minidiario scritto un po’ così di un breve giro per verificare se la semiotica strutturale delle origini è ancora praticata: sei, qualche domanda senza risposta, due sciocchezze sul perché del viaggio, per me

Come ogni bella storia di passione, ha da fini’. Sarà il caso che torni a casa, piccole maree nere di liquami si stanno preannunciando al mio orizzonte temporale, pagherò caro pagherò tutto. Ne è valsa la pena? Sempre. Faccio un salto in stazione prima per capire come funziona, che treni devo prendere, fare un biglietto, capire gli orari, in questi posti serve più tempo. Arrivo che dev’essere tardi e tutto è chiuso. In Lituania non ci sono le macchinette automatiche per i biglietti, così comode anche per calcolare gli itinerari e vedere le partenze, quindi ciccia. Ci sono degli A4 appesi in bacheca con gli orari e le percorrenze ma è chiaramente un po’ più complesso. Poi, mi scappa l’occhio e in un ufficetto c’è una signora con una divisa blu, immagino abbia a che vedere con i treni. Non parla inglese, non è molto frequente qui. A Vilnius ancora ancora, specie se persone più giovani e che lavorano a contatto con i turisti, ma scordarselo nelle stazioni e negli uffici pubblici, fuori nella Lituania più sparsa, poco o nulla. Basta che io dica la parola train con aria interrogativa che lei risponde immediata: No elektrificatzija. Io quello lo capisco e lei fa il gesto col dito che gira in tondo verso l’alto che significa tutto. Non che significa qualsiasi cosa, significa tutto. No elektrificatzija tutto. Niente treni, riesco poi a capire, per una settimana. Penso di non aver capito e invece è così: niente treni. No elektrificatzija. Ma perché gli avete fatto chiudere la centrale nucleare, maledetti di Bruxelles, perché?

No treni per una settimana, è il solito problema del socialismo: l’elettrificazione. Io questo lo sapevo dai tempi dei CCCP. Mi prefiguro rapidamente una vita futura qui, dai c’è di peggio, starò qui per sempre e farò il pescatore, no elektrificatzija, imparerò il lituano, mangerò barbabietole e sarò felice. Ma no, basta poco. C’è il pullman. D’accordo, bus sia, meno elektrificatzija più noija. Per Vilnius, quattro ore, gazolina. Risolto.

Ciao, Baltico. Ci vediamo presto. A Vilnius ho un po’ di tempo da passare, dopo tanta natura opto per un po’ de curtura e vado al museo d’arte nazionale lituano ed ecco la recenszija specialistica in linguaggio tecnico: tremendino, ritratti dopo incidenti stradali e frutte morte a iosa. Pare un po’ dismesso, in effetti. Opto allora per il palazzo dei duchi di Lituania, un vero pezzo di Rinascimento italiano in Lituania grazie a Bona Sforza, figlia di Gian Galeazzo, che nel 1518 sposò in seconde nozze Sigismondo I, diventando così regina consorte di Polonia e granduchessa di Lituania. Ecco, i quadri belli, diciamo, sono lì. Oddio, vero Rinascimento mica tanto: quando arrivarono i russi il palazzo lo rasero al suolo. Non che siano più cattivi, si fa proprio così: quando invadi un paese o ne abbatti i simboli o li occupi trasformandoli. Ecco, in questo caso hanno abbattuto. E i lituani, ottenuta l’indipendenza nel 1990, ne hanno fatto un motivo di orgoglio e l’hanno ricostruito.

Una cosa che mi colpisce ancora, nei paesi dell’orbita ex sovietica, sono le persone di una certa età che vendono cose su banchetti piuttosto improvvisati. Fuori dal mercato centrale, per esempio, un capannone primo novecento come ce ne sono ancora a Roma e Milano, perlopiù donne immagino provenienti da zone di campagna vendono pochi ortaggi, qualche ciuffetto di verdure, un cestinello di fragole. Per strada, invece, nella migliore tradizione, e qui sono soprattutto uomini, qualche oggetto usato, qualche spilla militare, binocoli, raccoglitori di monete. Oppure, nelle zone di passaggio, vecchine che vendono mano a mano piccoli mazzetti di fiori colti da poco e raccolti con un gambo annodato. Mi colpiscono, perché evidentemente sono persone che vivono di niente, con quei quattro cespi di erba cipollina faranno quadrare la giornata? Avranno una pensione? Oppure tutto sommato stando nei dintorni della città riescono a campare di piccola agricoltura e qui arrotondano come possono? Il tutto stride con un tenore di vita, almeno nelle città, del tutto europeo, i costi qui sono leggermente inferiori che in Italia ma non così tanto. A Riga, fuori dal mercato, dai mercati generali in realtà, perché sono cinque enormi capannoni con banchi e prodotti davvero lussuosi, c’è un vero e proprio mercato parallelo, immagino con le sue regole, che vende gli stessi prodotti a molto meno. Qui la situazione è meno ampia e strutturata ma non diversa. Di certo, mi colpisce vedere qualcuno che su un piccolo cartone vende, per esempio, tre patate e una verza.

Mentre scrivo queste ultime cose sono già al non sole del belpaese, seee, e già sono travolto dal rumore di fondo: l’Eurovision, la Meloni a trecentosessanta gradi, il gran premio di Imola annullato per l’alluvione in Emilia-Romagna e il concerto di Springsteen a Ferrara no, il nuovo logo del MIM, stracchini con merito, i tweet, le sciocchezze, le buffonate, le volgarità, le cose che non voglio fare con persone con cui non ho voglia di discutere. Insomma, quella che chiamiamo vita normale, quotidiana. E io a questo punto un po’ di domande me le faccio sempre. Lavoro, auto, bucato, spesa, gomme, revisione, visita, movimento, banca, pulizie, cose così, per restare a questo primo giorno. Bene, tutto bene, è quella vita normale che implica fare cose perché ne funzionino altre, per esempio dormire sotto un tetto, cenare con amici, sostenere il viaggio alla valle della morte. Soffro la ripetizione ma ce la faccio. A sera della vita normale è normale, appunto, essere stanchi: quante cose fatte, quante sbrigate. Ripetere per un po’ e si manifesta l’illusione di una vita piena. Tant’è che il tempo fugge, volano le settimane in un ricordo di vita abbastanza indistinta per cui, poi, servono le vacanze, in senso letterale: la vacanza, l’assenza dalla vita quotidiana. È imperativo distrarsi, rilassarsi, intrattenersi e non pensare, un tormentone estivo, magari. Per poi ricominciare. Di cosa, dunque, è piena, una vita così? Di riempitivi, perlopiù, ecco perché parlo di illusione. Storditi dalle cose, cerchiamo riposo ma, subito dopo, ricerchiamo l’affannarsi e l’affastellarsi delle commissioni, del lavoro, degli impegni. Per riempire tutto.

Ecco, io viaggio per creare il vuoto. Il mio vuoto, nel quale ho il tempo per guardare, pensare, ascoltare e scoprire. E non deve essere intrattenimento, il viaggio, altrimenti è la stessa cosa della vita quotidiana, è turismo, è quel concetto tremendo di ‘esperienza’, l’evento fintamente esclusivo. In viaggio, magari quando cammino su qualche duna al confine della Russia, talvolta penso. Non tanto eh, e non molto bene ma capita. Nel mio vuoto, devo essere capace di affrontare la mia vita: chi sono, cosa sono diventato, come vorrei migliorarmi. E poi anche le parti più difficili, i rimpianti per ciò che non ho avuto e per le scelte sbagliate che ho fatto, chi non sono più, le persone che mi mancano, il tempo che passa, come mi comporto con le persone cui voglio bene e con quelle che non reggo. È questo il senso del mio viaggio. Devo ricalibrare e ricentrare la mia attenzione e concentrazione, trovare un equilibrio con quel magone che la vita quotidiana soffoca e nasconde e che, invece, va affrontato. I primi giorni di viaggio, solitamente, sono i più complicati, quelli che richiedono più correttivi, un posto molto bello, una buona cena, un’intensa attività fisica, birrette varie, risate. Poi vado avanti. E, di solito, trovo la quadratura. Ovviamente, non solo di viaggio e pensamenti si può e deve vivere, per cui torno, cambio le gomme invernali, lavoro, mi faccio vedere da un medico, pago le tasse e poi, dopo poco se ho fortuna, riparto. Ciascun faccia per sé, quindi, consiglio solo attenzione, che distrarsi per una vita è un attimo. Alla prossima.


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Un commento su “minidiario scritto un po’ così di un breve giro per verificare se la semiotica strutturale delle origini è ancora praticata: sei, qualche domanda senza risposta, due sciocchezze sul perché del viaggio, per me

  1. Qui un commento ci vuole,ma è troppo grosso troppo pesante per questa pagina. Chissà che non capiti di farlo fra un sacchetto di mele eun ciuffo di insalata. Comunque ciò che scrivi ha mosso qualcosa in me. Te lo dico ed è come se ti abbracciassi.

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