«non temerai i terrori della notte / né la freccia che vola di giorno / la peste che vaga nelle tenebre / lo sterminio che devasta a mezzogiorno»

Sono trentatré anni che è morto Primo Levi.

Quella mattina brutta in casa sua, in corso Umberto 75 a Torino, che ancora non si è capito se fu suicidio o vertigine. Ma che importa, a questo punto? Conta che non c’è più da trent’anni e che avrebbe avuto ancora molto da dire, anche se lui stesso disse pochi giorni prima a Einaudi di non riuscire più a scrivere. Ma, magari, son cose che passano e che capitano a tutti gli scrittori. Oppure no, il peso era davvero troppo.
Di Levi penso, con riconoscenza, tutto il bene possibile ed è sempre un piacere rileggerlo, anche nei passaggi più duri, perché mi riporta a sprazzi di coscienza più consapevole, o quando mi fa ridere, perché sì, c’è parecchio Levi divertente, o quando è leggero e arguto. Ne ho scritto qualcosa nel tempo e non serve a nulla ripetermi qui, serve invece a molto ripetere le cose dentro la mia testa. Una fortuna, averlo avuto.

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