minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: due, i ragazzi ce l’hanno fatta, l’altra città, cosa fare dopo le cinque?

Eh, adesso basta, vi arrangiate.

In centro a Liverpool i vecchi magazzini del porto e le case degli operai sono diventati nel tempo un centro commerciale continuo e a fianco delle solite catene sono numerosi gli enormi discount di cibo e cose in cui i prodotti sono appoggiati per terra ancora nei cartoni alla rinfusa e tutto costa pochi pounds, al cui confronto Aldi è un supermercato di lusso. Perché cara è cara, come tutto il paese, con Londra totalmente fuori scala. Un doppio espresso to go si valuta in due pounds e mezzo, un’insalata e un panino che però te li mangi via da qui diciotto. Ora, io sarei tentato di dire che prima della Brexit le cose non stessero così, che tutto fosse piu equo e che la sproporzione tra i negozi di essenze per la casa e quelli di cibo spazzatura fosse minore ma non sono proprio sicuro sia così. E peraltro nelle città hanno votato per il remain, che dire dunque?

Sono io, chiaramente. Sono io che le altre volte mi sentivo più a casa, tutto mi sembrava meno estraneo, dal cibo all’approccio sociale per cui se te la cavi, bene, se no ciao. Adesso meno, gli inglesi sono di nuovo un paese a sé, com’era quando l’ho conosciuto, la moneta, il passaporto, il visto, la percezione che non sia un paese aperto e accogliente ma arroccato, Johnson che se la rideva degli italiani in pandemia è un ricordo fresco. Le sterline che ho in tasca dall’ultima volta, il 2018, sono vecchissime, mi dice una ragazza, nessuno le prende più e devo cambiarle in banca. E non è una questione di regina. Per carità, io ci sguazzo benissimo lo stesso, con un po’ di sforzo afferro anche le sfumature dell’inglese chiuso e biascicato di qui al nord e paiono capirmi, al pub siamo sempre tutti amici e ricordo con piacere l’affettuosa rissa a Manchester ma è come essere negli Stati Uniti, non è più familiare, mi sa che in un pronto soccorso se ne facciano un baffo della mia tessera sanitaria. Fortuna che almeno l’accordo sul roaming telefonico resiste ancora, così posso scrivere le mie cosine in santa pace.

Sulla prua del traghetto che attraversa il Mersey scorgo, insieme, un pezzo di cielo azzurro sulla città e un arcobaleno sull’altra riva, mentre sulla mia zucca piove. Ma indomito resto al comando, fuori, da solo. Non sono andato a vedere nessun posto dei Beatles, tranne il Cavern passandoci davanti, di sicuro non le case d’infanzia dei quattro, villette popolari abbastanza fuori, nei sobborghi. Essere partiti dalla periferia di una città industriale per conquistare il mondo e lasciare un segno indelebile è una storia memorabile e aver mantenuto quell’aria divertita da ragazzi irrequieti, nonostante i titoli e la ricchezza, è encomiabile. McCartney su tutti, che ancora oggi è un piacere ascoltare nelle interviste, dice cose irriverenti e spiritose come allora. Me lo immagino spesso nel suo salotto quando sceglie un disco da mettere sul giradischi, fa scorrere gli LP e quasi tutti sono di gente che ha conosciuto, con cui ha suonato e che gli hanno tributato merito. Chissà com’è prendere l’aereo in un aeroporto intitolato al tuo amico-rivale di band, che ricordi a scuola. E quella sera in cui Hendrix suonò Sgt. Pepper tre giorni dopo la pubblicazione? È uscita pure la nuova canzone, in questi giorni. Vado a Manchester.

Due squadrone per la religione del calcio, l’industria tessile che ha segnato la rivoluzione industriale inglese e le lotte sociali a essa connesse, Engels, e ancor più musica di Liverpool, ne dico un po’: Smiths, Joy Division, New order, Badly Drawn Boy, Verve, Happy Mondays, Inspiral carpets, Simply Red, Stone roses, ocio: Bee gees e vabbè, anche gli Oasis. Questa zona è un po’ il Canada d’Europa. E io, infatti, son qui per un concerto, di nuovo, da quello dei Jet di qualche anno fa. Aggiungendo un forte romano di cui si intravedono le fondamenta, una cattedrale gotica insolitamente piccola per una città così, ma allora era appropriata, un bel museo d’arte – Rembrandt ha fatto bene a dipingere un autoritratto per ogni museo del mondo -, un museo della tecnica proprio ben fatto (ma dove sono finiti gli aerei?), il porto fluviale e la rete di canali e magazzini, direi che di Manchester ho detto quasi tutto.

La fregatura, se così si può dire, del turista autunnale o invernale è che vien buio presto, verso le cinque in questo periodo, e peggio che alla stessa ora chiude tutto. E allora, dopo un po’ di eroico vagolare al buio, non resta che adeguarsi a quello che c’è, ovvero le usanze abituali: bere e mangiare. Prima un’oretta o due al pub a chiacchierare con quello di fianco con qualche sport di sottofondo, ora Luton-Liverpool, è pur sempre domenica, e poi mangiare qualcosa da qualche parte, se il pub non offre le due cose insieme. Ecco, nel paniere dei costi la birra, era ovvio, costa meno dell’insalata, una pinta di lager con degli affari di cotica di maiale è sul mercato internazionale a circa quattro pounds. E un appartamento, economia spicciola oggi, nella zona più cool di Manchester, ovvero i docks recuperati, richiede trecentotrentamila sterline per un tre camere da letto, due bagni e terzo piano con gran vista. Molto meno, proporzionalmente, dell’insalata anch’esso. Conviene mangiar male, bere molto e abitare case molto belle. Affitto no, molto alti.

Certo, poi dipende da ciò che si cerca in una città. Di tante cose non saprei, ma se la commistione antico-moderno, un giusto equilibrio tra arte, storia, produzione e spasso, dimensioni non troppo ridotte ma nemmeno elefantiache, il giusto grado di caos, sono quello che si cerca, allora Manchester è un’ottima città. Ottima città inglese. La rete di canali derivata per ragioni industriali dall’Irwell, il fiume cittadino, passando per la via d’acqua Manchester-Liverpool, ancora oggi navigabile fino a certe dimensioni, rende certe parti della citta davvero piacevoli e, so che mi ripeto, gli amministratori delle città italiane alle prese con progetti di riqualificazione andrebbero spediti di forza qui. Per imparare cosa fare e cosa non fare. Resta un mistero perché nelle nostre città, nella mia in particolare, le fabbriche si abbattano per costruire edifici nuovi dalla vita al massimo ventennale. Se in una ex-fabbrica recuperata con buon senso ci fossero: abitazioni, uffici, alberghi, ristoranti, cinema, spazi sociali, uffici amministrativi, negozi, musei, beh, io li userei tutti. E con goduria. Ma noi no, abbattiamo o recuperiamo per finta.

Certo, poi qui costruiscono grattacieli come matti e non so quanta parte della città sia in mano agli Emirati Arabi, spazi verdi modesti, siamo comunque parecchio a nord e le panchine son sempre fradicie, spazi pedonali pochetti al di fuori dei canali, metà popolazione consuma nei pub e l’altra metà corre per strada, a ogni modo se si vogliono musica e calcio di gran luvello, lavoro, alta qualità di vita, allora Manchester è come una canzone degli Oasis: tutte le levette dei livelli e le spie rosse al massimo, i sofismi ad altri.


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