiale”. Perdio, quelli proprio non li sopporto (“dovrebbero” tacere!), e non perché la scienza ufficiale non abbia i suoi limiti, i suoi conflitti di interesse e le sue congrue possibilità di essere contestata e cambiata, ma perché dovrebbe esserci un metodo anche nel criticarla ed è impensabile che un tale processo provenga da chi, talvolta addirittura in modo programmatico, si tiene lontano da conoscenza e riflessione.
    Ho scritto “impensabile”, sbagliando ancora. È pensabilissimo, solo che spesso mi rifiuto di pensarlo (daccapo, l’aspetto “prescrittivo” delle aspettative: “dovrebbero” astenersi!), ma così però mi sottraggo anche alla possibilità di comprendere davvero quel che accade in quegli universi della negazione.
    Franco Cordero lo illustrava – ovviamente molto meglio di me – ancora cinquant’anni fa: nel suo Trattato di decomposizione (Bari, De Donato, 1970, 7-8): «Tante strutture psichiche tanti mondi: che siano compresenti, si vede nella catastrofe psicotica: ricaduto nei processi mentali infantili o addirittura prenatali, lo schizofrenico passa da uno all’altro e i salti di livello psichico stravolgono i suoi discorsi. La paura di riaffondare nell’amorfo moltiplica le definizioni lanciandole come ponti su Lete: i punti cardinali, il prima e il dopo, il cono rovesciato dell’inferno, la montagna del purgatorio, le sfere celesti, i numeri, i segni logici, sono le figure d’una carta filosofica di navigazione. Alcune, sature di sentimento, si sono incarnate al punto che l’amputazione costa molto cara; poco male se rendessero la vita più sopportabile, ma i fatti insegnano che la narcosi intellettuale procura strumenti di governo ai manigoldi e predispone a una vita sordida: i peccati contro l’intelligenza sono come quelli contro lo Spirito santo, non ammettono perdono. Anche le immagini e le idee patiscono il tempo: quella di ieri era carica d’avvenire, domani sarà forse un velenoso prodotto di necrosi; la sola difesa consiste nel farle sacrilegamente a pezzi per vedere cosa contengono».
    La mia speranza è che ci siano ancora menti in grado di farlo.

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