Sulla Narva, il fiume al confine tra Estonia e Russia, ci sono due fortezze che si guardano in cagnesco da secoli, Narva e Ivangorod. Lo raccontavo in un minidiario l’anno scorso, il posto è notevole di suo e ancor più oggi con le tensioni russe, visto che è l’unico confine pedonale attraversabile tra Russia ed Europa. Ecco qui, sul lato Narva, in occasione della festa russa del 9 maggio oggi per la vittoria contro il nazifascismo, qualcuno ha appeso un manifestone dritto sulla faccia di Putin e russa:
Propastop.org è un blog indipendente estone che si occupa, appunto, di propaganda e di tutelare lo spazio informativo estone. Bel tiro, Putler apprezzerà sicuro, chissà come gli rode. Hitlin non era un granché, in effetti.
Ma non a tutti, solo ai buoni, di spirito e di azione. Gli altri, per fortuna, la primavera se li porterà via, come l’altra volta. Magari non questa, spero la prossima.
Tra gli edifici inglesi costruiti in stile art nouveau uno dei più significativi fu disegnato da Albert Nelson Bromley a Nottingham per Boots the Chemist, prima una modesta farmacia che vendeva decotti e poi un’enorme multinazionale ancora esistente. L’edificio, del 1902-05 tra High e Pelham Street, fu venduto nel 1972 e ora è di un’altra nota multinazionale.
All’interno sono ancora visibili le colonne in ferro, in stile anch’esse. Le delicatissime colonnine di legno tra le vetrine sono notevoli e ancor di più è che si siano salvate. Non solo il negozio è gradevole ma l’edificio tutto, di interesse storico di secondo grado.
Partendo da Nottingham, appunto, poi Bromley fece molti negozi per Boots the Chemist in Gran Bretagna, diventandone di fatto l’architetto di fiducia. Boots è ancora un colosso e la si ricorda, tra le altre cose, per aver sviluppato l’ibuprofene negli anni Sessanta.
Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato «Mister» in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso in aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d’America che ero abituato a vedere. Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.
È il Rutger Hauer delle crociere caraibiche. Comincia così, o quasi, un librino molto piacevole di David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, 1998. Sono ormai vent’anni e più che con gli amici ce lo siamo scambiati, l’abbiamo regalato a ogni natale e ricorrenza, l’abbiamo consigliato, riletto, perso e ricomprato. A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again è un reportage di Wallace che fu ingaggiato da Harper’s e spedito sulla Nadir per una crociera di sette notti ai Caraibi allo scopo di trarne un racconto a puntate in cui, mirabilmente, descrisse aspetti del viaggio, trasse considerazioni sociologiche, raccontò le proprie reazioni a una situazione, complessivamente, ridicola e assurda. Il librino è divertente e piacevole e intelligente insieme, le note a piè di pagina sono, in effetti, un secondo libro. La traduzione, notevole, è di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo.
Oltre al libro, c’è l’audiolibro, anzi due. Quello cui mi riferisco ora è il più vecchio ed è letto magistralmente da Paolo Pierobon e si trova qui su RaiPlay Sound, con un’intonazione di voce bassa e costante che richiama il galleggiare placido di una meganave al sole, con lo stordimento che una crociera a base di spiedini di frutta può dare. È un vero spasso e, se possibile, direi che aggiunge pure qualcosa al già pur eccellente libro, consiglio molto caldamente. Magari indossando una larga camicia a tinte forti. Lunedì mattina ho sbagliato strada almeno tre volte, assorto nell’ascolto della dimensione esistenziale dello scarico a risucchio delle navi da crociera ed ebete come un crocierista dopo la prima settimana. Ne esiste, infine, un altro audiolibro registrato in tempi appena più recenti da Giuseppe Battiston per un’altra compagnia, però non l’ho sentito.
Discuto con un mio amico al bar, io sostengo che piazzare satelliti a iosa attorno alla terra da parte di un privato – Musk con Starlink – sia un atto di pirateria bella e buona, occupando senza regole uno spazio comune e impedendo ad altri di fare lo stesso in futuro, in potenza, lui invece controbatte che se non è proibito, si possa fare. Al di là del fatto che ho chiaramente ragione io, mi viene in soccorso il Presidente Mattarella che, in uno splendido discorso tenuto a Marsiglia un mese fa in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, vale la pena leggerlo (è in francese solo all’inizio, cortesia), si esprime su molte questioni di grande attualità e sostanza, dimostrando una volta di più di essere l’unico statista rimasto in questo cavolo di paese e che il tempo ce lo preservi. In particolare, riporto un passaggio sulla questione iniziale:
Accanto a questa nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale, si riaffaccia, tuttavia, con forza, e in contraddizione con essa, il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo e che la mia generazione ha combattuto.
Tema cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche.
Ricordiamoci cosa detta l’Outer Space Treaty all’Art. II: “Lo spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione da parte degli Stati, né sotto pretesa di sovranità, né per utilizzazione od occupazione, né per qualsiasi altro mezzo possibile”.
L’età moderna è stata caratterizzata dalla “Conquista”, di terre, ricchezze, risorse.
Che bravo, Mattarella, un marziano in questi tempi miseri. Come il Berlinguer del film di Segre, peraltro.
«Finché vivi, mostrati al mondo, / non affliggerti per niente: / la vita è breve. / Il tempo esige infine il suo tributo».
Questo è il testo della canzone più antica del mondo. Ed è un testo saggio, «non affliggerti per niente», come dicono quelli che hanno capito il senso. Perché poi, comunque, il rendiconto arriva, afflizione o meno. Il testo è inciso su una stele, il cosiddetto ‘Epitaffio di Sicilo’, databile tra il secondo prima e secondo secolo dopo cristo, non c’è concordanza. La cosa interessante è che il testo, distinguibile in epigramma, epitaffio e dedica, riporta sopra la notazione musicale frigia, fatta di punti, parentesi orizzontali, trattini orizzontali e verticali, così:
Il che, translato da chi lo sappia fare, diventa nella notazione moderna:
che ci porta al poter suonare la canzone più antica del mondo. Completa, bisognerebbe dire, perché esistono frammenti anche più antichi. Eccola, poterla ascoltare è a dir poco emozionante, per chi si emoziona:
Oddio, completa: a voler essere pignoli ne manca una riga, perché il disgraziato scopritore, un tal Edward Purser proprietario di una ditta edile che scavava a scopo ferrovia nel 1883 ad Aydın, in Anatolia, pensò bene di portarsela a casa come portafiori e siccome non stava bene in piedi ne taglio un pezzo alla base. Bravo. Poi l’archeologo William M. Ramsay, meritorio, con un paio di passaggi rintracciò la stele e se la portò via al museo, dove è ancora visibile, a Copenaghen.
Il testo completo: l’epigramma «Un’immagine, la pietra, / [io] sono; mi pone / qui Sicilo, / di un ricordo immortale / segno durevole», cui segue l’epitaffio di stampo oraziano, «Finché vivi, mostrati al mondo, / non affliggerti per niente: / la vita è breve. / Il tempo esige infine il suo tributo» e, infine, la dedica «Sicilo [, figlio] di Euterpe», se si accetta l’interpretazione della musa. Detta così sembra una delle mie traduzioni al liceo, gli achei, i tronchi posarono la spiaggia, ecco la sera. Certo. Prenderei l’epitaffio e lo terrei per buono, questa musica che proviene dalla notte dei nostri tempi e da un noi lontanissimo qualcosa ci dice, ci suggerisce un atteggiamento, un approccio che vale la pena fare proprio, perché è un po’ l’unico ad avere senso.
Tre cose tre, semplici semplici, da fare a Edimburgo arrivando tardi la sera, ovvero livin’ like a scottish. Microguida con le immagini che è più semplice. Prima cosa, precipitarsi al pub, scegliendo possibilmente uno tra i grandi classici.
È vero che dopo le otto le cucine sono chiuse ma la birra c’è e qualche nuts o crisps da metterci insieme si trova sempre, con quei gusti aceto-rognone che hanno loro. E poi ci sono le persone, che due chiacchiere appena arrivati sono un’ottima accoglienza. Anche se in prima battuta non si capisce una vera fava, storpiando loro qualsiasi termine vagamente vicino all’inglese oxfordiano. Ma poi si avvia. Seconda cosa: scegliere, se possibile, un albergo all’altezza. Che vuol dire non necessariamente caro, anzi può essere una stamberga, ma che abbia carattere. Io l’ultima volta, un anno fa, sono arrivato tardi, non c’era molta scelta, e ho fatto il signore. Dopo le pinte, dunque, ho salito le scale per farmi la finta che io abbia una vita sana.
E in tema sono arrivato nella mia camera-biblioteca. Estasiato da cotanto sfoggio british, ho poi tommasianamente controllato, non poteva essere vero.
E infatti, costole tagliate a un centimetro, per fare la libreria tutta uguale, ikeanamente. Non smettendo di ridere, mi sono accostato ai dettagli, alla lampada-macchina da scrivere, di grande eleganza e ho scritto alcune cose ben illuminate, immaginando che Safran Foer sia stato qui.
Sul tavolo tipografico ho trovato la rivista che si confa al posto, la rivista sui castelli scozzesi, ovvio. Con ben diciassette pagine di ispirazione per i matrimoni in salsa highlands. Tutto come si deve, per fortuna.
Fortuna avevo il mio ereader che in quella stanza-biblioteca non c’era un libro nemmeno per caso e così mi sono addormito felicemente, sognando brughiere e mastini dagli occhi di brace. Finalmente mattina ed ecco la terza cosa, compimento delle dodici ore notturne a Edimburgo della guida: la colazione. Questo posto sì, lo segnalo, in centro e sgangherato e fantastico per questo: lo Snax cafè, gestito da sbrigative ragazze scozzesi, pronte a spaccarti la faccia se esiti appena appena.
Bellissimo. E avanti con la full scottish breakfast, che a differenza dell’english, fuck!, ha link e lorne sausages, speziate che poi ti chiedi perché? ma al momento avanti tutta, black pudding, niente scones fighetti ma un panino intero buttato lì così, poi i classici: fagioli, uova, patate, quello sì il tattie scone, bacon ma a fettazza spessa. Perché siamo scozzesi.
Bene, tutto fatto. Poteva essere una notte più eccitante e movimentata, certo. Ma per quello ci sono le guide apposite, la mia è quando arrivi tardi e non si riesce nemmeno a cenare. Fatte queste, è mattina, la colazione dei campioni si è fatta ed Edimburgo è tutta da girare.
Magari facendo un salto dentro quell’edificio lungo e basso a destra, che c’è la venditrice di uova di Velázquez da vedere. Ed è gratuito, perché in quell’isola i musei sanno farli girare, perdio.
Ecco, questo è un caso in cui nemmeno la mia fantasia più sfrenata riesce a raccapezzarsi:
“Ribelli” perché pure scismatiche, come servisse aggiungere elementi.
facciamo 'sta cosa
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