e buona notte

Anche quest’anno il cinque dicembre morì Mozart.

Perché lo ricordo? Certo, per la grandezza musicale, ovvio, che però capisco fino a un certo punto, ma per molti altri motivi: fu genio e deficiente insieme, innovatore, progressista, libero pensatore e libero professionista in un’epoca in cui accasarsi a corte era l’unica via, innovò magistralmente, ne ebbe meriti e ne pagò le conseguenze. Un uomo profondamente libero, di quelli che piacciono a me.

«La gente si profonde in complimenti e tutto finisce lì. Mi si prenota per questo o per quel giorno; io suono, mi sento dire: – Oh, c’est un prodige, c’est inconcevable, c’est étonnant! – E buona notte».

oggi, novantotto anni fa

Alle 7:15 del primo dicembre 1923, la diga sul fiume Gleno crollò. Sei milioni di metri cubi di acqua scesero per la valle, trascinando con sé qualsiasi cosa sul proprio percorso, arrivando al lago d’Iseo quarantacinque minuti dopo. Le vittime accertate furono 356 ma il numero è incerto.

I motivi del crollo furono sempre quelli: materiali scadenti, cambio di progetto in corso d’opera, un azzardato arco di diga – quello crollato – nemmeno aggrappato alla roccia, il profitto, in paese raccontano che molti che vi lavoravano portarono via le famiglie dal paese dritto dritto sotto, Beggio, ben prima del crollo. Forse son cose che si dicono sempre, dopo, o forse no. La diga è lì, cioè quel che ne resta, il posto è molto bello e la foto è mia, dell’autunno scorso.

la storia dell’ignoto

Un agosto rovente di alcuni anni fa davo soddisfazione alla mia passione per Attila e Aquileia lungo le banchine del porto fluviale. Un amore di lunga data, sia per l’uno che per l’altra, espresso sia lungo i cipressi che portano alla basilica patriarcale che per le strade della Pannonia alla foce del Danubio alla ricerca della leggendaria tomba. C’ero stato molte volte ad Aquileia, fin da ragazzino, quelle colonne in fila dolce e militare insieme mi dicevano che la città era stata grande, e potente, e ancora giaceva, e giace, sotto terra, perché si vedon le gobbe nei prati che quello dicono, cioè che c’è storia, là sotto. Mentre quel giorno mi immaginavo le attività di un porto di una città importante, figurando favolose navi da trasporto con poco pescaggio cariche di anfore e di marmi e di chissà quali lingue e culture, e mi godevo prosasticamente le cicale all’ombra della cattedrale, un vecchio uomo mi fece segno di seguirlo e mi raccontò una storia.

Mi fece vedere un piccolo cimitero, dietro la basilica, con una ventina di croci bislacche di ferro battuto, storte e dimenticate, e mi disse che lì, appena dopo la guerra, quella grande, una madre afflitta dal dolore scelse un corpo tra quelli lì deposti perché lo mandassero nella capitale, tra grandi trionfi, ad aver sepoltura circondato da fiamme perenni, da guardie instancabili nel più grande altare che l’uomo del novecento aveva saputo costruire in Italia.
Ed era vero.

La mattina del 28 ottobre 1921, e son cento anni tra poco, Maria Bergamas, madre di un soldato disertore dell’esercito austriaco disperso chissà su quale campo di battaglia sul Cimone, dovette scegliere tra undici bare contenenti le spoglie di altrettanti soldati non identificati quelle che sarebbero state poi portate a Roma, a far da milite ignoto. La cronaca ufficiale racconta che le bare furono disposte nella basilica, davanti all’altare, il che è vero perché abbiamo le foto, e che la donna «chiamando per nome il suo figliolo, cadde prostrata e ansimante in ginocchio, abbracciando con passione quel feretro» dice Augusto Tognasso nel suo Ignoti militi del 1922, forse enfatizzando un filo il senso del dramma della povera donna. «Il rito era compiuto», conclude lo scrittore senza far diminuire il pathos.

Le spoglie furono sistemate su un treno funebre, com’era stato alcuni decenni prima per Lincoln in America e sarebbe stato poi per Robert Kennedy, là, o Margherita di Savoia qui pochi anni dopo. Il treno, spesso a passo d’uomo, attraversò l’Italia fino a Roma, sfilando tra ali di veterani, vedove e orfani, finché la bara non fu poi deposta, con grandi onori, all’Altare della Patria il 4 novembre 1921, concludendo un’enorme liturgia nazionale che di fatto poneva onore e fine alla prima guerra mondiale e ai suoi seicentomila caduti. Dei duecentomila dispersi, uno a simboleggiare tutti, il milite ignoto, il «corpo mistico» che incarnava i morti di tutti, come ha scritto Laura Wittman.

Il copione era scritto, ogni dettaglio deciso: il treno avrebbe dovuto sostare non più di cinque minuti nelle stazioni piccole, di più in quelle grandi, i prefetti avrebbero dovuto garantire le folle plaudenti e piangenti, la sepoltura, colpo di genio, a fianco del padre della Patria Vittorio Emanuele II, facendo di fatto del Vittoriano il luogo della memoria nazionale. Copione non a caso, fu davvero tutto scritto perché di quei giorni ne fu girato un film di settantasette minuti, Gloria. Apoteosi del soldato ignoto (visibile integralmente qui), che fu poi proiettato in tutte le sale del regno, che erano già in gran numero. Alla cerimonia, tutti in prima fila, assenti solamente gli sconfitti, Cadorna, gli irregolari, D’Annunzio, coloro che temettero di far seconda fila, Mussolini. Tra pochi giorni, un treno storico ripercorrerà il percorso, giungendo a Roma il 2 dopo centoventi tappe, proprio come allora.

Trent’anni dopo quel 1921, la retorica patria per quanto oramai repubblicana ma sempre assetata di riti e di cerchi che si chiudono, esumò il corpo di Maria Bergamas e la seppellì nel cimitero di Aquileia, quel piccolo e povero sepolcreto dietro la basilica da cui era cominciato molto di questa storia e insieme a quei dieci militi ignoti che non erano stati scelti per la gloria, diciamo eterna anche se nel nome dell’ignoto.

ah, che meraviglia l’assennatezza

Già Tucidide, alla vigilia della guerra del Peloponneso, individuava nell’uso ingannevole della parola il sovvertimento della vita civile: «pretesero persino di cambiare la consueta accezione delle parole in rapporto ai fatti, sulla base di ciò che ritenevano giustificato. La temerarietà sconsiderata fu ritenuta coraggiosa solidarietà di partito; la prudente cautela, speciosa vigliaccheria; l’equilibrio, ammantata codardìa; l’assennatezza in tutto, inerzia verso tutto; l’impetuosa impulsività fu accreditata a un temperamento virile; il riflettere con calma, in nome della sicurezza, a suadente, pretestuosa riluttanza» (La guerra del Peloponneso 3, 82, 4).

Da un ottimo librino di Ivano Dionigi, Osa sapere, che mi sento di consigliare caldamente, una boccata d’aria in questi tempi di pochi pensamenti.

ancora Bologna, ancora il due agosto (e son quarantuno)

È di nuovo il due agosto, come scrivevo l’anno scorso molto sappiamo della strage, degli ambienti in cui maturò, di chi vi prese parte.

Oggi sappiamo qualcosa di più anche sui mandanti, sebbene sia l’ambito ancora più oscuro, e la situazione è in movimento: è di qualche giorno fa la deposizione dell’ex-moglie di Bellini che ne ha smontato l’alibi, arrivò a Rimini molto più tardi, quella mattina, e il volto che appare nel video in stazione è il suo. Quell’alibi che gli permise di uscire dal processo e che invece, ora, lo fa rientrare a pieno titolo come quinto uomo.

Si ricorda e si continua a cercare, ogni pezzo in più è un piccolo riconoscimento alla memoria dei morti, almeno si sappia come e perché, che i colpevoli paghino.
E a questo punto dovrebbero entrare in gioco gli storici, ce n’è bisogno.

quarantasettesimo ventotto maggio

Quarantasettesimo anniversario della strage, anche oggi in piazza.

Una giornata di sole che, nonostante la ricorrenza, dà un tocco in più al fatto di poter essere in piazza, di poterci vedere, mascherine permettendo, di riunirsi insieme. La piazza è recintata e gli inviti a non entrare sono numerosi ma si può farlo lo stesso, la situazione è diversa dall’anno scorso quand’era presidiata dalla polizia. Come è sempre stato, chi ricorda e vuole ricordare, c’è. E stavolta si è anche contenti di incontrarsi.

il 23 maggio ventinove anni fa

Capaci, uno dei giorni più neri dei miei vent’anni.

Impossibile da credere, ancora. Disse Paolo Borsellino: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti. Uno che si è messo in testa, niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».