minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 36

I conti tornano sempre meno. In Lombardia, più che altro. La mortalità del virus nella regione è grossomodo il quadruplo che nel resto del mondo, Italia compresa e la cosa, si capisce, non torna. A meno di risposte imprevedibili (i lombardi hanno i polmoni più piccoli a causa dell’inquinamento), la risposta dovrebbe essere una sola: i contagiati in Lombardia sono grossomodo il quadruplo di quanto rilevato (o dichiarato). La gestione di Fontana anziché chiarire le cose crea secche nelle quali l’informazione e la normalità si arenano, esemplare il bailamme attorno all’ospedale da campo di Milano Fiera che, adesso, ospita ben tre pazienti, dai duecento (quattrocento, mille!) che avrebbe dovuto ospitare all’inizio. Le conferenze stampa non si contano più, gli autoelogi pure. Visto che non glieli fa più nessuno, par giusto che provveda da sé. Certo, non avere dei dati attendibili è un grosso problema, oltre che un interrogativo altrettanto grosso: progettare le prossime mosse e, soprattutto, la tempistica è molto più complicato e rischioso in assenza di un quadro se non chiaro almeno non nebuloso. Sarei poi curioso di capire, e intendiamoci: non mi auguro il contrario, come mai da Firenze in giù la situazione pare sia così diversa: meno contagi, meno morti, meno ricoveri in terapia intensiva, il rapporto è di quasi 8:1 per i contagi, addirittura di 18:1 per i morti, quella che sarebbe potuta diventare una situazione esplosiva, per fortuna, pare non si stia verificando. Ma perché? Immagino, come sempre nelle questioni complesse, che la soluzione stia in un mazzo di ragioni. Capisco, magari, la minore concentrazione abitativa – e Roma e Napoli non dovrebbero fare eccezione? – o il minor grado di inquinamento o la minore presenza di industrie e luoghi di lavoro densamente affollati, oppure semplicemente essere stati investiti dopo, avendo già preso alcune contromisure essenziali. Il resto, andrà pur spiegato in maniera convincente. E, comunque, ogni spiegazione non depone a favore della condotta lombarda.

Oggi è pasqua o, come io preferisco, il giorno del cosmonauta. Sole, caldo, cielo azzurro che in Lombardia non è affatto cosa scontata. In effetti, al di là dei delfini nei canali di Venezia, questo fermo generalizzato almeno ci sta regalando aria migliore, cieli tersi, giornate di sole con graziosa brezzolina, tutte cose abbastanza normali nel resto del mondo (Ruhr e Mumbai a parte) ma non qui, dove i cieli bianchicci e la polvere nera su facciate e statue sono la norma. Si vedono, addirittura, le stelle e qualche vagolante satellite, che abbiamo osservato in queste sere di calma.
Essendo pasqua, ci siamo organizzati per un calicino in compagnia in cortile, ben disposti in quadranti separati secondo la mappa qui sopra, portando ciascuno da casa propria il bicchiere. Bello che dopo il rigore iniziale ci si è avvicinati, pur mantenendo distanze di sicurezza: qualcuno per affetto, qualcuno per carenze d’udito, qualcuno per abitudine, per fortuna. Piacevole, molto. Poi, insieme alle stelle, abbiamo fatto caso alle auto, tutte ferme da settimane e coperte da una bella coltre di polvere. Oddio, il cambio gomme! Ahah.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 35

Trentacinque. Persino con gli zombi erano 28 giorni e dopo si usciva, qui no, andiamo avanti. Vigilia di pasqua con un caldo e un sole quasi fastidiosi, visti da dentro casa, fuori vedo passare spesso il drone dei carabinieri che controlla i parchi e gli accessi alle colline: non è inusuale che qualcuno si alleni di notte – accade anche in tempi normali – e allora il drone accende il faro, si avvicina e fa partire la sirena. Già, inquietante. Anche le sirene: non ne possiamo più di sentire le sirene delle ambulanze, qualcuno ha giustamente proposto che, a cose finite, si cambi il suono per un po’, per fare una pausa. Ci sono stati giorni in cui erano incessanti, segno di una pandemia galoppante, e ne conserviamo un ricordo non piacevole. E se non sono le ambulanze è l’elicottero, se non è quello sono le volanti, insomma non è che si stia un gran bene, devo dire. A guardarla con occhio oggettivo.
Conte apre timidamente dal 14, Fontana in Lombardia richiude: colpiscono l’immaginario le librerie e qui le battute vengon facili, trattandosi di leghista. Meglio chiusi che aperti, comunque, viste le già citate voglie di confindustria di riaprire il più possibile. Alcune industrie grosse riapriranno da martedì, avendo raggiunto un’intesa sindacale per il venti per cento dei reparti produttivi seguendo le norme sanitarie. Gli altri, più avanti; sarà difficile che le piccole imprese o gli uffici di servizi possano raggiungere una situazione analoga, lì le cose saranno più difficili e lunghe. Anche la situazione trasporti è pencolante, vien da sorridere se non fosse triste vedere l’offerta dei treni ad alta velocità: un treno al giorno da Milano a Roma, quasi regalato, e uno al giorno da Roma a Venezia, il primo Trenitalia il secondo Italo, per non incorrere in pericolose sovrapposizioni. A proposito di Italo: mi arriva via posta elettronica un questionario, come affezionato cliente, per sapere quali siano le mie richieste per i viaggi futuri in tempo di distanze sociali e mascherine, ovvero alla ripresa. Mi farebbe più piacere un kit sanitario consegnato alla partenza o i sedili attorno al mio vuoti? Beh, i posti attorno vuoti mi piacevano moltissimo anche quando si viaggiava in tempi normali, per cui sì: quelli. Si può avere anche il vagone senza bambini? Perfetto, grazie. Mi par giusto, comunque, porsi questo tipo di domande fin da ora: la pandemia segnerà, tra i tanti disastri, anche un colpo abbastanza mortale per il trasporto pubblico od omologo, perché se già prima era tutti-in-macchina figuriamoci poi. Meglio, più posti liberi attorno al mio.

Quindi, natale con i tuoi e pasqua… pure. Oggi supermercato semivuoto, miracolo!, niente coda e riesco a entrare e uscire in tempo record, sarà l’effetto della vigilia combinato con l’orario prandiale? Impossibile a sapersi. Ultime consegne prima dello stop dei prossimi due giorni, taglio degli ultimi pezzi di colomba da distribuire, ultima riunione nei quattro cantoni del cortile per decisioni urgenti, poi si ferma tutto. La via crucis con il papa da solo è stato un ulteriore appuntamento con un’immagine potente, un uomo, da solo, in una piazza sontuosa e deserta, i colori scelti alla perfezione, un uomo dicevo che rivolge l’invocazione alla divinità, Natura, quel che sia, per il bene di tutti. Non condivido ma rimango impressionato, quello sì.

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«non temerai i terrori della notte / né la freccia che vola di giorno / la peste che vaga nelle tenebre / lo sterminio che devasta a mezzogiorno»

Sono trentatré anni che è morto Primo Levi.

Quella mattina brutta in casa sua, in corso Umberto 75 a Torino, che ancora non si è capito se fu suicidio o vertigine. Ma che importa, a questo punto? Conta che non c’è più da trent’anni e che avrebbe avuto ancora molto da dire, anche se lui stesso disse pochi giorni prima a Einaudi di non riuscire più a scrivere. Ma, magari, son cose che passano e che capitano a tutti gli scrittori. Oppure no, il peso era davvero troppo.
Di Levi penso, con riconoscenza, tutto il bene possibile ed è sempre un piacere rileggerlo, anche nei passaggi più duri, perché mi riporta a sprazzi di coscienza più consapevole, o quando mi fa ridere, perché sì, c’è parecchio Levi divertente, o quando è leggero e arguto. Ne ho scritto qualcosa nel tempo e non serve a nulla ripetermi qui, serve invece a molto ripetere le cose dentro la mia testa. Una fortuna, averlo avuto.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 34

Tutto prorogato al 3 maggio nulla cambia. Tranne qualche timida apertura, tra cui le librerie e le lavanderie, qualche prosecuzione come le industrie di estrazione del petrolio, resta tutto chiuso; per fortuna il governo non cede alle spinte, fortissime, di Confindustria per riaprire nonostante la situazione. E, di fatto, vanificando quanto fatto finora. E non è la sola cosa buona fatta da Conte: l’altra è la sfuriata in diretta televisiva contro Salvini e Meloni, i quali, si può dirlo, hanno veramente rotto i coglioni negli ultimi giorni su MES, Eurobond, Olanda e Germania e tutto quanto avessero a tiro, tanto la verità è un dettaglio. Il meglio è stato raggiunto quando Meloni si è lamentata del comportamento dell’Olanda (sintesi: «arrangiatevi») non comprendendo che è esattamente così che si comportano i sovranisti (o reazionari, come trovo bello chiamarli) che lei tanto ama e con cui si identifica. Ovviamente non fa alcuna differenza per lei, che non ricorda quando pochi mesi fa si faceva fotografare allegra a fianco proprio di coloro che oggi ci snobbano. Ma, ripeto, sono persone per cui non conta nulla. Però i due prendono una scoppola che ricorderanno.
A proposito di persone cui non importa nulla: la vicepresidente di Confindustria ha dichiarato oggi che il problema della chiusura delle fabbriche «è altrettanto» rispetto al «problema dei morti». Ancora una volta, bene Conte che non molla la barra.
Nel frattempo, crolla un ponte a Massa, sul torrente Magra. Si accartoccia proprio, di certo non per il peso visto che non c’è nessuno in questi giorni. O, meglio, solo un furgoncino telecom che si salva per un pelo. Una battuta che è girata al riguardo: Italia, timidi segnali di ripresa. Di certo, sempre una bella metafora, un ponte che crolla. Anche in questo caso ci sono le carte che testimoniano gli accurati sopralluoghi e il responso positivo dei tecnici, siamo sempre in una botte di ferro.

Oggi è il venerdì santo, il che vuol dire che i prossimi tre giorni saranno di fuoco per le forze dell’ordine: vuoi mancare la gita fuori porta? Ovvio, no. Fa pure caldo, se non è lago sarà mare, magari partiamo di notte. Spero vi infliggano pene sproporzionate, per esempio la crocifissione sulla versiliana di notte. Ho modo di verificare le forze in campo quando, in motorino con la spesa, svolto su una curva in città e dietro mi ritrovo in un vero e proprio posto di blocco con cinque auto dei carabinieri disposte a spina di pesce, uomini dappertutto e, dietro, altri due che stanno facendo decollare un drone. Per inciso, il drone ha la stessa livrea della divisa dei carabinieri, blu con striscia rossa: giusto ed elegante. Non mi fermano perché immagino, come ho già detto, non ritengano i motorini motivo di preoccupazione o perché, vedi l’orgoglio?, si sentano sminuiti a fermarli, non so. Ma era un blocco degno della caccia a Maniero o, prima, Vallanzasca. E sarà un fiorire di irresponsabili da qui ai primi di maggio, tra ponti vari (come se avesse senso, date le condizioni) e caldo che si fa convincente. A proposito delle persone con cui conviviamo e del caldo, ieri dal fruttivendolo ho sentito qualcuno chiedere, appunto perché fa caldo, dove fossero le angurie. Nel mondo dei noumeni, scemo. In compenso sono arrivate le prime ciliegie, insensate per periodo e per costo: sessanta centesimi l’una, ce la siamo risa con l’amico fruttarolo, me ne dia una per cortesia. Eppure, vedrai che qualcuno arriva.
Mentre faccio la spesa mi si rompe un laccetto della mascherina (bisognerebbe parlarne, una su due si rompe e bisogna graffettarle preventivamente) ma, mentre faccio per prendere quella di scorta, me ne regalano una. Gesto apprezzato, riflesso di un fatto positivo: adesso le mascherine cominciano a essere disponibili, da quelle fatte con i pannolini (regalate dalla Regione, inservibili) a quelle certificate con filtro. Ieri il giornale locale regalava una mascherina per ogni copia del quotidiano ma non essendo nemmeno imbustate la cosa faceva, a dir poco, ridere.
Mi scoccia per il 25 aprile, quello sì. Il mio natale laico.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 33

Trentatré. Gli anni di Cristo. Ops, mi viene così, da anni e anni di Mike Bongiorno alle prese con la smorfia nella ruota della fortuna. Che non ho mai visto realmente ma non so come si sia insinuato dentro di me. Settantasette, le gambe delle donne. Trentatré, dicevo. Oggi sono andato in ospedale. Sì, quell’ospedale che passa grossomodo in quasi tutti i TG da settimane. Si trattava di ritirare dei farmaci costosissimi e, soprattutto, salvavita per un’amica, per cui era proprio il caso di andare. La mascherina più sofisticata che posseggo (non sapendo valutarle, ho preso la più spessa, probabilmente sbagliando), guanti nuovi, respiro solo col naso. Onestamente, più di questo non posso fare. Supero numerosi posti di blocco, fino all’entrata dove sono disposti dei banchi scolastici a mo’ di cavalli di frisia, impedendo l’accesso. Mi chiedono di mettermi di fronte a una macchina che, immagino, sia una telecamera termica e mi fanno alcune domande di rito. Poi mi fanno entrare. Siamo pochissimi utenti, forse tre o quattro, gli altri sono tutti operatori sanitari, medici e infermieri. Sono sorpreso, perché mi ero fatto un’idea decisamente diversa: quasi nessuno ha la mascherina, pochi i guanti, si comportano normalmente, chiacchierando in gruppo, prendendo il caffè alla macchinetta, parlando nei corridoi. Già, non ci avevo pensato sul serio: per loro è la normalità e con quella dose di realismo necessaria per fare quel tipo di lavoro hanno messo in conto di contagiarsi. Forse, ma non ho parlato con nessuno, ritengono pure desiderabile, a questo punto, ammalarsi in modo lieve, sfangarsela e poi godere di qualche mese di immunità. Comprensibile.

L’aspetto positivo è che il clima è abbastanza disteso. Non sono agli infettivi, questo è vero, penso però che se la situazione fosse ancora del tutto drammatica si vedrebbe anche qui. Non sto dicendo che la cosa sia risolta né dare quella rappresentazione, voglio semplicemente dire che a fronte di una situazione terribile che va avanti da settimane oggi io ho visto qualche spiraglio di miglioramento complessivo, peraltro suffragato dai dati. O, è possibile, ho visto solo un piccolo pezzetto di realtà.
Sono tornate le rondini. Che fanno primavera, quindi viva!

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 32

Dopo il 31, abituati ai mesi, verrebbe l’uno, così si ricomincia, mese nuovo abitudini nuove. E invece no, ho cercato di non sbagliarmi con la numerazione di questo minidiario e oggi è 32: pare un controsenso ma non lo è. A proposito del minidiario, non l’ho detto finora: più di quindici anni di blog in rete nei quali non solo non ho mai detto il mio nome ma nemmeno la città (le città) dove ho vissuto e vivo, le cose che faccio, insomma per farla breve ho parlato molto raramente di me e ora, in questa situazione imprevedibile, mi ritrovo a doverlo fare, anche se in misura minima, tutti i giorni. È curioso, è pur vero che ho scelto io di farlo e dedicarmici perché so che in futuro mi sarà utile aver raccolto le impressioni giorno per giorno, per capire come da un punto A (un tizio a Codogno ma poi scopriremo che non è così, che si deve retrodatare la cosa di parecchio) a un punto C (che ancora non conosciamo) attraverso parecchi punti B (la quarantena, la chiusura della Lombardia prima e del paese poi) che prima parevano inimmaginabili. Per esempio, sono certo che tra qualche anno non ricorderemo esattamente come si passò, nell’inverno 2020, da una situazione di normalità, o quasi, alla chiusura dei confini regionali e all’impossibilità di muoversi all’interno del paese, sarà un ricordo indistinto, non preciso. Per questo serve scrivere le cose giorno per giorno, anche frettolosamente come sto facendo qui io. Mi si perdoni l’inverecondo accostamento, poi mi spiegherò meglio, ma ci ho pensato più volte: mi sono chiesto spesso, alzando gli occhi da un libro o in un museo o ai racconti sentiti qua e là, perché gli ebrei – lo so, mi si scusi, ma cerco di capire la dinamica – non siano scappati dalla Germania nazista non appena intuito il pericolo nel 1933? C’è chi lo fece, per carità, ma furono una minoranza. E gli altri? Perché non scapparono, visto che il pericolo era evidente?

Perché non se ne resero conto, mi sono sempre risposto. Una risposta teorica, generica senz’altro, è una conclusione e non un’osservazione diretta e, per questo, non l’ho trovata mai esaustiva perché non ne conosco i dettagli. Ovvero: come si può passare da una situazione di libertà a una di costrizione senza accorgersene o, quantomeno, senza prendere qualche contromisura utile come scappare o nascondersi? Ora lo so: perché, nonostante il precipitare degli eventi tutto attorno si ritiene impossibile che si arrivi a certe conclusioni. Mi spiego meglio: arriva la notizia dei contagi in Cina verso la fine dell’anno e noi tutti qui a pensare che tanto da noi non può succedere; poi i contagi compaiono in Thailandia, in Corea del Sud, Giappone e Australia e noi tutti qui idem; poi a febbraio il primo contagiato in Italia e noi tutti a pensare che vabbè, lo si ricovererà, lui e quanti saranno, e la cosa finirà lì; poi la situazione si allarga a Codogno tutta e noi tutti a pensare che si farà cordone e intanto facciamo un po’ di battute su quanta gente passi settimanalmente dal lodigiano; poi si istituisce la zona rossa, i treni non fermano più nelle stazioni, non si entra e non si esce più e noi tutti a pensare che è un focolaio e che verrà contenuto; poi c’è un secondo focolaio in Veneto e tutti noi qui pensiamo che è uno di Codogno che è andato là o viceversa ma comunque qua da noi, ovunque sia il qua, non può accadere. Questo nell’ultima settimana di febbraio.
Ecco, se a questo punto qualcuno avesse detto a me, o a tutti noi, che entro pochi giorni sarebbero state chiuse stabilmente scuole e università, cinema e teatri, stadi e ogni luogo di aggregazione, non ci avrei creduto. Mi vedo: figurati, non si può fermare il paese. Ed è esattamente quanto è accaduto il 4 marzo, pochi giorni dopo. Stessa cosa per il passaggio successivo: se mi avessero detto che sarebbero stati chiusi i confini regionali, facendo della Lombardia intera una zona rossa, l’avrei semplicemente ritenuto impossibile. È questa la chiave: impossibile. Non ho preso in considerazione qualsiasi ipotesi di muovermi prima – non so, andare in qualche altra parte d’Italia che al tempo avrei ritenuta migliore o più sicura – perché non ho ritenuto plausibile che si sarebbe mai arrivati a quel punto. Ricordo perfettamente come mi sono sentito la sera del 7: ero a cena al ristorante con un amico (al ristorante, oddio, pare una fantasia, ora) e abbiamo letto sui telefoni la notizia del lockdown. Mi sono sentito crollare, un misto di sentimenti di paura, incredulità e stordimento, mi sono chiesto rapidamente se avrei dovuto prendere qualche decisione immediata, poiché il decreto sarebbe entrato in vigore alcune ore più tardi, (il mio amico, per esempio, è saltato su un aereo per la Spagna la mattina dopo, per raggiungere la famiglia, ma per un pelo) e ho concluso che non avrebbe avuto senso. Ma, in qualche misura, a quel punto era già tardi. Eravamo passati in un istante dall’impossibile al possibile.
Oggi, riguardandomi indietro, potrei dire che c’erano tutti gli elementi per comprendere appieno e prevedere l’evoluzione degli eventi ma ora so che è una valutazione che si fa a posteriori. Allora non era possibile, non tanto per i fatti in sé, che erano e sono davanti agli occhi, quanto per una certa mia, e nostra, pervicacia nel negare l’evidenza, considerando non credibili alcuni esiti che poi si sono rivelati perfettamente commisurati alle premesse.
Ecco, ora – e mi si perdoni di nuovo l’accostamento – ho compreso come avvengono le cose: si ritengono impossibili (ancora una ripetizione ma non trovo un termine analogo di pari forza per esprimere il concetto) fino a un certo punto e poi è troppo tardi. Ecco cos’è successo in Germania all’avvento del nazismo e in mille altre situazioni della storia umana, ecco perché le persone non scappano o si mettono al sicuro, ecco perché si sta lì immobili a osservare la catena degli eventi senza prendere alcuna decisione. Perché, semplicemente, non ci si crede.

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