minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: otto, una bella città galiziana, ciò che non si poteva non vedere, un ragazzino e una cosa sensata che si può fare ancora oggi

Lublino. Con la elle. Ci arrivo attraversando un pezzo di Polonia orientale, ancora punteggiata qua e là di bei boschi di conifere e di pianura coltivata. Più su si possono visitare parti ancora intatte della foresta primordiale europea, abitata dal bufalo europeo, e qui, figliolo, nulla di quello che vedi sarà mai tuo: per restare agli ultimi duecento anni, fu Austria dal 1795, poi Napoleone ricostituì il granducato di Varsavia ma fu operazione breve, nel 1815 divenne Russia per un secolo, tornò Polonia nel 1918 per poi venire occupata dai nazisti nel 1939. E fu così che uno dei centri più importanti della presenza ebraica in Europe, sede di una scuola chassidica di studio del Talmud di grande tradizione, dodici sinagoghe in città, fu spazzata via in pochi anni. Dei quarantamila ebrei di Lublino, più di un terzo della popolazione cittadina, ne restarono decine, essendo diventata la Polonia meridionale e orientale il centro dell’operazione Reinhard. Il ghetto di Lublino non fu inizialmente chiuso ma le condizioni in cui quarantamila persone vivevano furono terribili perché strette in uno spazio estremamente ristretto. Poi, come a Varsavia e Lodz, le cose peggiorarono.

Nel 2005, le scuole della città si organizzarono e chiesero a tutti gli alunni di scrivere una lettera a Henio Zytomirski, un ragazzino ebreo deportato e ucciso nel campo di concentramento di Majdanek, simbolo del milione e mezzo di bambini assassinati nell’Olocausto. L’iniziativa ebbe grandissimo successo e ancora oggi, ogni 19 aprile, data della memoria, l’invito è a scrivere a Henio al suo ultimo indirizzo conosciuto, in via Kowalska, 11. L’idea di fondo del progetto è spiegata da Tomasz Pietrasiewicz: “Non si può chiedere alle persone di ricordare i volti e i nomi di 40.000 persone. Si può però chiedere loro di ricordarne uno: il suo timido sorriso, la camicia bianca con il colletto, i pantaloncini colorati, il taglio di capelli laterale, le calze con le righe… Henio”. L’aspetto particolare del progetto è che ogni lettera, ogni disegno, ogni pensiero viene rispedito al mittente con il timbro ‘Destinatario sconosciuto’, così che ci si confronti materialmente con l’assenza di Henio e di tutte le vittime della Shoah. Henio non c’è più, non leggerà le lettere, Henio è stato spazzato via dalla terra con la sua gente, inutile far finta non sia così. L’idea del ritorno al mittente la trovo davvero sorprendente, priva della facile emotività che spesso le operazioni di memoria hanno e che è facile riversare sui ragazzini. La storia di Henio oggi rientra nei programmi scolastici e il progetto, grazie anche alla rilevanza mediatica, è stato studiato sia dalla storiografia che dalla memorialistica internazionale. Fatelo e fatelo fare, ovviamente senza dire come andrà a finire, che si spiegherà poi.

Un altro aspetto cui non avevo pensato e cui contribuiscono numerosi progetti in tutto il paese è la riconciliazione tra il popolo ebraico e quello polacco. In effetti, sebbene con evidenza siano entrambi vittime dell’occupazione nazista, dal punto di vista dello sterminio le vicende furono molto diverse e non senza responsabilità individuali e collettive del secondo. Come insegna Barbero nelle sue conferenze, a eliminare persone, peste o fucile, si liberano risorse, case, lavoro, soldi, cibo, anche solo spazio. Spazio è quello che c’è oggi attorno al castello di Lublino, un curioso neogotico che mi fa venire in mente il palazzo ducale di Stettino. Spazio vuoto, un giardino, uno svincolone, un parcheggio per gli autobus, un mercato, ed è dov’era il ghetto, l’ultimo. Ai margini, è rimasto un antico cimitero ebraico non più utilizzato dal 1829 se non dai nazisti, con il loro macabro senso dell’umorismo, per le esecuzioni degli ebrei non deportati. Oggi si registra in città un certo turismo di discendenti dei sopravvissuti o delle vittime ebree, allo scopo di ricostruire le vicende e i luoghi dei padri e dei nonni. La comunità ebraica oggi in città è davvero minima, appena possibile andarono via tutti.

Il campo di concentramento di Majdanek è in città, ci si arriva a piedi, è uno dei campi grossi e di recente annoverato dalla critica storiografica tra i campi di sterminio e non di concentramento. Il campo è importante per svariati motivi. Il primo, come detto, è che era in città, nessun camuffamento formale come Buchenwald o Auschwitz, il campo era ed è perfettamente visibile, impossibile quindi non sapere. Secondo, il campo fu liberato dell’armata rossa nel luglio del 1944, ben sei mesi prima di Auschwitz. Quindi, il campo si mantenne ed è oggi perfettamente visibile in tutti i tragici dettagli perché i nazisti dovettero arretrare in fretta e furia e non riuscirono a far saltare nulla. Più importante, però, è considerare che nel luglio del 1944 l’Olocausto era in pieno svolgimento, il ghetto di Lodz non ancora liquidato, Auschwitz a pieno regime. Chiedersi, quindi, perché non si sia intervenuti prima, magari bombardando Auschwitz, è una legittima domanda alla quale, allo stato delle cose, io e non solo io non ho risposta convincente.

È una bellissima giornata, le nuvole si muovono veloci e il contrasto è molto forte. Si visitassero i campi a febbraio, con il gelo e la pioggia, il cuore si accorderebbe con l’esterno. Ricordo la visita a Buchenwald durante una delle più belle giornate di primavera io abbia mai visto, la foresta attorno era di una bellezza straziante al confronto e non riuscivo a immaginare la pena dei prigionieri a fronte di ciò che era irraggiungibile. Oppure, chi lo sa, era di loro conforto sapere che la vita andava comunque avanti e che ci sarebbero state altre primavere? difficile dirlo. Dentro le baracche fa un caldo asfissiante, è tutto il giorno che il sole scalda i tetti di metallo e, soprattutto, non hanno finestre. Le baracche delle SS le si riconoscono perché, appunto, hanno le finestre e, sul tetto, anche i camini per il riscaldamento. Il campo è davvero intatto, si possono vedere i depositi di zyklon B, le latte, tutto è lì. Non sono previste visite guidate, il campo si gira da soli; l’apparato di spiegazioni è davvero molto ben fatto, dettagliato, preciso e dilungato al punto giusto. Mi chiedo però se sia giusto vedere posti del genere senza una guida o, meglio, senza un pensiero guidato. Per dare una relazione credibile con i numeri dei reclusi e delle vittime, vengono esposte le scarpe, come ad Auschwitz, quattrocentotrentamila paia. Prendi una persona, la infili in un paio di scarpe ed ecco una moltitudine inaccessibile alla mente. Manca l’aria, mi gira la testa, ho la nausea e sono solo un turista. Attorno, la città, ci sono migliaia di persone che quando vanno in bagno vedono il campo, come si fa? Come si può?

Torno a piedi in centro per riprendermi, sono quattro chilometri, un po’ barcollo. Lublino, il centro storico, è una città davvero bella. In un’ora si vede quasi tutto, con calma. Piccola, arroccata su una collinetta e ancora murata, ruota tutta attorno a tre piazze ma si è conservata, l’impianto è medioevale e gli edifici rinascimentali e barocchi. Tutte le case sono affrescate e dipinte, l’atmosfera è davvero piacevole. Il che che contrasta ancor di più con quello che tutte le città polacche e galiziane hanno subito durante le occupazioni, quella nazista in particolare. Non riesco a scindere le cose e non è giusto farlo anche se, in nome delle primavere che vengono e verranno, è giusto vivere questi posti con la bellezza e la fortuna che ci è concessa oggi. Ancor più perché cinquanta chilometri più in là non è così.

Ed ecco dove non abita più Henio.

Infine, un suggerimento che c’entra solo un po’ ma che non posso non ridare anche qui: Destinatario sconosciuto.


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2 commenti su “minidiario scritto un po’ così di un giro balcanico-carpatico: otto, una bella città galiziana, ciò che non si poteva non vedere, un ragazzino e una cosa sensata che si può fare ancora oggi

  1. ho sbirciato ed ecco anche oggi un bellissimo testo, ricco di descrizioni ed emozioni. Grazie per avermi fatto viaggiare al tuo fianco, tra città, persone, luoghi che per me sono sconosciuti, hai aperto anche in questa occasione molti stimoli e curiosità. Vien voglia di partire, continua a viaggiare, a scrivere anche per me. T.

  2. Grazie T., non ho fatto che raccontare quello che i luoghi e le persone raccontano. È che, spesso, bisogna andarseli a prendere, questi racconti.

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