Lo sapeva lui, lo sapevamo noi, lo sapeva chi preparava il tritolo.
Foto LaPresse – Guglielmo Mangiapane
Ancora non posso crederci, quando ci penso. Lo Stato era una cosa più complicata di quanto credessi a vent’anni. Ha anche la minuscola, è anche anti-sé stesso, è tante e troppe cose. Uno dei giorni più neri dei miei vent’anni. (C’era anche Spielberg in manifestazione).
Piove che il signore la manda a sbroffi violenti ed è il tempo appropriato per quel che voglio fare oggi. Un giro rapido al decathlon di Ponte nelle Alpi per comprare cose impermeabili, ogni volta stolto che sono, una decina di minuti a spasso su una strada romana che ho visto indicata per caso e proseguo in su verso la mia destinazione. Longarone. Volutamente scritto così, da solo, echeggiante, come una valanga d’acqua che di notte spazza via vite e paesi. Disse Buzzati, che era di qui vicino: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». E Tina Merlin, fastidiosa con quel suo petulare del pericolo, che trovò un editore solo vent’anni dopo la tragedia. Saranno sessant’anni questo ottobre e io son qui apposta per quello, voglio anche esser pronto per una prossima serata a Milano in cui Marco Paolini rifarà la sua memorabile orazione civile. Longarone, dicevo. Longarone è un disastro, mi si perdoni, spazzata via dalla furia è poi stata ovviamente ricostruita ma senza criterio né affetto, con soldi, tanti, e nessuna pietà. Quelli che non erano morti da qualche parte dovevano pur vivere, si capisce, il paese è però stato rifatto su alla bruttodio, brutalista in cemento armato, con certi complessi che ricordano il Corviale, condominii che nemmeno le peggiori speculazioni. Senza affetto né pietà, persino i luoghi che per natura dovrebbero essere accoglienti sono spenti, spogli e morti, fatti perché si deve. Magari con architetto di grido, giù della pianura. E chi aveva perso famiglie, amici, affetti, perse due volte il paese, una per l’acqua e una per gli uomini di fuori.
Il cimitero monumentale è una sequenza di file regolari di piccoli monumentini tutti uguali progettati da qualche architetto assente pochi anni fa, che badò all’ordine e allo stile e poco o nulla alla memoria, al rispetto e alla pietà, ancora. Povero Longarone, lo scempio prosegue. Mezzo chilometro più in su ci sono due paesi che, fortunati, erano appunto più in su e l’acqua, si sa, va poco in salita per quanto veloce e tanta sia. Quei due paesi sono come devono essere, questo invece è un mostro, chissà se ne valeva davvero la pena stare qui a queste condizioni. Diluvia, salgo alla diga. La gola è stretta e scura, anche quando c’è il sole, l’impressione è sempre quella. Buzzati lo scrive bene, per forza: «più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino, a un certo punto la strada attraversava l’abisso, da una parte e dall’altra spaventose pareti a picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d’Italia, con un vuoto sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù con il batticuore. Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa». Ma è su che fa ancora più impressione: dove c’era la gola, la valle, il lago, sono ora collinette verdi, con gli abeti. Ma quelle collinette erano sul monte Toc, una volta, stavano su. Poi, quella sera scesero tutte insieme, riempirono l’invaso e proiettarono l’acqua in tutte le direzioni, il peggio oltre la diga. Salendo a Casso si vede benissimo, di fronte, il pezzo di montagna che è venuto giù, la grande “emme”, i fianchi in certi punti sono lisci lisci e compatti, ovvio che sia scivolato giù tutto. La disegno.
Qualcuno si è preso la briga di calcolare che se portassimo via cento camion al giorno di terra, riusciremmo a svuotare la valle com’era in sette secoli. Quel che si vede dietro la diga, che pur parrebbe quieta natura per passeggiate e panini al sacco, è in realtà un nonsense, qualcosa che sta dove non dovrebbe, semplicemente perché se così fosse non ci sarebbe stato il lago, l’acqua sarebbe stata pochissima. Ce n’è un po’, a nord della frana, parecchio più su, sotto Erto, un lagolino che fa pena a guardarlo.
Oggi c’è turismo, a Erto ci sono locande e bed&breakfast, qualcuno è persino stabilmente in televisione, vicino alla diga c’è un furgone che vende panini ai tanti motociclisti in vena di pieghe, persino oggi che ne vien giù tanta tanta. Chi è rimasto campa ma son professioni artificiali, cose da vendere ai turisti, sculture in legno e intrattenimento e cibo, non c’è lavoro vero come peraltro accade in tante valli alpine. Un signore a Casso, paese praticamente abbandonato, restaura auto d’epoca per diletto, gli avran dato una pensione, immagino, fa bene ma a vederlo risulta proprio fuor d’acqua, fuor di contesto, come tutto qui attorno. E mi si perdoni l’espressione infelice, qui.
Non sono nemmeno a metà giornata, io, proseguo per altri posti ma il mio racconto è bene si fermi qui, per oggi. Venire al Vajont è una cosa a sé, sarebbe sciocco raccontassi di cose belle che vedrò più su, non ora, il posto e la memoria riempiono tutto quanto, andarsene è come iniziare il giorno dopo, fare un’altra cosa del tutto scollegata. E così sia, proseguo domani col raccontino.
“We would like to share the playlist that Ryuichi had been privately compiling to be played at his own funeral to accompany his own passing. He truly was with music until the very end”.
La si ascolti con il rispetto e, soprattutto, con l’attenzione che merita. Altrimenti, si lasci stare.
Oggi è l’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine perché ieri era l’anniversario dell’attentato di via Rasella. Il fatto che Meloni dichiari: «La memoria dell’eccidio è da onorare, una strage che ha segnato una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale: 335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani» dimostra quanto sia necessario ricordare a chi mente e omette i fatti come andarono. Furono massacrati solo perché antifascisti. E non solo: tutti i compari di Meloni si affrettano a tralasciare o specificare solo che si tratti di strage nazista quando, invece, è opportuno ribadire che la strage è nazifascista, dato che il supporto italiano in essa fu tutt’altro che trascurabile, a cominciare dal questore Caruso. Fatti.
Manlio Bordoni fu arrestato dalle SS il 12 gennaio 1944 nella sua casa di via Taranto, a Roma, su delazione della spia famigerata Franco Sabelli. Fu portato in via Tasso, nella tremenda prigione dei tedeschi, e torturato come sempre accadeva in quelle stanze. Bastonato a sangue, si risolse, alla fine, a confessare i nomi dei complici: «Oh, sono parecchi», disse stremato alla fine, «Cavalcanti Guido, Muratori Ludovico, De Sanctis Francesco, Marino Giovan Battista…». Ottenuta la confessione, i tedeschi lo trasferirono a Regina Coeli.
Giorni dopo, fu prelevato e dopo molte ore lo riportarono in cella semisvenuto, torturato a sangue. I compagni gli chiesero cosa fosse successo, Bordoni rispose: «Quelle carogne devono aver consultato un libro di letteratura», con il poco fiato rimanente. Condannato a morte dal tribunale tedesco dell’Hotel Flora per gli atti di sabotaggio all’Acqua Santa, fu poi assassinato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, a ventiquattro anni.
Che coraggio, certe persone. Ho solo da imparare, ricordare e raccontare.
Come ogni 15 dicembre, il pensiero va a Giuseppe Pinelli e al quarto piano della Questura di Milano. Cosa, dunque, di meglio di ricordarlo e guardare Morte accidentale di un anarchico di Fo? Non molto. Non si dia per scontato, l’opera teatrale è sensazionale, qualche anno fa era il testo teatrale più rappresentato al mondo, Shakespeare battuto, ma soprattutto al tempo fu una prima esperienza di controinformazione e controinchiesta clamorosa, insieme agli articoli, ai testi, alle canzoni scritti nel periodo da chi aveva deciso di non fidarsi più di quello Stato.
Ancora e ancora e ancora. Non basta segnalare la completa assenza del governo e delle istituzioni nazionali o regionali, bisogna anche rilevare che questa sera la RAI trasmetterà un documentario sulla morte di Sergio Ramelli e su quella di Walter Rossi. Non l’undici, non il tredici, questa sera. Perché tutti i morti sono uguali? Bene, come volete. Niente di nuovo, proprio niente. Ed è per questo che dobbiamo ricordare ancora il dodici dicembre a Milano e le sue vittime ancora oggi. E lottare, ancora.
Con anticipo sul dodici dicembre, passo da piazza Fontana a Milano. Ovvio che il pensiero vada alla banca dell’Agricoltura, alla bomba, alle vittime, a Pinelli, a Valpreda, a Calabresi, ai neofascisti, all’attuale presidente del senato.
Bene abbiano tenuto l’insegna originale. Oggi è un’agenzia del Monte dei Paschi, che in quanto a buchi non è da meno, finanziari per fortuna. Entro, non è la prima volta, voglio portare un minuto di omaggio, boh, guardare e pensarci un momento.
Dove c’era il tavolo sotto cui fu lasciata la bomba, ovvero dove c’era il buco, oggi c’è un tavolo a forma di orologio, che ricorda l’ora dell’esplosione. È una banca normale, la gente entra, esce, gli impiegati scherzano, va bene così. Chissà quanta gente come me vedono entrare solo per vedere dove accadde, chissà chi entra e si commuove, chissà se ancora ci fanno caso. A me no, come è giusto. Il salone è ancora simile, gli uffici e le vetrate sono quelli, qui cinquant’anni sono passati un po’ meno, perché non è lecito rinnovare più di tanto. E niente, era per pensarci un po’, quanto tempo è passato da allora e, per altri versi, quanto poco ne è trascorso.
Visto che siamo in periodo di ricorrenze, il centenario, e in periodo di rigurgiti tematici, il manipolo ora al governo, un altro anniversario oggi, è bene riparlare di un libro memorabile di Emilio Lussu: Marcia su Roma e dintorni.
Marcia su Roma racconta gli avvenimenti dal 1919, i dintorni, al 1922, i fatti che portarono alla marcia stessa e alle nefaste conseguenze, ovvero l’affermazione del fascismo, con il piglio del memoriale ricco di notizie di prima mano, essendo Lussu un testimone e persona capace di interpretare ciò che gli accadeva attorno. Il tono è spesso ironico e il racconto di alcuni personaggi, l’imbelle presidente del consiglio e ministro dell’interno Facta, detto Nutro fiducia, e l’altrettanto immobile sciaboletta, sono ridicoli e tragici insieme, sapendo poi cosa accadde. Di Facta ne ho raccontato tempo fa. Lussu, quello dell’Altipiano, era un duro, prima militare nella Prima, poi fondatore di Giustizia e Libertà, al confino a Lipari da cui fuggì in modo rocambolesco, poi dirigente nella guerra di Spagna e nella Resistenza. Uno che fu assalito a casa sua dai fascisti e invece di scappare li affrontò da solo con il fucile, avendo la meglio. Ma, anche, una testa politica senza pari seppur, dicono alcuni, portato al disordine. Io consiglio caldamente in questi giorni cupi anche se non come quelli di allora, perché – banalmente – sapere serve sempre. Ed è una gran lettura, breve, sapida e densa di contenuti. Fatevi un favore, c’è da imparare molto da quest’uomo.
facciamo 'sta cosa
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