minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 65

Oggi è stata una giornata frenetica. Che dico? Alla luce delle attività degli ultimi due mesi, freneticissima. Ed è pure lunedì. Oggi: cambio delle gomme (e batteria, per non farsi mancare nulla) dell’auto e revisione della motoscurreggia. Sì, pare poco ma come cumulo di attività è di gran lunga superiore alla somma delle attività svolte dal sette marzo a oggi. E ho pure pagato il bollo della motorella. Ma non è quello che voglio raccontare qui. Quello che voglio raccontare è che il cambio delle gomme dell’auto ha implicato tornare a casa dal gommaiolo e poi tornare di nuovo da lui a riprenderla e ciò l’ho fatto, esperienza del periodo, con l’autobus. Autobus in tempo di covid-19, quindi per vedere come funziona. Va premesso che in termini di rischio di contagio l’autobus è quarto solo dopo una gang bang in una tualétt pubblica di una stazione ferroviaria, ventiquattr’ore di reclusione in una funivia piena di persone sospesa sopra il baratro e una conferenza stampa della Regione Lombardia. Ecco, poi c’è l’autobus. Bene, mi accingo a prenderlo e scopro che, in effetti, le corse sono diminuite di parecchio: da una frequenza di circa quindici minuti, linea centrale e frequentata, siamo passati a una corsa ogni ora. Ovviamente a me mancano cinquanta minuti, aspetto. Nel nulla e sotto la pioggia. Beh, che esperienza piena sia, a questo punto. Non proprio sotto, devo essere onesto, per fortuna c’è la pensilina, la quale ha, però, tre sedili coperti e due di quelli sono interdetti, perché troppo vicini, quindi c’è solo un posto. E noi, osservo ora e la cosa diventa più rilevante di prima, siamo in due. Va bene, cedo il posto alla signora ma la distanza regolamentare mi imporrebbe di stare fuori, sotto la pioggia. Ecco, preferirei di no, non ho nemmeno l’ombrello e, quindi, trasgredisco ma mi giro di spalle. Poi, arriva l’autobus, e siccome siamo vicino a un capolinea è praticamente vuoto. Prima, le porte: quella davanti è off limits, è dell’autista e non si apre più; quella al centro è per la discesa e quella dietro per la salita. I posti a sedere utilizzabili sono otto, tutti gli altri hanno un bell’adesivone rosso che avverte tassativo. I posti in piedi sono sette e anche in questo caso c’è un adesivo blu che dice dove si deve stare. Ergo, la portata dell’autobus è quindici persone più l’autista. Dice la regola: se l’autobus è pieno, non si deve salire. Prima obiezione, naturale: da giù, dalla fermata, l’autobus non sembra pieno, sembra un autobus con quindici persone che, rispetto alla capienza normale di settantacinque sono, realmente, pochine. Quindi, a uno gli viene di salire. Seconda obiezione: piove. Terza obiezione: è un’ora che si aspetta. E se non si piglia questo, tocca aspettarne un’altra. Risultato delle tre obiezioni? La gente sale lo stesso. E, onestamente, capisco. L’autista quindi che può fare? Se ha contato bene e siamo pieni e nessuno, dico nessuno, deve scendere, può saltare la fermata e far finta di non sentire i bestemmioni. Ma se qualcuno lo costringe a fermarsi per scendere, allora la gente sale, non c’è niente da fare. Ed è proprio quello che avviene: in poche fermate siamo più di quelli che dovremmo essere, sale addirittura un gruppo di otto amici che ci portano immediatamente nell’iperuranio della trasgressione. Così non funziona.

Tra l’altro, per chiudere il capitolo autobus, pare che a Milano dai primi test sia risultato positivo il 60% degli autisti. Più che nelle residenze per gli anziani. Non scherzavo, all’inizio, sul grado di pericolosità, almeno fino a due mesi fa.
Silvia Romano è tornata, spero non faccia troppo caso ai commenti di molti dei suoi scellerati connazionali, di sicuro adesso c’è bisogno che qualcuno le dica che Conte non è il Conte di prima, ora è diventato buono, ha fascino e non è più amico di Salvini. E chissà se si sarà chiesta che ci faceva Di Maio a Ciampino ad accoglierla. Perché intervistano il ministro dello sviluppo economico sulla mia liberazione? Mah. Nel frattempo, i governatori di tredici regioni di centrodestra hanno intimato al governo di emettere le linee guida per le riaperture entro mercoledì, oppure faranno da soli. Ovviamente è una mossa furbastra, perché intende far ricadere sulle lungaggini e le incertezze del governo la responsabilità della situazione attuale quando, invece, le magagne sono locali e certe Regioni non dovrebbero aprire proprio. Lombardia, Piemonte e magari Liguria, per fare i nomi. Il governo, che non sta a guardare, reagisce dicendo sì alle riaperture il 18 ma differenziate, a seconda della regione, e cala un asso in più, relativo alla comunicazione: da giovedì prossimo i dati sull’epidemia verranno diffusi al grande pubblico regione per regione, così ben si capisce chi sta messo meglio e può riaprire e chi no. Chi saranno i cattivoni? Si prevedono, ed è facile, ricorsi e diffide. Perché il messaggio è davvero chiaro: cari governatori, non si può fare ciò che volete fare. E la colpa è vostra.
I contagi pare non interessino più granché.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 65

  1. Il fascino discreto del test sierologico

    Continua l’epopea lombarda dei test sierologici. Quando saranno disponibili, a pagamento per aziende e privati, sembra che verrà deciso domani con una delibera della Giunta regionale. Dalle “indiscrezioni” che trapelano, da prendere quindi con le dovute cautele, sembra che a chi risultasse positivo (cioè a dire a chi risultasse essere entrato in contatto col virus in passato) sarà imposta la quarantena fino a quando un tampone non ne attesti l’intervenuta, attuale negatività.
    Meccanismo del tutto ragionevole, verrebbe da dire, qualora i tamponi fossero effettuati contestualmente, nello stesso laboratorio di analisi dei test sierologici, a tutti i soggetti che risultassero positivi. Se il risultato dei test sierologici fosse pressoché istantaneo, come sembra per lo meno per alcuni di essi (quelli basati sul sistema del “pungi-dito” o sulla saliva, dove l’esito si può constatare immediatamente o comunque entro pochi minuti; se si tratta di analisi del sangue ovviamente la procedura si allunga), i negativi sarebbero subito “rilasciati”, mentre i positivi sottoposti su due piedi al tampone, rimandati a casa in quarantena obbligatoria e avvisati il giorno seguente dell’esito del tampone medesimo. A questo punto, la maggior parte di loro verrebbe “liberata” nel giro di ventiquattro ore con la buona notizia di averla scampata senza neppure essersene accorti; la più ridotta percentuale dei tuttora positivi resterebbe in quarantena, ma almeno per una buona ragione, e con costante monitoraggio fino al prossimo doppio tampone negativo.
    Fosse tutto così congegnato, si potrebbe pensare addirittura di rendere obbligatorio il test sierologico per tutti coloro che, per professione, si trovino in contatto col pubblico o comunque nella necessità di interagire più frequentemente con altre persone. Pensiamo ad esempio ai lavoratori in una fabbrica, ai negozianti, al personale sanitario, agli insegnanti e via dicendo. Certo, il test rivela qualcosa soltanto del passato e anche coloro che risultino oggi negativi non per forza lo saranno anche domani; e, per quanto concerne i positivi al test sierologico (i malati, magari del tutto asintomatici, di ieri) nel frattempo negativizzatisi (negativi al tampone di oggi), a quanto pare non verrebbe garantita alcuna “patente di immunità” poiché è ancora discussa tanto la possibilità di tornare a contrarre il virus, quanto la durata dell’ipotetica immunità. Anche al netto di queste considerazioni, tuttavia, si tratterebbe di un bel passo in avanti in termini di sicurezza anche solo statistica e si eviterebbe di reimmettere in circolazione quella categoria dei positivi asintomatici che evidentemente costituisce – non per sua colpa, evidentemente – il vettore di contagio più “subdolo”, poiché completamente invisibile.
    Tutto il meccanismo, tuttavia, sta e cade con la rapidità, o addirittura con la contestualità, della procedura. Se, ad esempio, e tutto fa pensare che sia proprio l’esempio della Lombardia, non si riesce ad assicurare un rapido tampone a tutti coloro che effettuano il sierologico, ecco che immediatamente scema anche il fascino del test sierologico. Anzi, si verifica il più classico degli effetti boomerang: per paura di finire (se positivi al test sierologico) in quarantena a tempo indeterminato (in attesa di un tampone che non arriva), la gente (che può e che sarebbe anche propensa a farlo per maggiore sicurezza sua e del prossimo) preferisce non sottoporsi al test onde evitare una restrizione non proporzionata della sua libertà, a partire da quella lavorativa soprattutto per coloro che hanno meno tutele dal punto di vista economico.
    Risolvere in modo intelligente questo problema sarebbe il primo passo per invertire il trend che continua a vedere la Lombardia come fanalino di coda nella gestione di questa emergenza. Siccome – chi mi conosce lo sa – continua ad essere un “inguaribile ottimista” confido in un miracolo!

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