minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: cinque, cose che uno, io, scopre poi, come Bratislava ma meglio, la prigione delle nazioni ma a noi interessano gli italiani

Ah, l’allegria slovacca, ci vado a nozze. A cena in un posto proprio slovacco che per trasmettere compiutamente la bella atmosfera è meglio se accludo una foto. E la macchina del telefono trasforma in festa ciò che già è allegro di suo. Una delle più antiche trattorie tipiche slovacche di Bratislava e in effetti lo è, sembra il 1985, cibo con maiale e formaggio di capra e zuppa variato in mille modi. Cosa, sinceramente, potrei chiedere di più? Non molto in effetti, anche se comincio a sentire il bisogno di verdura, il mio corpo mi sta dicendo qualcosa.

Poi si è riempito, sono arrivate due franzose amanti del tipico cone me. Manca solo Petrektek per il suo festoso compleanno, le lampadine da trenta candele sono tre ma una è rotta. Diciotto euro mancia compresa, il che dimostra che appena fuori dal centro dei balocchi le cose vanno a un altro registro. Indagine socioeconomica di grande valore, ne sono conscio. A parte gli scherzi, è ferragosto e le persone stanno fuori e si divertono, un tizio mi invita amichevolmente a provare i cento migliori vini slovacchi, bianchi perlopiù, e ho il sospetto che intenda provarli tutti adesso. In albergo, in memoria dei bei tempi, alla reception vendono vodka e sigarette, sai mai, il corredo minimo per tirare a notte. Una ragazza mi racconta che è di Castelvetro e che è qui con un viaggio organizzato, partito da Piacenza in pullman e che faranno poi Praga, a ferragosto entrambe delle succursali d’Italia, in qualche modo.

Mi rimuovo verso nord e prendo uno dei treni più interessanti d’Europa: l’Amburgo-Budapest via Berlino, Dresda, Praga. Ne ho parlato, credo, l’anno scorso, quando lo prendemmo in direzione contraria. Viste le tappe, ci si potrebbe comodamente fare una settimana di viaggio senza sbagliare nemmeno una tappa, consiglio di viaggio. Io vado semplicemente a Brno via Kuty e Břeclav, ovvero per gli appassionati di regioni storiche e non dell’Europa, attraverso buona parte della Moravia. E, in termini contemporanei, passando dalla Slovacchia alla Repubblica Ceca, storia recentissima come il fatto che questa ha adottato l’euro, con le difficoltà dette, e quella no, ancora le corone. Le scorrerie per queste pianure furono innumerevoli, per citare la più nota, Austerlitz è appena fuori Brno. Anzi no, le più note sono il gran premio di motociclismo, vero evento in città oggi. Ci furono poi gli svedesi durante la tremenda guerra dei trent’anni, sottolineano ovunque con orgoglio che Brno fu l’unica città a non cadere, le guerre hussite di cui non ho capito un accidenti durante storia moderna, e giù giù fino alle epoche remotissime dalle quali queste zone sono occupate dall’uomo. E dalla donna, certamente.

Dove le donne non finivano era lo Spielberg, la peggior prigione dell’impero austroungarico, sia per i costumi dell’epoca sia per l’evidente esclusione, con luminose eccezioni come Cristina di Belgioioso, del genere dalle cose della politica ancor più se rivoluzionarie. Ed è così che nel 1822 il pericoloso Maroncelli, il suo amico Pellico e altri si beccarono delle condanne a morte poi commutate in carcere a vita e finirono, appunto, allo Spielberg, la terribile fortezza di Brno. I più fortunati finirono invece al castello di Ljubljana, quelli meno pericolosi. Le sue prigioni. Al di là della retorica ottocentesca francamente faticosa oggi e di una fede in dio non so quanto di sostanza e quanto clericale, colpisce nello scritto di Pellico la fede negli uomini – e nelle donne, dico io, lui meno -, anzi con la maiuscola, e direi anche austriaci, in qualche modo. Fece più quel libro che battaglie perse, disse Metternich non a torto, si preparava il terreno per i decenni successivi. Un chiarimento su Maroncelli, invece, senza nulla nulla togliere alle condizioni tremende di detenzione: patriottissimo, per carità, ma la gamba gliela tagliarono perché aveva un tumore, cioè lo operarono, mica per sadismo. Che va bene austriaci cattivoni ma non stavolta. E l’operarono pure bene, visto che morì a New York un paio di decenni dopo la grazia. Ecco, sulle condizioni dell’operazione non metto becco, non ci voglio nemmeno pensare. A seguito dei moti del 1820-21 anche Confalonieri e Rosa fecero lo stesso percorso, mi colpisce che al primo capitò che la pena detentiva allo Spielberg fu commutata, a un certo punto, in deportazione in America. E lui fece di tutto per sfuggirvi, ritenendola la morte morale e politica, nascondendosi a Gradisca d’Isonzo. A Gradisca, dove al contrario la vita pullula che si fa fatica a starle dietro.

Mi rendo conto solo ora che ho in parte percorso il tragitto che dall’Italia occupata dagli austro-ungarici i carbonari e gli aderenti alla giovine Italia arrestati percorrevano per venire rinchiusi qui, allo Špilberk, quella che viene chiamata ‘La prigione delle Nazioni’, qui al museo, tanto l’impero era esteso. Verona, Ljubljana, Graz su su fino a qui. Sono seduto nella cella di Maroncelli e Pellico mentre scrivo queste righe, non c’è molta gente, anzi nessuno qui, parecchia nel cortile del castello, dove non si paga e ci sono i ristoranti, stasera c’è una presentazione della Kia. Mah. Al di là del freddo e delle torture ingenti, la Constitutio criminalis teresiana spiegava in dettaglio come procedere, attacco qui sotto un paio di illustrazioni, il problema grosso erano le malattie.

Per questo, i prigionieri solitamente venivano messi a due a due nelle celle, così che si curassero l’un l’altro, figuriamoci. Pure, il gracile Pellico sopravvisse. Non era raro fossero incatenati al muro, oggi ci sono due tavolacci, un tavolo e una panca, due ritratti e una catena coi ceppi. Conto circa una cinquantina tra carbonari e giovinitaliani imprigionati qui, ne morirono cinque di cui uno pazzo, alcuni si fecero quindici anni. Parecchie lapidi e un monumento fascistello della prima ora, 1922, li ricordano. Anche il libro delle presenze dei turisti registra parecchi italiani e qualche commento giustamente conmosso per quei giovani che lottarono per la libertà. Se per Napoleone aver vinto qui significava un colpo mortale per l’impero austroungarico, in realtà così mortale non fu, come si vide, perché i patrioti di ogni parte qui ci finirono anche dopo, eccome, e l’impero durò ancora un secolo. E Napoleone no.

Bella, Brno. In posizione notevole, altamente pedonalizzata, ogni volta che provo ad attraversare c’è un tram che passa, devono essere tantissimi e frequenti, alta qualità e servizi, la pianto qui se no mi ripeto, come le cose funzionino meglio qua fuori che da noi, anche se non possiamo crederlo, spocchiosi, persino in Repubblica Ceca. Dico solo che in centro, in piazza cone nei parchi, sono disseminate sdraio pubbliche che uno le piglia e si mette comodo. Attenzione: senza dover consumare alcunché. Lo so, per noi è incomprensibile. Non sono rotte, nessuno ci ha cagato sopra o rovesciato la birra, nessuno le ha rubate per portarsele a casa o, almeno ne restano ancora parecchie, nessuno ci fa accoccolare il cane, nessuno le sta usando impropriamente. Io stesso sono seduto su una di queste sdraio, anzi sono ovviamente sdraiato, in un parco e sto scrivendo e tra poco, mi sa, mi ci abbioccherò pure. Che cose assurde, qua fuori, ogni tot ho davvero bisogno di ossigeno.


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minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: quattro, troppa conoscenza tutta insieme, dov’è Willendorf?, altro paese, altra lingua, italiani all’estero

Sul cuscino trovo dei semi di zucca, sono sorpreso. Perché sono ignorante, scopro solo adesso che i semi di zucca sono non ‘un’ ma ‘il’ prodotto tipico della Stiria, una vera e propria chiave di ricerca su Amazon. Tergiverso, magari vengono riutilizzati ogni volta, poi me li magno, buonissimi, mica come quelli spagnoli secchi secchi, di questi la metà del peso è grasso. E infatti con l’olio ci condiscono qualsiasi cosa, gnam. Vorrei andare verso nord, nord-est, e nel mio tempo quotidiano dedicato allo studio delle mappe mi rendo conto che non c’è altra via che passare da Vienna. Oddio, c’è di peggio, me ne rendo conto. Mmm, Vienna… Che faccio? Passo dritto e non mi fermo? Nemmeno un’occhiatina? Questi sono i dilemmi, profondi ed esistenziali, mentre attraverso in treno la Stiria e la Niederösterreich, la Bassa Austria che va a capire quella Alta è a ovest, di fianco. Comunque, grandi boschi, su ogni rupetta un castelletto o un monastero abbarbicato, la ferrovia curva dove il fiume Mur curva e va dato loro merito, agli austriaci, di aver mantenuto in sostanza intatte queste regioni di grande bellezza. Curva e ricurva mi risolvo per una ventiquattro ore viennese, il tempo minimo di una sosta da Demel. In realtà, io che son piuttosto sbalestrato, correrò una maratonina: due museoni, Kunsthistorisches e Naturhistorisches, e il Belvedere che è a fianco della stazione, vabbè, a ciascuno il proprio. Che raccontare di Vienna? Niente, ci si vada, non è un brutto posto, qualcosina da vedere c’è, mica devo stare qui a dirlo io.

Alla fine del secondo museo sono un pugile suonato, di quelli che tirano colpi a caso e nel vuoto in attesa di crollare, scimmie, Brueghel, meteoriti, felci lamellari, i fossili di Memling. Certo, ho visto gente morta sui divani alla fine di un museo solo ma conta poco. Comunque, due musei fenomenali e con pochi confronti per qualità e quantità, tre enormi sale solo per i meteoriti di là, ventidue Tiziano in una vista sola di qua, se par poco. Fatto bene a fermarmi anche se al volo, il caffè nel giardino della chiesa di Belvederegasse è motivo sufficiente, la temperatura mattutina perfetta, musicisti e ciclisti compagni di inizio giornata, quattro muratori che giocano a ping pong sul tavolo in cemento a fianco della chiesa in attesa, forse, di qualche materiale, una città che chissà come mai mi pare sempre un placido paesone.

Mi muovo, torno alle città medie che si confanno al mio viaggio. Scavallo quel che al tempo di Maria Teresa era un non senso, il confine con la Slovacchia appena fuori Vienna, e vado a est, a Bratislava, cinquanta minuti scarsi di treno, sono le due capitali più vicine d’Europa. Ma al tempo dell’impero Bratislava era la capitale dell’Ungheria, le cose si complicano, comunque basta seguire il Danubio e parecchie cose diventano chiare. Sarebbe un bel viaggio seguire il fiume, partire da Ulm e arrivare dopo quasi duemila chilometri al mar Nero. Nel pezzettino che faccio io stavolta, il treno regionale lento lento attraversa una pianura tirata con il righello, sempre il fiume immagino, piena di pale eoliche, terra di un bel marrone acceso colorata dai girasoli. Tocca passare anche la Morava, altro bel fiumone che si getta nel Danubio poco prima di Bratislava e che fa proprio da confine e subito al di là finalmente qualche rilievo, assaggio precarpatico.

La città è graziosa, in centro, e moderna attorno, parecchi grattacieli. Sicuramente l’essere diventata capitale ha la sua importanza, l’impressione è che Bratislava sia stata oggetto, e sia, di assedio da fuori, sia per ragioni di costi, una volta, che probabilmente fiscali adesso. Storicamente, era la città in cui gli italiani venivano per bere molta molta birra spendendo poco e fare le cose che a casa non erano consentite, ancora oggi i voli sono parecchi. I prezzi sono oggi come quelli italiani ed europei e qui l’euro ha il suo peso ma l’impressione è che il resto della città, e del paese, non giri su questi ritmi. Appena fuori dalle mura gli starbucks scompaiono e, anzi, ci sono negozi e case più vicini a un recente passato che all’Europa attuale; come ricordavo all’est di un tempo, ancora si fa la coda per tutto, le biglietterie, le macchinette automatiche, i negozi. Un enorme palazzone di Unicredit domina la vista. La lotteria nazionale è arrivata a settantaduemila euro di montepremi. Fa caldone per davvero e si va a chiacchierare con i piedi nelle fontane, qui quella della libertà. Anch’io.

Dopo di che, la città ha tutte le sue cose al posto giusto: il fiume, enorme, le colline e quella con il castello, la parte piana ma non troppo, una posizione funzionale. E come spesso accade in Europa centrale, molti sono passati di qui, dai romani con il loro limes, agli unni, ottomani, ungheresi, Napoleone vi firmò la pace vittoriosa dopo Austerlitz con l’altro impero, russi e così via. Si intenda: la città è gradevole e fascinosa, contiene molti stili e tempi diversi, una rara chiesa blu in stile Secessione, alcuni dicono art Nouveau, ma se alle due del pomeriggio i bar nella piazza principale sparano gli Eiffel65, gli italiani sono decisamente troppi per i miei gusti. Basta fare qualche giro più largo e, infatti, la città è piuttosto interessante anche nella sua parte dal passato socialista e il presente europeo.

Per cui, bene. Domani, l’altro pezzo di ex Cecoslovacchia.


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59 secondi di… treno Ljubljana-Maribor dopo le grandi piogge di agosto

L’effetto acquario.

Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più ittica dell’anfratto, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.

Tutti gli altri 59 secondi

minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: tre, sempre Stiria ma più su, c’è tutto quel che serve, oltre una certa linea di confine, la compagna sindaca

Meritiamoci ‘sto pasto, va’. Salgo su una delle colline attorno a Maribor, ricoperta di splendidi boschi appena sopra le viti. Dopo pochi minuti un cervo, un daino, un bambi con le corna insomma, mi salta davanti e scompare tra le piante inseguito ridicolmente da un cane. Madonna cone lavorano bene, qui, all’ente del turismo. E scommetto che io e il dainocervo ci rivedremo a cena, stasera. L’aria è alpina anche se, realmente, si è a soli duecentosettanta metri di altitudine e, in effetti, gli slalom alpini saltano sempre più spesso, in favore di Kranjska Gora e Adelboden. Ora ci sono quasi trenta gradi che, per quanto piacevoli con un’arietta fresca, son pur sempre parecchi.

Ci sono dei buffi cartelli che spiegano come su queste colline siano state reintrodotte delle viti di antica qualità per produrre un ottimo riesling del Reno, e io già qui faccio fatica, che ha vinto e vince molti premi. Buffi perché saranno almeno vent’anni, deduco, che nessuno mette mano alle viti, tutte ricoperte di rampicanti e rovi. Progetto europeo? Parlate, sloveni, perdio. Qui è davvero un ottimo posto per passeggiate, gite in bicicletta, escursioni per cantine, magari non il riesling renano, i prezzi son decisamente più bassi che a Lubiana. L’UE consiglia Maribor tra le destinazioni 2023, nonostante trascurino le viti, ed eccomi qua. Son così contento di non essere presidente del Consiglio e di dover fare le vacanze in Puglia blindato e, magari, dover fare una visita di cortesia in Albania a quel minchione del presidente, che piglio su le mie cose e me ne vado, libero e sereno, verso la frontiera austriaca, direzione Graz. C’è una cosa in particolare che voglio vedere, oltre alla città, bella di suo e già unescotutelata.

Oltre alla linea di demarcazione tra i bacini adriatici e del mar Nero, c’è un’altra linea che, grossomodo a questa latitudine, attraversa l’Europa da est a ovest, implacabile, immaginaria e reale allo stesso tempo: la linea sopra la quale c’è la patata e sotto il pomodoro. A un certo punto, impercettibilmente, i sughi, le insalate fresche spariscono e le patate lesse con il prezzemolo, arrostite se va davvero bene, conquistano ogni piatto. Insieme a quel subdolo silenzioso del cavolo, va detto, bianco o rosso che sia. Pochi chilometri prima potresti avere una bruschetta, per dire, fai due curve e se va bene bene si possono avere delle patate. Per carità, oggi in tempi di globalizzazione la cosa è men grave, un’insalata con due pomodori congelati si recupera in ogni dove, con i cambiamenti climatici la linea si sta pure alzando per cui il pomodoro arriverà in breve a Ratisbona, futuro luogo della dieta mediterranea, oltre che imperiale, però la cosa si sente comunque. Se sei dei pomodori, per quanto aperto e disponibile, tra le patate sarai sempre ospite e, dopo un po’, a disagio. Se sei della patata, prima o poi vorrai dominare il mondo per avere anche il pomodoro.

È ferragosto e non si capisce bene quali treni viaggino, così opto per la ‘freccia della Drava’, uno splendido intercity anni Ottanta originale con sedili tappezzati probabilmente da uno stilista di grido a oggi impunito, treno che va fino a Budapest, binario due ore 7:19. E ho anche l’occasione di apprezzare Maribor al minimo della sua popolazione. Pur rimanendo in Stiria, lascio la Slovenia per l’Austria, Maribor per Graz, la seconda città del paese che è governata, situazione inedita non solo in Austria, dal KPÖ, Kommunistische Partei Österreichs, con la compagna sindaca Elke Kahr. Che mistero la vita, eh? Leggo della morte di Alberoni, ricordo la rubrica del lunedì in prima pagina del Corriere, un cumulo imbarazzante di banalità, lo ritrovo in un reportage di Roncone al Twiga, seicento euro al giorno senza contare il cibo e diciassettemila all’anno di concessione allo Stato, in cui racconta che la moglie di La Russa e il compagno di Santanchè avrebbero acquistato la casa del sociologo e rivenduta nel giro di un’ora guadagnandoci un milione netto. Echi lontani qui in Stiria, per mia fortuna. Io vado da Elke Kahr, magari resto.

Graz è bellissima. Se Salisburgo è una scatola di cioccolatini per amanti della musica, Graz è Salisburgo sotto doping, più vivace e più grande. Tutte le cose al suo posto: bel fiumone tipo Inn, colline tutto attorno, collina dentro con castello sopra, cerchia di mura con meravigliosi parchi attorno, un centro intoccato che va dal medioevo al barocco passando per un cinquecento purissimo di ispirazione italiana che solo il castello di Cracovia, ottima posizione in ogni direzione, un bel festivalone musicale e teatrale.

Ma non basta. Nel mezzo del fiume qualcuno si è inventato un’isoletta artificiale tutta di metallo con un’arena per spettacoli, qualche locale, un museino; proprio di fronte, al posto di un vetusto isolato probabilmente di poco conto, è atterrato il friendly alien, come lo chiamano affettuosamente, il Kunsthaus Graz, il blobbone di Cook e Fournier.

Ora: il punto non è che piaccia o meno, secondo me. Il punto è se abbia senso e come si integri nel tessuto urbano e ancor prina sociale. Beh, quando la sera si illumina le persone, oggi me compreso, escono apposta per vederlo e stanno lì a bocca aperta, anche vent’anni dopo. Fichissimo. Prima che museo, non ha una propria collezione di arte contemporanea stabile, è uno spazio sociale e, mi pare, come tale è percepito. Bello? Brutto? Ognuno avrà la propria opinione, di fatto conta che faccia parte di un ragionamento ampio sulla città e i propri abitanti, sul presente e il futuro. Mi viene ovviamente da pensare al Maxxi a Roma – Hadid ha fatto cose anche qui -, abbandonato nel nulla di un quartiere senza prospettive, dato in gestione alla politica delle nomine, calato quello sì dall’alto senza un piano organico e, direi, dotato di umanità. Ecco, qui non pare, anzi, la Graz attuale offre grande vivibilità a ogni livello, il blob fa parte dell’offerta, chi vuole lo piglia.

Beh, se il certame è tra le città senza attrattive particolari – l’arena di Verona – ma affascinanti nel complesso, qui abbiamo senz’altro una nuova campionessa da podio, di prepotenza. Se unissimo a Graz le montagne attorno a Innsbruck, non dissimile per case e stile, andrebbe fuori scala. Per questo, al contrario del mio solito, qualche foto-cartolina per dare l’idea.

Ma qui c’è anche la compagna sindaca Elke Kahr, e ovviamente chi la vota, ed è la cosa che mi sconvolge di più, che per formazione politica è rivolta al problema casa e al reddito dei propri concittadini e io giro ebbro per una città che a me sembra già offrire una qualità di vita che noi, per davvero, ce la sogniamo da piuttosto lontano. Foss’anche solo che sto scrivendo sdraiato per terra nell’ennesimo meraviglioso parco, i cani cagheranno evidentemente da qualche altra parte, che la città pullula di posti che invitano le persone a stare – ricordate le panchine, pure senza dissuasore in mezzo? – e di iniziative delle persone per le persone. Avranno anche i loro problemi, non discuto e ne sono certo, ma al momento non saltano agli occhi. Voglio dire: ogni mezzo chilometro c’è un cesso di quelli chimici da cantiere, aperto e utilizzabile. Non sarà l’esperienza migliore del mondo ma, vivaddio, su questo si misura la civiltà prima che sulla gestione degli Imperii e l’esportazione della democrazia. Certo, è quello cui son sensibile io, ora. Ma nel 1938, all’entusiasta festa dell’anschluss, Hitler promise la fine della crisi economica e mille, mille!, anni di prosperità. Sette anni dopo i soldati sovietici entravano in città dopo quel che sappiamo. Partiamo quindi dai cessi e dalle panchine, un passo alla volta.


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minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: due, comparatistica varia, fiumi e fiumoni, acqua dove non deve, sistemi di cui non sappiamo nulla, scavallo e vado

Non che a Lubiana manchino sobri esempi di leggerezza ed esuberanza jugoslava, tutt’altro, ma si stemperano, specie nel centro, con altri stili e forme e il puppurrì a me non dispiace affatto. Certo, a me piace pure la dance jugoslava anni ottanta, non faccio gran testo, e anche l’estetica dell’est, dalla cecoslovacchia alla mongolia, la trovo accattivante.

Ostalgie, ho l’ostalgie, lo sapevo già. Comunque: le città che preferisco in assoluto sono quelle che non hanno nulla di particolare in sé – cappella degli Scrovegni, per capirci – ma che, prese nel complesso, risultano oltremodo gradevoli e affascinanti. Su tutte, Riga, Amburgo, poi Kaunas, Nancy, Metz, Poznań, Toruń, Siviglia, Treviso, Catania eccetera, comparatistica urbana, si libera mica una cattedra? Tra esse, sicuramente Lubiana e dove sto andando, se non piglio una cantonata: Maribor.

Maribor, Marburg, Maribor, Marburg, ovvero: città storicamente a prevalenza tedesca su quella slovena o slava, ogni volta che una parte predominava erano guai. Per restare al recente, con l’occupazione nazista gli sloveni furono allontanati o fatti fuori, appena dopo la fine della guerra la popolazione tedesca si ridusse a uno zero virgola. Ma la storia va ben più indietro nei secoli, passando per la Marburger Blutsonntag, la domenica di sangue, non l’ultima. Da come chiami la città si capisce da che parte stai. Io Maribor, è in Slovenia, giusto così. Nella Stiria slovena conviene arrivarci in treno da Lubiana, quello lento perché costeggia la Sava e la Savinja per una decina di fermate impronunciabili e attraversa alcune tra le valli più belle del paese, la strada come spesso accade non è così suggestiva, tende al dritto. La zona è proprio quella funestata dalle alluvioni delle scorse settimane, sono arrivati aiuti da ogni parte di Europa, Friuli Venezia Giulia da noi per ovvio principio di vicina fratellanza, e persino dall’Ucraina, sempre più rivolta all’Europa. Infatti, a Litija tocca trasbordare su un pullman perché la linea è interrotta e poi ripigliare il treno più avanti. Non è che si capisca granché, ci sono parecchi pullman e quando rivolgo a un autista un interrogativo Maribor? la risposta è un grumo di consonanti che finisce con una cosa tipo drumolavie, ma l’atteggiamento fatalista slavo dice più chiaramente: magari sbagli autobus e semmai muori, che vuoi che sia? Hai ragione, amico, andiamo. La Sava è impetuosetta e verdona, qualche giorno fa doveva essere parecchio più alta, a guardare le piante e il fango. Tutti i ponti sono chiusi, i piloni trattengono i tronchi, in alcuni punti, dove la valle si stringe, la strada ha ceduto, nei paesi stanno togliendo i sacchi dalle rive solo ora. A Trbovlje, che non è un paese ma un grosso cementificio stretto in una gola, risaliamo sul treno, che fa i primi chilometri a tre all’ora, giustamente, e alla fine ci metterà due ore in più.

Il paesaggio è molto bello, sullo sfondo alcune montagnone che richiamano le Dolomiti, attorno colline ricoperte di foreste e in mezzo fiumi e fiumelli e pratoni o declivi più alpini, verrebbe da camminarci per settimane. Gli appassionati di sci e di coppa del mondo Maribor la conoscono eccome. Oh, son mica tutte rose e fiori, ho appena costeggiato una bella centralona con enormi cumuli di carbone tutti da bruciare ma sarà che vengo dalla pianura padana, a me l’aria di fuori sembra sempre più fresca e salubre. Ecco, se fedele alle mie funzioni di servizio dovessi consigliare i migliori posti in Europa per svaghi nella natura, direi: questo pezzetto di Slovenia, appunto, la valle dell’Elba tra Praga e Dresda, la Transilvania e il delta del Danubio, alcune valli del Trentino, la valle della Mosella tra Nancy e Treviri, inarrivabile. E nemmanco me pagano. Dalla confluenza con la Savinja la valle si apre, compaiono frutteti di mele e qualche punto turistico in più, un vero paradiso per camminatori e ciclisti, il treno accelera e ora è tutta discesa verso Maribor.

La parte inferiore del finestrino, quella sotto l’umidità con la linea netta e più limpida, è acqua. Deve aver davvero piovuto un po’ troppo. Io e il mio vicino di posto, zaino anche lui, ce la ridiamo per un po’ ogni volta che il treno frena o accelera. Sagace intrattenimento delle ferrovie slovene, metti pesciolino rosso. Per arrivare a Maribor bisogna attraversare la Drava, sulle cui rive sta, che è un fiumone che si mangia il Po per oltre cento chilometri, è uno dei maggiori affluenti del Danubio e divide due mondi: passo di là e ho fatto il salto, dal bacino geografico dell’Adriatico a quello, mi tengo forte, del mar Nero, altro che dado sui ruscellini. Bon, son di là, si va avanti e già son Carpazi, le pianure della Pannonia e lingue borbottanti che è un vero piacere.


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minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: uno, la gita scolastica, le città fondate nei posti giusti, i parchi che possono essere usati, imparo l’arte del luogo

Riparto, finalmente. Con mossa per me inedita, avvio il viaggio con un pullman, un flixbus, per ragioni di orari e di collegamenti. L’atmosfera a bordo è più vicina a una stalla in gita scolastica che a un viaggio organizzato, comprensibile a ben guardare la tratta: Bordeaux-Bucarest. Ma io scendo prima. Salgo a viaggio ben avviato e mi vien subito sonno, sarà la mancanza di ossigeno e l’aria addensata. Siamo seguiti da tre Ducati, furgoni, ricolmi di cartoni che trainano altrettante auto, una Jeep. Io sono in penultima fila, cioè nella zona meglio di qualsiasi gita in pullman, e dietro di me ci sono tre sessantenni rumeni dalle prosperose pance che non smettono mai di parlare e mangiano centrioli sottaceto da un enorme barattolo. Bella musica, si può immaginare, sacchetti di cibo per il viaggio e mises improbabili che arrivano alle sole mutande. D’altronde sto andando a est, meglio entrare subito in clima, ho già desiderio di ćevapčići. Già mi immagino che nelle prossime sette ore possano scoppiare svariate risse, un matrimonio e un paio di funerali cantati a bordo del pullman, ed è subito Kusturica.

Stranamente, al confine ci fermano, il capo rumeno del flixbus raccoglie tutti i documenti e li consegna a una delle tre pattuglie di carabinieri al ciglio della strada, appena prima della barriera. Che poi barriera non è e non dovrebbe essere, vista la presenza della Slovenia nella UE, i pullman fermi sono parecchi. È notte, io farò tardi all’alberghetto sloveno e non sono mai entusiasta di consegnare i miei documenti a un tizio rumeno nella corsia di emergenza di un’autostrada di notte. Che strano. I fumatori esauriscono la capacità di fumare sigarette consecutive e risalgono, aspettiamo; una ragazza bionda non troppo contenta è attorniata da quattro panzoni che fanno trascorrere il tempo conversando con la persona evidentemente più interessante del pullman; l’autista dorme. Evidentemente, non lo scopro ora, esistono passaporti più pesanti di altri anche in Unione Europea. Alla fine ripartiamo a tarda notte e il commento sul ritardo del bus, a bordo e anche in albergo, è as always.

Una proposta sconcia alla galleria nazionale slovena?

È domenica mattina e ci sono i mercatini, lungo la Ljubljanica. Soliti, dischi, lampade di antiquariato, bigiotteria e l’immancabile banchetto con i memorabilia di Tito: ritratti, libri, discorsi su vinile, bronzi, spille, solito. Ovviamente qui percepisco la cosa come para-antiquariato, quasi pop, paccottiglia in vendita come i dischi del quartetto Cetra senza adesione ideologica mentre i busti del mascellone in Italia mi fanno incazzare. Devo decisamente rivedere la mia linea di condotta. Ljubljana, Lubiana d’ora in poi, è città ad alta resa, ovvero tutte le comodità della città medio-piccola, amichevole e tirata a specchio, verde, ottima posizione tra colline, boschi e montagne più serie, e l’offerta delle capitali, musei significativi, servizi, infrastrutture. E infatti i turisti lo sanno, mica lo scopro io: tutto pieno o quasi e lungo il fiume i tavoli sono molti. La somiglianza immediata è con Cracovia, in linea d’aria nemmeno troppo lontana, Salisburgo, Heidelberg, Würzburg, Vilnius, dai, da noi direi i centri di Trieste, ovvio, Trento, Verona, non tante con così alta qualità d’offerta. Tutte queste città sono proprio nel posto dove dovrebbero essere le città, ovvero un fiume che scorre tra alcune colline, una più vicina alta ma non troppo per metterci il castello, sufficiente piano ma non troppo, vie d’accesso, buon clima, proprio dove si punterebbe il dito e modestamente Lubiana lo puntò.

Di mitteleuropa sono rimaste due o tre vie del centro, sotto il castello, poi complici un paio di rovinosi terremoti, l’avvento dell’architettura moderna tra cui per fortuna il liberty e, meno, il garbato stile jugoslavo, periferico qui rispetto, per dire, a Belgrado, il miscuglio è gradevole e riuscito. Si capisce che consiglio? Una bella fontana barocchina rappresenta i quattro fiumi sloveni con tanto di obelischetto ma il tutto si richiama troppo alla fontana dei fiumi di Bernini a piazza Navona per non essere buffa. Dopo di che, tutto passa in secondo piano rispetto all’eroe locale, Luka Dončić, inarrivabile, e proprio nella pallacanestro, qui. D’altronde, sempre avere uno slavo in squadra, che quando ci sarà da alzare i gomiti, lui farà il suo. Peccato ora non si riesca più a trattenerli, Lubiana-Dallas è un bel salto. Io di salto ne progetto uno più corto per domani, quindi giro in stazione per progettarlo e capire come, poi altri zonzi per quartieri interessanti di Lubiana, Metelkova per esempio, un giro tardo domenicale alla galleria d’arte nazionale per imparare qualcosa su tremila anni di arte slovena in due ore e poi, con merito se fatta la mia quindicina di chilometri quotidiana, una Sarajevsko lungo il fiume, accompagnata da innumerevoli ćevapčići e cipolle crude.

D’altronde, oggi è talmente bello che persino i condominii slavici fanno la loro figurina. E io mi concedo il lusso, come spesso in giro, di trovarmi una bella pianta in un parco usato come parco, sì, qua fuori fanno così, sdraiarmici sotto sull’erba e scrivere questo minidiario, leggere e perché no? dormire all’arietta fresca. Sto proprio da signore.


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in democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto

Ma porcocane, Michela Murgia.
Nessuno dice mai sono malata sto morendo, si dice sempre che ci si sta curando, che si è guariti. Cambiano gli sguardi delle persone, cambiano le osservazioni, in rete poco di buono da aspettarsi, specie per una come lei oggetto di odio di tanti e di affetto, spero, di molti di più. Lo sapevamo, ce l’aveva detto ai primi di maggio, ma questo non toglie nulla al dispiacere e al senso, grazie, di perdita. Ha detto a Cazzullo: «Si è creata una certa aspettativa, se non schiatto in breve tempo sembra maleducazione…». Che tempra. Come ha sempre fatto, e come un’intellettuale qual era fa, ha utilizzato ciò che le accadeva per trarne una norma, una linea sulla quale riflettere e partire per modificare le cose che non vanno, il matrimonio per esempio, controvoglia, «non saremmo ricorsi a uno strumento patriarcale e limitato se avessimo potuto garantirci i diritti a vicenda», deciso per quell’assurdità italiana per cui in articulo mortis solo i consanguinei e la moglie o il marito possono dare indicazioni sulla condotta terapeutica, altrimenti son carte bollate da morirne, mentre sarebbe così utile e umano che lo potessero fare anche le persone d’elezione, scelte prima. Molti lamentano la resa pubblica della malattia e anche in questo caso bisognerebbe imparare a non giudicare: lei era, ripeto, un’intellettuale e rendeva pubblica la propria vita per forzare certi legacci di società patriarcale, bigotta e talvolta fascista che ancora ci portiamo dietro e dentro, ciascun faccia come crede ma la si pianti di esprimere giudizi su chiunque.
Di cose, Michela Murgia ne ha dette tante e, spesso e in maggioranza, cose intelligenti di cui abbiamo un gran bisogno. È stata padrona di sé ed è importante, per quanto lo si possa essere quando a cinquant’anni ti comunicano una diagnosi nefasta, ha avuto il tempo per salutare e per mettere alcune cose a posto, spero che questi mesi di vita malata pubblica, di paura di notte, siano serviti anche a farle arrivare l’amore e l’affetto delle migliaia di persone che l’apprezzavano, a far sì che la comunità di persone come lei sensibili le si sia stretta attorno. A noi, qua, resta la perdita, ed è grave perché non sostituibile e il peso specifico della testa pensante che ora ci manca è parecchio, si fa e si farà sentire. Aveva detto di recente: «Il nostro vissuto personale oggi è più politico che mai, e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione». Ed è in quello che io ho imparato di più da lei, come persona e come maschio, parlando di genere, ma il suo riferimento è anche al fascismo dei rapporti, alle sopraffazioni nelle relazioni, allo svilimento dei modi a favore degli obbiettivi. Ecco, a me come a moltissimi quest’eredità è presente, c’è e molti di noi, i migliori, la porteranno ad altri, mescolandola a tutti gli altri contributi delle altre teste pensanti che ci sono e ci sono state. E ci saranno, perdio, perché ci saranno eccome, anche grazie a lei, Michela Murgia.

that’s when that little love of mine / dips her doughnut in my tea

Il mistero del Canada prosegue, come possa aver contribuito in maniera così significativa alla storia della musica. Tra gli altri, e tra i migliori, Robbie Robertson, scomparso oggi.

Grande nella Band, sia come gruppo di Dylan nella svolta elettrica che da soli – lui, Danko, Helm, Hudson e Manuel erano tutti musicisti e compositori eccellenti con grande predominanza di Robertson -, i loro primi quattro album – in tre anni! Solo i CCR alla pari – sono fenomenali, che botto esordire con Music from Big Pink!, per poi proseguire con i strepitosi The Band, Stage Fright, Cahoots, testi mai banali. E grande poi nella musica per il cinema, con Scorsese più che altro, da The Last Waltz in poi, forse il primo documentario musicale che vidi. Meno, per me, la sua produzione solista e ammiccante agli indiani d’America, evidentemente avere alle spalle, pur come primo attore, una band così solida dava i suoi frutti, ricchi e succulenti. Before the Flood è senz’altro, con Alchemy e Made in Japan, uno dei live che ho ascoltato di più. Adesso The weight, che meravigliosa soprattutto in apertura, poi The night they drove old Dixie down, ballatona, la mia preferita Up on Cripple Creek che sfiora quasi il funk e avanti, The shape I’m in e quante meraviglie, un brindisi a Robertson.

live at Pompeii al tempo della destra stracciona

Nell’anfiteatro di Pompei, sì, quell‘anfiteatro, si sono riuniti ieri i rappresentanti del governo per promuovere la cucina italiana, sì, come bene unitario, alla tutela dell’Unesco. Ci saranno andati col treno mensile?

La pompa è magna, ops, perché si presentano in formazione il Ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, signora mia come si mangia in Italia, ci sono anche amministratori delegati, viceministri, direttori di museo, come mancare?
Il concetto è poverello, nel senso che non si ragiona di un settore, degli sviluppi futuri e dello stato delle cose, bensì di quelle che a destra chiamano sempre ‘eccellenze italiane’, vere o supposte, tra cui la cucina è regina, e che devono in sostanza essere oggetto di vendita al resto del mondo. La resa grafica, quindi, dell’assenza di idee risente dello stesso problema. Ecco il logo che non lo è:

Realizzato dagli allievi della Scuola della Medaglia dell’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, chiaramente non è un logo ed è, anzi, la solita accozzaglia di luoghi comuni italici, pomodori e ponte di Rialto, Leonardo, Verdi, Montalcini e nutella, prosecco e una pizza pepperoni abbastanza ridicola. Non è un logo, è una rappresentazione grafica e come tale abbastanza inutile. Il claim è il solito di quest’epoca destroidina, tutto maiuscolo e con i cuoricini con bandiera italiana al posto delle ‘o’: i🖤 am🖤 la cucina italiana, non ce la faccio a scrivere tutto maiuscolo, non è che siano morti dei creativi per lo sforzo.

Il pensiero corre, gioioso, a Open to meraviglia e bisogna tenersi forte, avere coraggio da vendere e grande coscienza di sé per sapere, e poi ammettere, che lo stesso concetto di ‘cucina italiana’ è farlocco, ha sì e no cinquant’anni, le nostre specialità sono perlopiù recenti e per dare uno sguardo realistico – grazie signor L. – c’è il bel podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata di Grandi e Soffiati. Così qualcosina in più si sa, oltre a Dante in padella col pomodoro pachino.