minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: uno, la non tanto oscura connessione tra porti e musica, quei quattro già visti, a pranzo coi cani in chiesa

Un taxi inglese, di notte, viaggia sulle rive del Mersey e mi porta verso il centro. Per strada non c’è nessuno ma non è così tardi, piove ed è il buio di novembre. Mi viene in mente una canzone magnifica, In Liverpool on Sunday / no traffic on the avenue / the light is pale and thin like you / no sound, down / in this part of town, è proprio così ora, la canticchio mentalmente ma non è facile, Suzanne Vega racconta di un ragazzo conosciuto qui, chissà quale sarà il suo campanile.

Serve il passaporto. Il passaporto. Banda di deficienti, e dall’anno prossimo pure il visto. Io non so. Una roba tipo ESTA, basta pagare ma passa proprio la voglia. E invece no, maledetti, dopo la Brexit uno vorrebbe dimenticarli, non andarci più, ignorare tutto il resto e invece no, eccomi qui un sabato pomeriggio alle due in un pub a bere birra e guardare Fulham-Manchester UTD, io che il fobal non so nemmeno dove stia di casa, e mi trattano come abitassi al piano di sopra e fossi qui tutti i giorni. Ovvio che maledico insieme a loro i rossi mancuniani, cugini troppo vicni con cui assommano una quantità spropositata di coppe campioni. Per strada vendono ancora le sciarpe del sette a zero di marzo. E comunque diffidenza, amici amici ma son pur sempre quelli dell’Heysel. E anche quelli del you’ll never walk alone, a dire il vero.

Ho cominciato a leggere Notizie da un’isoletta di Bryson, mi pareva appropriato, alcuni luoghi che racconta li vedrò a breve. A pagina due, racconta di quando nel 1973 sbarcò a Dover e come prima cosa fece colazione: “Mangiai un piatto di uova, fagioli, pane fritto, bacon e salsicce, accompagnato da pane e margarina e due tazze di tè”. Io, stamane, uguale uguale. Basta sostituire Dover con Liverpool e la margarina con il burro, stranamente irlandese. Dodici ore e il mio nutrizionista si è già ucciso.

Piove. Oddio, piove, vien giù una pioggerella sparsa e costante che secondo me manco dicono che pioverà, alle previsioni. La cosa da fare, secondo costume locale, è far finta di niente e proseguire, alla fine non si è davvero zuppi. Cammino lungo le rive del Mersey, che qui è una grande insenatura che ha fatto e fa di Liverpool una grande città portuale. Gli edifici che val la pena di vedere sono i magazzini del porto, i bacini, i docks, gli enormi palazzi delle storiche compagnie di navigazione, due su tutte, la Cunard lines e la White star, valgano i nomi di Titanic, Britannia e Lusitania. Tutte andate tragicamente, poi si racconta la storia di Violet Jessop. E il museo marittimo, con un’interessante sezione sulla tratta degli schiavi, cui gli inglesi contribuirono sostanzialmente. There she goes, racing in my brain. The Coral, Frankie Goes to Hollywood, Gomez, the Wombats, potrei andare avanti pagine e pagine a nominare band di rock e pop di qui, quasi tutta la musica che conoscete in questi due generi viene da qui e da Manchester. Poi Bristol ha il suo genere e il resto, poco, Blur e Rolling Stones, Elvis Costello va’, sta a Londra. E poi quei quattro ragazzi, certo, quelli del Merseybeat, quelli che qui ogni cosa rimanda a loro, quelli del sottomarino e di Lucy coi diamanti. Non c’è storia. Chissà com’è avere statue in proprio onore ancora in vita, essere un monumento vivente con culto incorporato, non sono sicuro sia così bello. E la relazione tra musica e città portuali si conferma prolifica ancora una volta.

Segna il Manchester all’ottantanovesimo e la delusione si sente, la partita finisce, si spegne lo sport e si accende la musica, The La’s per cominciare. Ma a volume davvero alto, come se fossi a casa mia, ed è così in tutti i pub quando non c’è uno sport qualsiasi tra le freccette e il rugby subacqueo. Magnifico. Al Walker museum una valanga di preraffaelliti e tre Lowry come si deve, è il pittore dell’Inghilterra industriale di fine Ottocento, ne ho visti alcuni a Manchester, appunto, qualcuno lo chiama naif ma ha una sua posata drammaticità. La cattedrale è colossale, usata per un terzo per le funzioni, come in molti luoghi di culto protestanti c’è un negozio di souvenir e oggettini sacri dentro, neon e vetrine nella navata sinistra, e i mercanti sono dentro il tempio. Anzi, le cattedrali nelle città portuali sono in realtà i templi dei mercanti, direi, senza giudizio, e poi vedo una cosa che non ho mai visto. A metà, subito dietro i banchi dei fedeli, e in questo momento stanno celebrando la messa, ci sono dei tavoli e, giuro, un bistrot. Ovvero, in un locale chiuso nella navata sinistra, a fianco del negozio, è in funzione un ristorante. Alcuni tavoli dentro e la maggior parte nella navata centrale della cattedrale. Mentre il prete sta officiando, quindi, una quarantina di persone mangia, ciacola e passa il tempo.

Mi sfuggono alcune cose. Tralasciando le questioni del catechismo e del rito, mi domando chi si alzi la mattina e dica: oh, oggi andiamo a mangiare in chiesa? Mmm, fanno quelle omelettes alla farisaica che mi mandano in sollucchero. Dai, chiama i Bignotti, che andiamo insieme. E poi quel qualcuno passa un’ora o due mangiando mentre qualcuno a fianco dice prendete e mangiatene tutti. Ma dev’essere una roba mia, qui è tutto pieno, più il bistrot che la messa. Che magari invece portare un po’ di vita nelle chiese non sarebbe poi così sbagliato.


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