come attorno alla fisiognomica mi sono venute in mente alcune cose

Vorrei citare un’arguta frase ma, come mio solito, farò il giro lungo.
È che è tutto concatenato. Cominciamo (vediamo se mi viene di raccontarla alla maniera di Lucarelli, almeno all’inizio). Nel 1878 un giovane uomo, non ha nemmeno trent’anni, lascia il suo paesino in Lucania per andare a Napoli. In tasca ha un coltellino corto, una lama di forse quattro dita, nemmeno, e poco altro. A Napoli vuole vedere il re, che sta facendo il giro delle città d’Italia per farsi conoscere: infatti, Umberto è appena succeduto al padre, morto da poco, ed è accompagnato dalla regina Margherita e dal figlio, il futuro sciaboletta. Il 17 novembre, sia la famiglia reale che l’uomo sono a Napoli. In tasca ha sempre il coltellino e il suo nome è Giovanni Passannante ed è un anarchico. (Suono).
Poi, succede qualcosa.
Un’altra sce… D’accordo, la smetto con Lucarelli. Durante il corteo, Passannante assale il re, riuscendo a ferirlo di striscio, mentre la regina grida: «Cairoli, salvi il re». Eh, beh, se solitamente la regina la salva Iddio… La storia è nota, Passannante viene catturato, ancora si specula se con quella lama cortina e sbilenca potesse pensare per davvero di uccidere un altro uomo, seppur Savoia. Io penso di no. Comunque, la storia dell’anarchico attentatore di re l’ho raccontata un sacco di anni fa qui, bisogna scorrere fino al 19 giugno. Qui mi interessa la fine di Passannante, terribile: condannato e commutata la pena di morte in ergastolo – i regicidi o attentatori di re dovevano pagarla carissima – l’anarchico fu sottoposto a un regime carcerario terrificante, in una cella larga pochi passi e alta meno di un metro e mezzo, con una catena pesantissima e, soprattutto, sotto il livello del mare, nella Torre della Linguella a Portoferraio. Acqua salata, per dieci anni, e arrivare a mangiare le proprie feci.

Fu lì che diventò pazzo, non prima. Alla faccia di quel pirla visionario di Lombroso, Marco Ezechia detto Cesare, e la sua fisiognomica dell’accidenti. Per questo, alla morte Passannante fu decapitato, il cervello in formalina per essere studiato e il cranio a confermare le teorie degli eminenti scienziati del tempo desiderosi persino di spiegare il delitto politico con motivazioni pseudoscientifiche. Il cranio e il cervello del povero anarchico finirono poi al Museo criminale di Roma, un museo interessantissimo sia per le pentolone della saponificatrice di Correggio sia perché basato completamente sull’antropologia criminale di fine Ottocento, cioè su una pletora di teorie del tutto sconclusionate. Sono riuscito, per fortuna, a vedere il museo, e con esso i poveri resti di Passannante e gli effetti di Bresci, lui sì regicida, prima della chiusura temporanea del 2016. Seee, auguri.

Per fortuna mia, non so vostra, ho fatto anche in tempo a scriverne una guidina di, ahah, turismo d’inchiesta. Comunque, vengo al punto. Passannante, poverello, morì nel 1910, dopo vent’anni di manicomio criminale. Una passeggiata rispetto a Portoferraio ma, ormai, era tardi. Al di là del fatto politico in sé, le pseudoscienze per cui fu giudicato colpevole furono ritenute prive di fondamento fin dal tempo della condanna dell’anarchico, tant’è che Ambrose Bierce, nel suo spiritoso Dizionario del diavolo del 1911 scrisse alla voce ‘Fisiognomica’:

“Arte di determinare il carattere di un’altra persona esaminando le somiglianze e le differenze fra il suo volto e il nostro, che naturalmente rappresenta il modello di ogni eccellenza”.

Esattamente.
Nel 2007, per la pervicacia e l’insistenza di alcune persone pietose, i resti di Giovanni Passannante sono stati sepolti nel suo paese d’origine, che aveva pure cambiato nome in Savoia di Lucania, in omaggio al re. Il fascicolo giudiziario dell’anarchico è ancora protetto e non si può consultare.
A fianco della Torre della Linguella, la prigione di Portoferraio, ci sono ancora oggi i resti di una meravigliosa e sontuosa villa romana, in posizione invidiabile.

Perché Battiato abbia deciso di intitolare un album eccellente a una scienza così idiota e che tanta sofferenza ha causato, resta un interrogativo senza risposta.

gli anagrammi nascosti nelle lettere di Moro

Medici appassionati di altro. Se il medico Jean-Philippe Postel nel suo Il mistero Arnolfini aveva di certo sollevato considerazioni interessanti sul “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di van Eyck, ne parlavo qui qualche anno fa, l’altrettanto medico Carlo Gaudio pubblica L’urlo di Moro (Rubbettino) nel quale sostiene di aver decifrato degli anagrammi all’interno delle lettere di Moro – il periodo è buono, fino al 9 maggio, per ogni tesi – che avrebbero indicato il luogo della detenzione. Nella lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978 la frase: “Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato” anagrammata darebbe (non mi son preso la briga): “E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”; nella lettera alla moglie Eleonora del 5 aprile Moro scrive: “Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire” e il medico ci legge: “O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini”. Inoltre, secondo lui Moro avrebbe dato un segnale per indicare le frasi contenenti informazioni importanti, cominciandole con il pronome personale “Io”.

Ora. Una persona dotata di malanimo che non avesse letto il libro e che volesse per forza di cose cercare il pelo nell’uovo, potrebbe obiettare che circa il novantatre per cento delle frasi nelle lettere di Moro comincia o ha in iniziale il pronome personale “Io”, pover’uomo, vista la condizione in cui si trovava. Tale persona, se esistesse, potrebbe inoltre obiettare che si stia dando per scontato che Moro conoscesse l’indirizzo della propria prigione, assunzione tutta da dimostrare e, data la dinamica del rapimento, del tutto improbabile. Inoltre, sempre quella brutta persona spinta certamente dall’invidia potrebbe sostenere che qualsiasi frase sufficientemente lunga se anagrammata potrebbe contenere qualsiasi significato, specie se stirato alle proprie esigenze (“p.o uno”, “n.o otto”) e piegata la grammatica dove serve (“essere chiuso prigione”) mentre altrove fila perfettamente ricca di preposizioni. Ma sarebbero cattiverie, forse dettate dall’invidia.

Io, che nulla ho a che spartire con quella persona malanimosa, vorrei ricordare quell’episodio in cui uno scienziato, dico Carl Sagan ma non ne ricordo il nome, potrebbe, uscì con un metro e cominciò a prendere le misure dell’edicola sotto casa, riuscendo a trovare innumerevoli sezioni auree, relazioni proporzionali identiche a quelle delle stelle di Orione, ripetizioni misteriose e numeri infiniti, volendo dimostrare che i misteri delle piramidi di Giza si possono trovare, volendo, ovunque, se dotati di sufficiente pazienza. Sto insinuando che anche in qualunque frase abbastanza lunga si possa trovare il messaggio che si cerca? Io? Ma per nulla, non mi permetterei.

Mi limito a citare, dall’articolo di Repubblica, che un po’ sta sul dubitativo, “Il gioco di Carlo Gaudio”, “La teoria di Carlo Gaudio in un libro”, poi si spinge un po’ in là, “A risolvere il puzzle provvede adesso un libro”, e poi sbraca alla grandissima: “Eppure nessuno seppe – o volle – decrittare le sue lettere”. Eddai, ecco servito il retroscena col complotto, che alla fine è la storia del sequestro Moro da sempre. Che poi Moro fu rapito da Moretti su incarico di Cossiga e tenuto al ghetto, lo sanno tutti.

il Po di Segre

A un certo punto, alcuni mesi fa, mi son detto che era ora di andare a capire un po’ di più questa cosa del delta del Po, metterci dentro il naso, i piedi e se possibile la testa, anche. Di conseguenza, anche vedere di persona i luoghi dell’alluvione del Polesine, eran settant’anni a novembre, vedere per capire, dare un luogo e un contesto alle uovone di pasqua viste nei bar per anni che facevano sottoscrizione per gli alluvionati, appunto. Chissà dov’era, ’sto Polesine…
Per lo stesso motivo sono andato qualche sera fa a vedere Po di Andrea Segre.

È un documentario, come si intuisce fin dalla locandina, sull’alluvione del Polesine del ’51. Tra filmati Luce e filmati, se ho ben capito, della famiglia stessa del regista, si succedono i racconti di alcuni testimoni diretti della tragedia, oggi tutti attorno agli ottant’anni e allora ragazzini. I racconti sono per forza di cose per buona parte poco articolati, nel senso che sono ricordi di piccolini, immagini, racconti saputi dopo, vicende chiare ma frammentarie, il regista è bravissimo a farli scorrere con naturalezza, senza intervenire o interrompere o tagliare. Per dare un’idea della miseria scannata al tempo, uno di loro, estroso e leggero nonostante gli argomenti, racconta di quando il padrone delle terre attorno, un veterinario, uccise un vitello ammalato di difterite, orrenda malattia trasmissibile all’uomo, gli tagliò la testa e la fece gettare nel letamaio. La madre di chi racconta, poiché mancavano pochi giorni a pasqua, andò a riprendere la testa, la pulì, la gettò in un pentolone ed ecco il pranzo della festa. Ciascuno faccia i propri conti.
Ecco, a voler dire proprio qualcosa, l’intento è archivistico, raccoglie giustamente delle voci che spariranno, e il regista si eclissa dietro alla sequenza di racconti, senza imprimere una direzione al documentario o voler portare il ragionamento da qualche parte specifica. Il che è certamente un bene dal punto di vista della memoria, dall’altro Segre ha ormai le spalle larghe e potrebbe, forse, aggiungere del proprio con vantaggio di tutti. Belle le immagini e la fotografia, per noi innamorati del Po – siamo molti e sparsi, quando ci incontriamo ci riconosciamo – è un documentario da vedere.

Un racconto di un superstite che mi ha commosso, lo riporto a memoria. Dice: nel mio giardino, ora, ho una vasca; qualche tempo fa ci è cascato dentro un uccellino, affogando. Da allora, continua, lascio sempre un pezzettino di legno galleggiare, così che ci si possa aggrappare. Perché se i miei avessero avuto un pezzo di legno cui aggrapparsi, allora, sarebbero scampati.

finalmente, di nuovo la festa più bella

Dopo due anni, finalmente di nuovo in corteo. Non eravamo andati via ma non ci siamo visti, non si poteva. Oggi sì, la Liberazione, e io non vedevo l’ora. Buon 25 aprile a tutti, a chi sarà in piazza e chi a casa, anche a chi pensa che sia un giorno di vacanza e basta. Alla fine, son stati liberati pure quelli.

[Aggiornamento post: manifestazione un po’ spentina, nonostante i due anni di pausa. Il pensiero della guerra aleggia ovunque ed è occasione, in diversi punti del corteo, di discussioni anche aspre. Intervento sì, con armi, no, pacifismo. A un certo punto una contestazione tra brigata ebraica, gruppo con bandiere NATO, gruppo con bandiere americane, qualcuno di Rinfondazione, prende una pieghetta urlazzata, gli animi son tesi. Poi arriva il PD e mette tutti d’accordo, come sempre: insulti a Letta].

la musica delle stagioni, inverno 2021

Stavolta sono andato lungo, le cavallette la tintoria, le solite balle, rimedio subito. È finito l’inverno da un mese e io non ho ancora postato la mia pleilista della stagione, nonostante le pressantissime richieste, non dico la pressione cui sono sottoposto. No, non la dico. Comunque, nel trimestre sono uscite cose buone, sia di artisti noti che di esordienti, ne dò conto qua e là nei generi che mi piacciono, chiaro. Poi, come sempre, scappa dentro qualche classicone che è proprio un peccato lasciar fuori. The rover dei Led Zeppelin basterebbe a dirlo, ed è seconda. Col ritardo accumulato, son già a diciotto con quella della primavera, qui le stagioni volano.

Ed ecco il comodo riepilogo delle diciassette stagioni, tutte quante, altro che Sentieri:

Eccole, tutte: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore) | autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore) | primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) |

In totale più di novantasei ore, la durata esatta che servirebbe per andare da piazza San Pietro a Capo Nord e ritorno in auto, traffico norvegese permettendo. Non è comodo? E le belle copertine? Eccole.

Solite regole e princìpi, un nome solo a pleilista, un brano solo cadacranio, niente laiv. Ma i princìpi stan lì proprio per esser trasgrediti, o no? Oh, se qualcuno – il signore lo voglia! – si diverte, me lo dica. Non mi offendo.