Dopo la transcaucasica ho bisogno di una vacanza. Lo so, sembra da stronzi dirlo, e forse lo è, ma quei tre paesi là mi hanno tenuto in tensione, per capire, per apprendere, per non sbagliare. Ora avrei bisogno di qualche giorno tranquillo e, visto l’atterraggio a Francoforte, ho finto di essere lavorativamente morto e, come quelle capre che si irrigidiscono e cascano al pericolo, provo a strappare ancora qualche giorno. Rispondo vagamente e in modo confuso a chi mi chiede quanto torni. Per vedere cose che non fatico a capire, per dormire, per camminare, leggere, scrivere, bere, non proprio in quest’ordine.
Desideravo questo concatenamento di città medio-piccole tedesche una vicino all’altra da molti anni, l’ho desiderato moltissimo nel 2020 durante la pandemia, lo sognavo di notte da prigioniero in casa – ecco la prova -, ora ci sono. Atterrato a Francoforte da Yerevan alle sette del mattino, vado a piedi a vedere la sede dell’università che, oltre a essere bellissima, racchiude una storia dentro di sé.

L’edificio fu progettato da Hans Poelzig in puro stile modernista d’epoca Weimar nel 1929-31 ed è bellissimo ed è strano come un’architettura progressista e umanista per quanto industriale nel giro di pochi anni sia diventata l’espressione dell’architettura reazionaria e oppressiva del nazionalsocialismo, l’aeroporto di Berlino-Tempelhof di Ernst Sagebiel riprende senz’altro questo progetto, l’avete notato tutti, no? Comunque, quella che oggi è l’università in realtà nasce come sede dell’I.G. Farben, un agglomeratone di industrie chimiche che negli anni Trenta riunì colossi della chimica come Bayer, BASF, Agfa, Sanofi, per dire quelle note ancora oggi, per resistere alla concorrenza europea e americana. ‘Farben’ significa vernici, tinture. Con l’avvento del nazionalsocialismo, il gigante non si fece sfuggire l’occasione e utilizzò più di tutti la manodopera gratuita degli schiavi deportati, costruendo spudoratamente una fabbrica a Monowitz, il blocco industriale di Auschwitz, lo stesso Primo Levi lo racconta. Ma non bastava, il colosso della chimica sviluppò prodotti per la crescente richiesta del governo nazista, prodotti per la guerra e prodotti per l’eliminazione delle persone, il famigerato zyklon B, il gas per i campi di sterminio. Chimici e scienziati al lavoro per migliorare l’efficacia del prodotto, questo è. Qualcuno oggi direbbe che è un prodotto, uno strumento, dipende poi da come lo si usa. Certo.
Francoforte fa schifino, lo sapevo già. Della città di Goethe resta niente, c’è un attorno di belle ville primo Novecento, un bel fiumone, poi il resto stride, tra il centro finanziario dell’UE e una quantità spropositata di persone che vive di scarti. Nella prima mezz’ora assisto a una retata con sei automezzi della polizia tedesca, un gentiluomo quasi mi vomita addosso sotto il simbolone dell’euro, le strade tra la stazione e il centro sono belle luride. Vero che è domenica presto e ancora, forse, non hanno pulito ma la cosa balza agli occhi. Io, vista l’università e il fiume sarei anche a posto, ricordo qui un magnifico doppio concerto Sharon Jones & the Dap-Kings e Maxïmo Park nel 2012 se non sbaglio, e questo mi basta. Iddio ti benedica e ti tenga compagnia, SJ. Inizio il concatenamento.

Vado a Fulda, un paesone a poco meno di un’ora a nord-est nonostante gli ormai ordinari ritardi di Deutsche Bahn. A pochi chilometri da qui correva la cortina di ferro e secondo gli strateghi della NATO il patto di Varsavia, qualora avesse deciso di invadere, l’avrebbe fatto qui. Per questo fino al 1994 nei pressi di Fulda stanziò un grosso contingente di soldati americani, in attesa dei Tartari. Io sono qui per la leggendaria abbazia, lo scriptorium più importante dell’alto medioevo e dell’impero carolingio, con ben seicento monaci copisti e miniaturisti e un patrimonio di ben più di duemila manoscritti, dall’ottavo secolo in poi. Poggio Bracciolini, che era uno bravo davvero, venne qui a pascolare tra i testi e vi ritrovò, per dire, il De rerum natura di Lucrezio che, se non fosse stato per i fuldani e per Poggio, ce lo scordavamo e buona notte. Arrivo carico di aspettative a Fulda e sbatto contro l’abbazia.

Mapporc, che è? Questo è barocco, dov’è l’alto medioevo? Dov’è Poggio? E i manoscritti? E i copisti? Nisba, ciao, puff. Il principino d’Assia, un Augusto qualsiasi, stufo dei vetera e dei vetusta, disgraziato, pensò bene di tirar giù tutto e di rifare in forme moderne di suo gusto. Disgraziato. Mapporc. E la statua e il bollone lapideo lo celebrano pure. Certo, ora ci passa la strada del barocco, che bello, ma che coioni il barocco, facculo il barocco, come la controriforma, ma che cazzo. E intanto, ciao Fulda. Perché a quello gli piacevano le cose contemporanee, ma dico io. Dentro, peggio che andar di notte.

Una chiesotta per le cene in bianco. Disgraziato. Sulla scorta degli eccezionali manoscritti armeni visto qualche giorno fa, sognavo già collezioni clamorose di testi carolingi e la riscoperta di qualche testo perduto di Aristotele. Nel museino, quattro capitelli e tre statue mozziche, tocca fare galoppare la fantasia, l’abbazia ricordava la vecchia basilica costantiniana di san Pietro a Roma, Sant’Ambrogio di Milano, per capirci, e noi ci tocca questa. Grazie, Augusto. Bravo davvero.
Qualcosa però c’è. Per fortuna, a fianco della chiesa in bianco c’è una chiesina dedicata a San Michele, del nono secolo, sopravvissuta alla rigenerazione barocca.

La rotonda ha sotto una criptina retta da una sola colonna tozza che ha del commovente e, oltre a dare un’idea di cosa potesse essere l’abbazia nel complesso, aumenta il rammarico per la perdita. E ora, come si conviene, è tempo di andare a riflettere sui fatti della giornata al biergarten.