minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: quattro, incontri

Qualche giorno fa, mentre camminavo tra i petroglifi del Gobustan pensando a pitoti, deserto e fuochi notturni, ho colto una voce vagamente familiare, ma più familiari erano gli argomenti – lamentele sul caldo -, e ho visto M., che avevo conosciuta, vedi il caso?, in Patagonia. Ci siamo abbracciati, entrambi stupefatti da tanta coincidenza casuale, stessa ora stesso giorno per venire qui, da non credere. Ci siamo poi salutati, contenti dell’incontro, ottimisti su questo piccolo mondo in cui è possibile rivedersi ai capi di esso e scambiarsi parole gentili. Vedi gli incontri?

Ora sono seduto a un tavolo di Fabrika, luogo industriale recuperato di Tbilisi, con F., esperto della regione e a lungo membro di una missione UE per il monitoraggio dei conflitti in Georgia; con M., armeno docente universitario in Georgia, memoria storica della città e ghost writer di Shevardnadze; con R., polistrumentista e compositore di musica ambient, in viaggio. M. sta facendo uno dei lunghissimi brindisi per cui i georgiani vanno fieri e tutti gli altri appoggiano il bicchiere sconsolati, che devono partire necessariamente con un’invocazione di pace e proseguire con una storia del passato che abbia però una ripercussione sul presente o sul futuro, apprezzo molto nonostante la sete. Si mescolano russo, inglese, pezzi di italiano, qualche termine georgiano e armeno, non sempre ricerco questo tipo di incontri, spesso li rifuggo perché esibizioni di ego tracimanti, oggi no, oggi è stato bello e per questo lo racconto. Girare con loro tutto il giorno per Tbilisi, soprattutto nella parte più frequentata dagli abitanti più che nelle parti turistiche e mondane, è stato particolarmente interessante. Sebbene M. si dichiari ateo di impostazione sovietica, e io un po’ mi accodi, abbiamo visitato decine di luoghi religiosi di ogni tipo di confessione, dalle chiese ortodosse russe a quelle georgiane, alla cattolica di rito armeno, alla sinagoga, alla moschea, manifestazione evidente di una certa tolleranza e libertà. Nella chiesa cattolica romana conosciamo il prete, polacco, e il suo collaboratore pastorale, giovane napoletano che, vedi la vita?, ha lasciato un lavoro in una multinazionale a Torino per venire qui ad assistere le attività della chiesa locale. La Chiesa cattolica armena li tratta con sospetto ostile, ci dice, mal tollerando la potenza del Vaticano. L., altro incontro del giorno, nel brindisi che gli spettava e nella prima parte, l’invocazione alla pace, ha detto: “Che ci sia pace in Italia e in Georgia perché se non ci fosse né io né voi potremmo essere qui e non ci saremmo incontrati”. Il che è a dir poco giusto.

Per parlare degli incontri, non ho menzionato il passaggio della frontiera: a Lagodekhi dopo un doppio controllo azerbaigiano e un lungo corridoio di circa ottocento metri di terra di nessuno, si entra in Georgia. Le mie solite foto di sfroso che prima o poi mi deporteranno.

La differenza salta agli occhi, sia per le condizioni materiali dei due popoli, derelitti gli azerbaigiani perché ricchi di petrolio e gas in ben pochi, più ordinati e mediamente nutriti i georgiani, le strutture rispecchiano le differenze, il paesaggio anche, di qua sono tutte viti e le colline sono verdi di boschi, sono cambiate latitudine e altitudine. E la grafia, oltre alla lingua. Passo da Sighnaghi, detta città dell’amore perché ci si può sposare in venti minuti – e divorziare in trenta -, e scendo a Tbilisi, capitale e concentrazione di metà della popolazione georgiana. Un primo giro notturno nella zona della movida mi dice che la città è in parte un resort per arabi e mediorientali che vengono qui a fare ciò che non possono fare a casa propria. Per fortuna la giornata di domani, da cui ho iniziato oggi il racconto degli incontri, renderà giustizia a questa città interessante, Tbilisi, costruita sull’ansa di un fiume placido e in una gola controllata da due fortezze, una delle vie della seta.

Georgiana, proprio come chiamiamo le loro case nell’est e nord Europa, classicista monumentale e liberty nel periodo zarista, brutalista e modernista nel periodo sovietico di cui permane l’odonomastica, quando non immensa distesa di case basse con balcone di ispirazione persiana, sventrata dai palazzinari attuali senza garbo né tempo né gusto. I reperti fin dal terzo millennio al museo nazionale, gioielli, statue, monili, amuleti, attrezzi sono straordinari, per fattura, ricchezza e numero, buffa la sezione sull’occupazione sovietica, essendo l’URSS, almeno il primo periodo, a completa trazione georgiana, Stalin e Berija per dirne due, i primi due. La statua di Lenin è stata sostituita da quella tutta dorata di san Giorgio che infilza il drago, l’avvenire è ormai un altro.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: tre, ricordati che potresti scivolare

Uno dei maggiori pregi delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi socialisti in generale sono le corriere che, di solito, percorrono i paesi in lungo e in largo. E le loro fermate, varie e solitamente bellissime. Entrambe fanno al caso mio, visto che mi voglio muovere verso nord-ovest, verso la Georgia. Andando verso Şamaxı il paesaggio muta e da desertico si fa campestre e boscoso, i torrenti sono numerosi, compaiono le mucche in mezzo alla strada e i baracchini di frutta a lato della strada. Mangio fichi e melone al mercato, senza sapere mai quando mi sarà fatale e, siccome finora non lo è, proseguo e mangio anche pezzi di baklava con il tè nei peggiori baretti del paese. Che, spesso, sono invece cordiali ritrovi di giocatori di backgammon al riparo di un fico. Com’è prevedibile, uscendo da Baku, il tenore di vita scende radicalmente e tutte le auto diventano Lada o, al massimo, Zigulì, più rare.

Un’altra cosa da mangiare con l’immancabile tè sono le ciliegie bianche immerse nello sciroppo di zucchero o, ancora, la parte bianca dell’anguria macerata nello stesso sciroppo, davvero buona. Che, mi pare, per aprire un bar in Caucaso basti avere una pianta, delle sedie, tavoli e fare del tè. Come i bianchini da noi, monoscelta. Da destra, cioè da nord, incombono le montagne e ogni tanto attraversiamo ampi letti asciutti di ruscelli che allo scioglimento delle nevi diventano di sicuro fiumoni. Il faccione del presidente fa capolino dai cartelloni ogni pochi chilometri, non ha un’aria furba.

La cosa più squadernata sentita finora è questa: un antropologo norvegese, grazie a dio discusso, ha sostenuto a suon di studi accademici la discendenza dei popoli scandinavi dalle popolazioni azerbaigiane di queste zone, documentando la somiglianza delle imbarcazioni e non so quali altri tratti. Se così è, allora gli scandinavi antichi sono andati via proprio tutti, noto, qua son rimasti gli scuri e bassetti. Io e la persona che mi porta in giro oggi ce la ridiamo perché il suo nome, Gulnar, sembra proprio quello di un norvegese vichingo. E invece, magnifico, significa “fiore di melograno”, la pianta simbolo del paese, davvero non male. Altro che norvegesi.

Andando ancora verso nord-ovest, scopro l’esistenza dell’Albania caucasica, niente a che vedere con la destinazione preferita dagli italiani, è bensì una regione storica tra l’attuale Daghestan e Azerbaijan, un tempo tributaria dell’impero romano e poi dei sassanidi. A Nij, un villaggio, incontro alcuni Udì, popolazione erede degli Albani del Caucaso, i quali come i loro avi sono cristiani, parlano una lingua loro e scrivono a loro modo, come già raccontava Erodoto. Mi offrono un tè sotto una pianta di kiwi, con l’immancabile bozzo di zucchero e noci da tenere in bocca mentre entra il tè. Poi mi mostrano la loro chiesa, ortodossa e antica, nell’abside di recente qualcuno ha dipinto un Cristo della Marvel davvero irresistibile ma niente, io rimango più affascinato dagli impianti del gas che nei paesi socialisti sono particolarmente sconclusionati. Ho sempre il sospetto non avessero tutte le tipologie di tubo.

A Şəki, la mia destinazione di oggi, vedo il palazzo reale, magnifico, della dinastia dei Khan di Şəki, un armonioso e sobrio nonché splendido palazzo parallelepipedo né grande né piccolo in cui tutto è fatto nella maniera giusta.

Naturalmente io non so perché i Khan nel palazzo siano tutti rappresentati in piedi sopra dei grossi pesci, dico cose a caso, mi spiegano perché sono scivolosi e chiunque, soprattutto un Khan, deve sapere che è un attimo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: due, cose che escono dalla terra

Fuori da Baku è il deserto, sulla costa impianti di costruzione e manutenzione delle piattaforme petrolifere ed estrattive e delle petroliere, all’interno alcune montagne tozze e piccoli pozzi petroliferi come quelli americani della prima Standard Oil, di legno a torre o quelli a forma di martello, in movimento continuo, piccoli e diffusi. Il venti per cento del gas comprato all’estero dall’Italia, mi dicono, viene da qui, con il gasdotto che arriva in Puglia. E le relazioni tra i due paesi si sono intensificate negli ultimi anni con reciproco vantaggio, in particolare per l’Azerbaijan per spezzare il collegamento stretto tra l’Europa e gli armeni, in nome di una comune appartenenza cristiana. Alla presenza forte degli armeni in Italia su stampa e letteratura, grazie per esempio ad Aslan, l’Azerbaijan ha replicato per esempio restaurando le catacombe in Vaticano, inserendosi quindi nel sistema di relazioni. Ogni spiegazione geopolitica che ricevo qui implica conoscenze della situazione caucasica che non possiedo affatto. La ricerca di questo tipo di rapporti, da quanto capisco, ha causato un peggioramento delle relazioni tra Azerbaijan e la Russia, a Baku si discute se chiudere le scuole pubbliche russe, lasciando solo quelle private. L’incidente in cui i ceceni hanno abbattuto l’aereo azero nel dicembre scorso rientrerebbe in questo tipo di contesto, sarebbe un avvertimento russo.

Viaggio un po’ nel deserto per raggiungere Gobustan, una località in cui vi sono numerose incisioni rupestri molto simili ai pitoti camuni. Per più di dodicimila anni popolazioni locali lasciarono le loro tracce su queste montagne, sfruttando il mare per lunghi periodi molto più alto e rifugiandosi alla bisogna. Le rappresentazioni terminano in coincidenza con l’arrivo degli arabi, nel settimo-ottavo secolo, vista la loro insofferenza all’iconografia. Buoi, barche, donne incinte, donne incinte con attrezzi, serpenti, carri, uomini, omini, cammelli, carovane, le storie si susseguono sulle rocce. Più in basso su una roccia nella pianura si trova un’iscrizione in latino, della dodicesima Legio Fulminata, evidentemente a zonzo per questi deserti, ed è la testimonianza più a oriente che possediamo del mondo romano. Non tanto distante, una zona di vulcani di fango, la terra ribolle di piccoli e medi crateri da cui esce fango e si formano certi coni simili a quelli che facevamo in spiaggia sul bagnasciuga.

Il fango non basta, la terra qui butta fuori un sacco di cose, tra cui gas. Infiammabile. Persino io rilevo qualche connessione nemmeno troppo labile tra questo e la nascita di culti afferenti allo zoroastrismo, ovvero per dirla male culto e custodia del fuoco. Visito un monastero in cui arde una fiamma eterna, oggetto appunto di culto. Poi mi spiegano che con le trivellazioni la pressione è diminuita e, dunque, il gas alla fiamma eterna oggi lo portano col tubo e vabbè, bisogna arrangiarsi. In Iran c’è un altro monastero simile con fiamma accesa perennemente. È invece in Turkmenistan la voragine infiammata, qui i fuochi nel terreno sono piccoli ma frequenti.

È molto bello, già ci sono quaranta gradi all’ombra, avere anche fiamme libere contribuisce al piacere complessivo del contesto. Faccio mia, anzi era già mia, una prescrizione zoroastriana: “Buoni pensieri, buone parole, buone azioni”, ricorda molte altre indicazioni ma la successione è importante. Lascio la penisola di Absheron, sul Mar Caspio, e torno a Baku; quando mi raccontano del genocidio (attenzione!) degli azerbaigiani per mano degli armeni russi nel 1918, comincio ad avere la consapevolezza, più di quanto sospettassi, che questo sia il territorio più complicato al mondo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: uno, da zero a cento in trent’anni

Cammino per il Bulvar, una strada a sei corsie che costeggia il mare e circonda il centro di Baku, che una volta all’anno diventa la zona dei box e del rettilineo del gran premio di formula uno. Stavolta sarà a settembre, le strutture sono già montate. Il mar Caspio, che è propriamente un grande lago salato alimentato dal Volga, porta foschia umida satura e i quaranta gradi portano fiacchezza e rassegnazione. Baku è la tipica città che nell’arco di un decennio è passata dai condomini sovietici e baracche a Zaha Hadid senza passare dal via, firmando il “Contratto del secolo”, lo chiamano davvero così nello specifico museo, per tenersi gas e petrolio e venderlo a British petroleum o a chi ora gli paia. E così da remota città russa piena di raffinerie è diventata una Dubai in cui vive la metà degli azeri, in cui si costruiscono grattacieli a forma di fiamma mescolando zoroastrismo e industria estrattiva, è sorto di recente un aeroporto internazionale che conterrebbe facilmente Linate e Malpensa insieme, una città che guarda appunto un gran premio dalle terrazze e vince le guerre con gli armeni. E dichiara la pace perpetua perché così vogliono i petrolieri. Faccio la foto evocativa tra tradizione e contemporaneità, passato e presente.

Che poi la moschea a sinistra è del 1991, ovvio, prima ce la si sognava sotto l’URSS. L’ottanta e rotti per cento della popolazione è musulmano sciita ma, dicono, essendo poco praticanti, tollerano anche i sunniti, e la moschea lo è. Guardo sospettoso Hafad che mi racconta queste cose e penso che sarebbe il primo posto al mondo in cui ci sia concordia tra loro. Il racconto della tolleranza religiosa è un momento inevitabile in questo tipo di paesi, difficile raccontino i contrasti. Teheran alla fine è a meno di trecento chilometri in linea d’aria passando sul mare, di là. La chiamo Afa, ride quando capisce.

Dall’indipendenza del 1991, l’Azerbaijan ha abbandonato il cirillico, per mia fortuna personale, e adottato l’alfabeto latino. Non che questo favorisca particolarmente la mia comprensione dei dettagli ma insomma, almeno si legge. La città nuova degli ultimi trent’anni, grattacieli e fuoriserie con biondona innestata e Lada ancora scassone, assedia la città vecchia, ancora murata e cresciuta attorno al palazzo della dinastia Shirvanshah. Fino alla fine dell’Ottocento l’aspetto generale della città era quello di un ducato medievale, vie strette, mura turrite, carretti e asini, in vista al mare, una volta molto più alto. Il petrolio poi, con il gas, divenne il fulcro di ogni faccenda, tant’è che perché non regalare un pozzo petrolifero ai figli per natale?

Parte del pacchetto di sviluppo è chiamare un architetto di grido – un’architetto in questo caso – per costruire un museo o un centro culturale così che non passi l’idea che si badi al solo profitto e la popolazione possa averne motivo d’orgoglio. Ed ecco Zaha Hadid per il Heydar Aliyev Center, centrone culturale intitolato al presidente precedente, padre di presidente, ormai carica ereditaria. L’edificio è molto bello ed è museo di per sé, contiene nostre temporanee ed esposizioni sul paese e sul presidente, resto estasiato alla collezione del grande scultore italiano Giuseppe Carta, noto a ogni sincero appassionato di frutta e verdura in formato gigante:

Come gli stilisti italiani all’estero, lui è il Bruno Banani dell’arte contemporanea. Bravo, a ritagliarsi un nicchione qui, in sede così prestigiosa. Non male anche un certo De Souza che recupera la tradizione della commedia dell’arte italiana e dipinge bei quadroni che raffigurano Arlecchino in moto o con la gang. Le persone apprezzano molto l’edificio e io anche, nonostante Carta e De Souza. E poi non c’è come vincere l’Eurovision, 2011, che poi siccome devi ospitare costruisci un bel palazzone per le neomelodie e ti fai un nome in Europa. La repubblica nata dopo la seconda indipendenza, 1991, è repubblica ma non tanto democratica, il modello assunto è quello delle grandi catene di consumo, certe vie sono uguali a quelle di Milano, garantire l’accesso all’acquisto è il fondamento su cui si regge l’edificio sociale. Ho il sospetto che fuori da Baku non sia esattamente così ma vivendo qui poco meno della metà di tutta la popolazione del paese la cosa è perlopiù risolta.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: zero, azero, entro da lì

Il sospetto è, solitamente, un «uomo, bianco, caucasico», armato o non, altobasso, diceva il comunicato via radio. Che poi, quando lo prendono, il «bianco caucasico», significa semplicemente dalla pelle chiara. È un ridicolo residuo ottocentesco delle classificazioni antropologiche di allora che resiste tra noi, specie nei verbali della polizia, caucasoide ed europoide erano troppo complessi. Qualcosa di più interessante: dopo aver donato all’umanità memoria e intelligenza, il titano Prometeo – allorquando Zeus crudele tolse loro il fuoco – incurante delle conseguenze lo rubò e lo restituì agli uomini, ormai sprofondati nelle tenebre della paura e della fame. Come andò si sa, Zeus fece incatenare Prometeo a una rupe, incastonandolo a una colonna, e inviò poi Aithon, una mostruosa aquila, perché gli squarciasse il petto e gli dilaniasse il fegato che, disgraziato, gli ricresceva durante la notte. Prometeo, secondo Eschilo, fu liberato molto tempo dopo da Eracle, che trafisse l’aquila. Il punto, però, è che Zeus decise di incatenare Prometeo nella zona più alta e più esposta alle intemperie e una zona così in Europa vuol dire – e ancor di più lo voleva dire allora – Caucaso, lo raccontano tutti i miti prometeici: con sette cime sopra i cinquemila metri, dall’Elbrus di 5.642 metri al Picco Puškin di cinquemila e qualcosa, la catena del Caucaso è decisamente il sistema montuoso più significativo del nostro continente, lo scoprirono gli alpinisti poco dopo aver inventato la disciplina, vedere Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso di Mummery.

E allora una zona così, il Caucaso, io la devo andare a vedere. I greci la conoscevano bene perché ci facevano commercio, tra mar Nero e Caspio, e quindi non per caso Giasone dovette andare a recuperare il vello d’oro in Colchide, la regione appunto tra le odierne Russia, Georgia e Turchia, conosciuta ma abbastanza remota per mandarci un eroe a compiere un’impresa memorabile. Poi romani, persiani, bizantini, il “Curopalatinato di Iberia”, figuriamoci, arabi, mongoli, timuridi, ottomani, russi, sovietici, come al solito sono passati proprio tutti tranne uno, io. Devo proprio andare.

Mercatore, mi pare di leggere pure un Neapolis, ottimo. Russia sopra, Iran sotto, Turchia a lato, due mari chiusi a est e ovest, la zona promette meraviglie e i reciproci rapporti tra i tre paesi maggiori, Armenia, Azerbaijan e Georgia, che definirei non proprio idilliaci, risentono della compresenza di cristianesimo ortodosso, Chiesa apostolica armena, islamismo sunnita e sciita, con una predominanza qua e là del sufismo, una consistente comunità ebraica, tradizioni religiose locali e forme di sincretismo religioso, oltre cinquanta etnie. Il tutto mescolato rende le frontiere – metaforiche e reali – poco permeabili, per esempio in Azerbaijan non si entra dai confini terrestri, si esce e basta, quindi devo partire da lì. Se si è in possesso di un cognome armeno, anche avendo visti e documenti regolari, si può essere fermati e respinti in ogni momento. Spero non vedano il timbro libico sul mio passaporto. Per restare ai fraterni e sereni rapporti tra confinanti, posso calare sul tavolo, oltre a Russia, Iran e Turchia, come detto, anche Cecenia, Ossezia Settentrionale-Alania, Ossezia del Sud e i territori disputati come Nagorno Karabakh e le exclaves come la Repubblica Autonoma di Naxçıvan. Non sono sicuro di avere esaurito le entità territoriali e statuali, trovo la situazione vagamente intricata.

Dunque, vado. Entrata da Baku, la città sotto il livello del mare, poi si vedrà. Vediamo quanta oltranza riesco a strappare, meno di ferragosto non è negoziabile. Esim, mappe scaricate, visto per l’Azerbaijan, passaporto, carta, due pastiglie-che-sai-mai ed è tutto, bagaglio a mano e via leggeri che meno impicci, fisici e soprattutto emotivi, mi porto da qui e meglio è, finisco stasera Gli armeni di Gabriella Uluhogian e sono pronto al clima steppico semi-arido freddo. E al museo nazionale del tappeto, che si capisce fin da fuori.


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oltre al profilo lui non doveva essere un granché

Al Kunst museum di Vienna mi fermo davanti a un dipinto che non conoscevo, il ritratto di gruppo L’imperatore Massimiliano I con la sua famiglia di Bernard Strigel, pittore imperiale, forse il suo quadro più famoso.

Se da sinistra il primo, profilo inconfondibile, è l’imperatore Massimiliano I, fondatore dell’impero degli Asburgo, il nipote al centro è invece il futuro Carlo V, inconfondibile lui per la masticazione inversa, tipica degli Asburgo fino alla metà del Settecento, maschi e femmine. Ma quella che attira la mia attenzione è la moglie, Maria di Borgogna, unica figlia di Carlo il Temerario e di Isabella di Borbone, tutta a destra.

Lo stato d’animo mi par chiaro. Più verso il pittore o verso la famiglia?

La posa per l’attesa della pittura, o il nipote sui piedi, direi. L’unione fu felice, si racconta pattinassero insieme sul ghiaccio, con lei che insegnava a lui, lei poi cadde da cavallo male male e si ruppe la schiena, fu cosa tragica. L’espressione non ha alcunché di spirituale, è proprio di rompimento.

le parole nella storia

Risorgimento, Fascismo, Classico, Guerra, Comunismo, Occidente, Utopia, Europa, Partito, Terrorismo, Libertà, Democrazia sono le dodici parole complesse che Luciano Canfora approfondisce nel suo podcast ‘Le parole nella storia’, i «termini fondamentali per conoscere e comprendere la storia recente del nostro Paese», promosso da Laterza.

Oltre alla conoscenza condivisa e trasmessa, sia in senso metaforico che letterale, vale la pena ascoltare il podcast per lo straordinario eloquio di Luciano Canfora, come di consueto, perché è un vero piacere sentirlo parlare. Da latinista, utilizza in maniera propria tutta una serie di vocaboli ignoti ai più, me compreso, che è una utile scoperta o riscoperta poter utilizzare e mettere nella propria saccoccia di attrezzi d’espressione, attivando a monte il concetto espresso. Ovviamente il fulcro sono i contenuti, notevoli, la forma è però davvero sorprendente. Checché ne pensi Meloni, lesa «nell’onore, decoro e reputazione», vergogna.

il concetto di ‘espansione inevitabile’

Leggo un passaggio interessante nel saggio di Simona Merlo, Georgia. Una storia fra Europa e Asia, Trieste, Beit, 2017, che spiega le ragioni dell’espansione dell’impero russo in Georgia nel 1801, passaggio fondamentale «nella strategia di rafforzamento della presenza russa nell’area caucasica auspicato dall’entourage di Caterina, in particolare dal principe Grigorij Potëmkin, ispiratore della politica estera della zarina e convinto sostenitore della vocazione euro-asiatica della Russia». Le ragioni sono connesse più al concetto dell’esistenza del paese stesso e all’inevitabilità di tale espansione, legata a fattori di continuità, identità, comunanza e somiglianza, che a impulsi di conquista coloniale:

«La costituzione dell’Impero fu infatti un progressivo allargamento dei territori originari – il nucleo moscovita – secondo quel processo sintetizzato da Vasilij Ključevskij, di “un paese che colonizza se stesso”.1 Privo di frontiere naturali, lo Stato russo avvertì fin dalle sue origini la necessità di espansione come una condizione preliminare alla sopravvivenza. L’ampliamento dei confini riguardava l’esistenza stessa della Russia, non soltanto la sua estensione e potenza. Nel caso russo, a differenza di quanto avvenuto per i paesi dell’Europa occidentale, “la formazione dell’Impero non è succeduta alla costruzione dello Stato, ma l’ha accompagnata”.2 Per tale motivo, come ha messo in rilievo la studiosa Ljudmila Gatagova, all’Impero degli zar non si addice il classico modello di Impero coloniale. In riferimento al Caucaso l’utilizzo stesso del termine “colonia” è quanto mai improprio. La conquista del Caucaso non fu concepita come una campagna coloniale, ma come un’espansione inevitabile verso sud, così come il Caucaso non fu percepito come una colonia dell’Impero zarista, ma come un suo prolungamento, innanzitutto dal punto di vista geografico. A differenza degli Imperi coloniali – ad esempio le colonie britanniche con la madrepatria – Russia e Caucaso avevano continuità territoriale e frontiere comuni. Ciò non significa tuttavia, che l’Impero russo non abbia applicato nei confronti di questa regione politiche di tipo coloniale».

Non che ciò valga come giustificazione, figuriamoci, l’idea dell’espansione inevitabile rimanda a fatti novecenteschi terribili, ma questo discorso chiarisce alcuni aspetti dell’invasione attuale dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, in particolare là dove fin dall’inizio la posizione dell’invasore è stata che quei territori fossero di fatto Russia, il che è ancor più vero, da un certo punto di vista storico, visto che la componente ucraina nella formazione della cultura, letteratura e storia russa è di certo preponderante. Il senso, quindi, riassumendo brutalmente, è – al di là dei fatti che sono innegabili – l’invito a leggerli in un’ottica diversa dalle crude mire espansionistiche con cui in Europa occidentale siamo abituati a leggere questo tipo di azioni politico-militari, in cui non è secondaria la percezione di sé come «terza Roma», e alla luce di queste considerazioni immaginare possibili soluzioni all’attuale conflitto coerenti con le motivazioni scatenanti.

1 KLJUČEVSKIJ, V. O. Russkaja istorija. Polnyj kurs lekcij v 3 knigach. [La storia russa. Ciclo completo di lezioni in tre volumi], vol. 1, Moskva 1993, p. 20.
2 C. Mouradian, Les russes au Caucase, in Le livre noir du colonialisme: XVI-XXI siècles: de l’extermination à la repentance, a cura di M. Ferro, Paris 2003, p. 393.

e nell’inferno urbano di Amman

Se due giorni fa svernavo nel paradiso della Val di Fumo, in mezzo ai cavalli più biondi che avessi mai visto, qui sotto, chissà perché mi è tornata invece in mente la giungla di cemento di Amman, popolata da quattro milioni di persone.

Oltre cento chilometri di diametro a perdita d’occhio, nessun fiume, pochissimi spazi verdi, molta polvere, attorno un carnaio devastato da Israele che, da due anni a questa parte, ha bombardato tutti i paesi confinanti. Eppure è un luogo che ha molto a che vedere con l’umanità, la città esiste da dieci millenni e le prime statue in forma umana della storia provengono da qui.
E, se devo fare un calcolo personale, passo molto più tempo nei posti come Amman che in quelli come la Val di Fumo, nonostante i pini, l’acqua, l’erba, il vento e l’aria fresca, le formaggelle di malga e l’ombra. Evidentemente non bastano.