minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: sette, un’alba su mille, templi dei morti e templi dei vivi, camminare sulla via dei re, vivere come una volta solo i signori

Un tempio funerario bellissimo, moderno, anche questo razionalista se non venisse da ridere, clamoroso. Colpisce del tutto la nostra immaginazione contemporanea, è pronto per ospitare la nostra attuale fantascienza – da Stargate a Star Wars è quasi tutta egizia -, incastonato in una quinta naturale di rocce dello stesso colore che aspettano solo di cambiarlo a seconda della luce del sole. È il tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari, XVI secolo avanti cristo, seconda donna a essere sovrana riconosciuta dell’Egitto. Pensavate di conoscere la funzione e la natura del superlativo? Ebbene no, il luogo è noto come Djeser-Djeseru che, tradotto, sarebbe una cosa tipo: la sublime sublimità. Come andare oltre? Come fare meglio?

Arriviamo alle sei del mattino, il sole sta sorgendo alle nostre spalle – ovvio, siamo sulla riva dei morti – e in pochi minuti tutto cambia e si tinge di arancione e giallo, non c’è anima viva, siamo arrivati addirittura prima dei venditori di scarabei. La fotografia senza figure umane è una rarità senza ritocco. Ma non basta: tra noi e il sole si alzano decine di mongolfiere, è un momento commovente per tanta bellezza, non posso non postare una foto, non parrebbe vero.

Ma tutto questo entusiasmo ed ebbrezza di colori non possono essere sereni, in questo tempio sono successe cose tremende non molti anni fa, non posso non pensare al terrore di chi, inseguito, non ha trovato luogo in cui nascondersi.
Nemmeno una targa, un pensiero, qualcosa. Non sia mai che si turbi la tranquillità dei turisti, se non per vendere loro qualcosa. Alle otto siamo già da un’altra parte ma il pensiero non mi abbandona. Vedo finalmente i colossi di Memnone (Mèmnone, non Memnòne, come ho sempre detto io), noti in antichità perché uno dei due, danneggiato da un terremoto e fratturato, emetteva da una larga fessura un suono come di bronzo percosso, causato forse dal riscaldamento della roccia. La fantasia dei viaggiatori antichi greci e romani descrisse il suono come il saluto dell’eroe alla madre Eos, dea dell’aurora. Che bellezza, così la descrive Filostrato nella sua Vita di Apollonio di Tiana. Poi arrivò Settimio Severo, a Egitto ormai provincia romana, la fece restaurare e saluti al suono all’aurora del colosso.

Tornando al di qua del fiume, cioè tra i vivi, l’Egitto antico prorompe con l’enorme complesso di Karnak, ovvero quattro enormi templi e una pletora infinita di edifici che coprono oltre trecentomila metri quadri e circa i duemila anni in cui la Tebe egizia fu il centro di governo del paese. Un esempio calzante che mi è venuto in mente è quello dei fori romani: ogni nuovo regnante aggiungeva un foro, una cosetta qui, una cosina là. Addossando, spostando, integrando, così che poi diventi pressoché impossibile distinguere certe fasi successive. Esattamente come i fori, fino alla fine del secolo scorso tutto il complesso era interrato e inesplorato da millenni, poco comprensibile e terreno di pascolo, di superfetazioni abitative, di città che sono cresciute sopra le altre pietre, facendone fondamenta.

Gli stessi viaggiatori, in ogni epoca, hanno lasciato le loro tracce, nomi, scritte, date, motti, pensieri. Non si arrampicarono, non tutti almeno, scrissero – anzi, incisero – là dove il terreno rendeva la cosa comoda. Persino le incisioni degli studiosi della spedizione napoleonica sono perfettamente visibili, non si gridi allo scempio al turista al Colosseo, passato il giusto tempo diventano anch’esse testimonianze storiche. Certo, con moderazione.
Da Karnak si srotola per quasi tre chilometri la via reale, bordata di sfingi ogni tre metri a destra e a sinistra – ecco perché ve ne sono in ogni museo del mondo – che porta al tempio di Luxor. Illuminata la sera, è la fotografia su qualsiasi depliant turistico. La percorro a piedi da solo, mi immagino una processione nella festa di Opet, in cui le statue delle divinità Amon, Mut e Khonsu venivano poste a bordo di una barca sacra e portate in spalla dai sacerdoti da Karnak a Luxor. Inutile dire quanto le barche per le processioni e la rappresentazione del tempio in esse contenuto assomiglino, anche qui, all’arca dell’alleanza. Incontro a metà un bel branco di cani randagi, una decina. Sono dappertutto in Egitto, meglio lasciar stare quando ci sono femmine con i cuccioli, in generale non costituiscono un pericolo. Però, insomma, va’ a sapere, faccio i conti di dove potrei darmela a gambe, poi faccio l’indifferente e loro pure. Percorro il viale da solo, è un bel momento, ho aspettato al tramonto, verso la fine incontro M., compagna di barca, che fa la stessa cosa, buongustaia.

Compiuto il mio dovere, contemplata e percorsa la via, sei templi in giornata e alla fine del viaggio, a questo punto l’unica cosa giusta da fare è fare il turista coloniale, andare al Winter Palace, grandioso albergo inglese del periodo d’oro, appena appena fané, recarmi al bar biblioteca, sprofondarmi in una poltrona e in compagnia del nonno di Kissinger, del padre di Livingstone-I-suppose, di Al-Gore, di Agatha Christie che scrive il suo Poirot sul Nilo e di altri improbabili occupanti disimpegnarmi in un three-flight – tre assaggi di vini bianchi egiziani, pure gradevoloni – e in fantasie d’altri tempi che, ne sono certo, resteranno nella mia pur fallace ma tanto contenta memoria.


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